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RISPOSTE A DOMANDE INDISCRETE DI ALCUNE ACCANITE LETTRICI

In una stupenda cantina della Valpolicella una serata dedicata a far rivivere alcune pagine de La casa nella pineta e a discuterne con interlocutrici straordinariamente desiderose di scavare nel testo per scoprirne nuovi contenuti

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Articolo-intervista di Serena Mazzurana pubblicato il 23 ottobre 2018 sul sito
accanitelettrici.org [1], a seguito di un incontro sul libro La casa nella pineta svoltosi a Marano (Verona) il 4 ottobre precedente, insolitamente quanto piacevolmente ospitato dalla Cantina Armani – Tutte le altre recensioni, interviste, lettere e immagini sul tema de La casa nella pineta sono raccolte nella pagina web dedicata al libro [2] .
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Chi ha detto che i Venerdì d’Autore devono essere per forza di venerdì?

Questa volta, infatti, si è svolto di giovedì! Il 4 ottobre 2018, alla Cantina vitivinicola Albino Armani a Marano di Valpolicella, abbiamo avuto il piacere e l’onore di avere il prof. Pietro Ichino che ha presentato il suo esordio in narrativa con il romanzo La casa nella pineta, edito da Giunti, dialogando con le Accanite Lettrici Elena Segala e Serena Mazzurana.

La conversazione si è svolta nel cuore della cantina accompagnata dal suono della musica in sottofondo, creando così un’atmosfera accogliente e piacevole.

Vi raccontiamo questo Venerdì d’Autore partendo da un dettaglio che, a parlar di libri, non passa certo inosservato: la copertina. Elemento che si distingue e che in qualche modo richiama i contenuti del testo: «Gli alberi che si vedono in copertina sono i pini della casa nella pineta, quindi quelli veri» ha spiegato il professor Pietro Ichino, senza però trascurare un dettaglio fondamentale: essendo un libro autobiografico tutto ciò che viene raccontato è vero, quindi anche la copertina doveva rispondere a questo criterio. Ha poi aggiunto, riferendosi alla quarta di copertina: «[…] c’è un quadro di Soffici che ritrae un capanno […] era il capanno che la mia famiglia aveva in concessione sulla spiaggia per un privilegio dovuto al fatto che la casa nella pineta è venuta prima del Comune del Forte. […] Quando io avevo credo 5 o 6 anni vidi questo pittore che dal dietro, stranamente perché di solito li si ritraggono dal davanti, riprendeva il capanno in mezzo alle tamerici e a me sembrava un abuso, per cui andai a protestare dal nonno. […] Ci fu una risata e poi non ricordo se Soffici ce lo regalò o se il nonno volle pagarlo. Ma il quadro è rimasto, l’ho avuto in eredità io, e allora abbiamo deciso di riprodurlo nella quarta di copertina».

Tema della copertina caro a noi del Club che ne facciamo sempre un punto di partenza prima di addentrarci tra le pagine di un libro.

A quel punto, però, non si poteva non chiedere al Professore di raccontarci le reazioni che hanno avuto i componenti della famiglia alla notizia della stesura del romanzo, voluta in particolar modo dalla figlia maggiore Giulia Ichino: «All’inizio la mia figlia maggiore Giulia mi chiese di scrivere in modo un po’ ordinato tutto un insieme di regole, ma non solo regole, tutto un patrimonio familiare di idee, sulla festa, sul ricevere gli amici. Perché questa era un po’ una caratteristica, una nota dominante della vita della famiglia. Soprattutto al Forte perché lì c’era questo bene straordinario che è la pineta. Ma anche in città, anche a Milano. Il ricevere gli amici era qualcosa su cui erano state costruite tante idee, era una vera e propria cultura dell’ospitalità. Da quello poi è seguito tutto il resto del libro; e, poiché raccontavo una storia non solo mia, ogni pagina, ogni riga è stata letta da mia moglie, dalle mie due sorelle e da mio fratello Andrea e discussa con loro. Alcune cose, su richiesta di uno o una di loro, ho tagliato o riscritto».

Una famiglia borghese che si è sempre caratterizzata per il dono dell’ospitalità, dell’accoglienza, per l’importanza data ad ogni singolo invitato, per le feste anche a tema, in cui tutti dovevano divertirsi, nessuno escluso. La casa di tutti, in qualche modo: «Poi c’era l’idea che quando si apre la casa è la casa di tutti e bisogna accettare che la casa possa essere messa a soqquadro, possa subire qualche danno. Il nonno Carlo diceva: “non fare il vigile urbano”, quando mi vedeva mobilitato a impedire di fare qualcosa di irregolare».

Questi elementi permangono tutt’oggi nell’anima della casa della pineta che tutte le estati ospita delle recite teatrali [3] in cui gli attori protagonisti sono i bambini, i nostri e quelli del vicinato. Un patrimonio quindi culturale ma anche di impatto sociale che andava preservato e trascritto. E se la parola scritta non muore mai, tutti questi valori di cui si è impregnata la casa nella pineta rimarranno anche ai posteri.

Leggendo tra le pagine del libro sono molte le figure che hanno contribuito in maniera significativa alla costruzione dei valori che vengono trasmessi nella Famiglia Ichino, dalla nonna Paola al nonno Carlo, dalla mamma Francesca a papà Luciano, da don Milani a padre Acchiappati. E ognuno di loro ha giocato un ruolo fondamentale nella costruzione della vita privata, sociale e lavorativa di Pietro Ichino.

In particolare nonna Paola, i cui insegnamenti si sono tramandati e che si ritrovano anche nelle scelte che l’autore ha fatto: «Nonna Paola era un personaggio straordinario. […] Negli anni ’20 lei ci ha sempre raccontato questa cosa nei termini di un rifiuto, una chiusura che lei trovava nel modo di essere nella cultura ebraica. Lei ha voluto sbarazzarsi di questo e ha avuto una conversione al Cristianesimo molto forte, robusta sul piano esistenziale. Fece battezzare a 9/11 anni mia madre e mio zio e coltivò un suo Cristianesimo molto impegnativo sul piano morale, non era il tipo che si auto flagellasse, però aveva una vita di una sobrietà straordinaria, pur essendo di fatto la capofamiglia di una famiglia borghese, ricca. […] Diceva sempre: non abbiamo la capacità di capire che cosa deriverà da quello che ci accade […] Ma poi a questa idea ne aggiungeva un’altra che era molto coinvolgente e molto impegnativa, diceva: “tu non puoi sapere che questa cosa accade per il tuo bene o il tuo male, anche perché se sarà per il tuo bene o per il tuo male dipende da te”. Cioè sei tu che devi scavare nella situazione che si è determinata magari in senso negativo e trovare e inventare e rafforzare la parte buona. “Se impari a fare questo, vivrai sempre felice”».

Forti sono stati gli insegnamenti anche di don Milani, che ricordiamo essere un personaggio dal grande impatto sociale che ha contribuito a formare intere generazioni di ragazzi. Del suo esilio a Barbiana ha fatto un punto di forza da cui partire, che il professore in qualche modo definisce un miracolo: «Barbiana era una punizione tremenda perché era il nulla, non c’era l’acqua, luce, gas, non c’erano i parrocchiani, era sperduta in mezzo alle montagne. Lui arriva lì e dopo due mesi compie questo atto incredibile: compra per due lire i quattro metri quadrati necessari alla tomba nel cimiterino accanto alla pieve. Perché lui decide che Barbiana non è una parentesi, una pena da scontare per uscirne, ma è il luogo della sua vita, il luogo che darà un senso alla sua esistenza, al punto che […] dice: “non sono qui in punizione ma ad estrarre il bene dal nulla”. Io questa cosa l’ho vista vivere da don Milani quando Barbiana era ancora il nulla. Vedevo lì incarnato lo spirito e la filosofia che c’era stata in qualche modo trasmessa dalla nonna Paola e poi negli anni successivi ho visto crescere questo miracolo».

Una figura che merita di essere raccontata è quella del padre Luciano, con il quale i rapporti sono sempre stati un po’ particolari, dati anche gli anni del “distacco”: «La scelta di non andare in studio a lavorare con lui (era un avvocato) gli diede un dolore molto forte, duro, cocente, che lui si tenne per sé, non mosse mai un dito per impedirmi questa scelta. E poi per tutta una serie di vicende non scelte ma che mi sono accadute. […] E mi sono ritrovato per strada. Anche lì a quel punto non ho voluto andare comunque in studio, anche se lui se lo aspettava. […] solo dopo, più tardi, tornai in studio ed è stato una scoperta per me perché ho conosciuto da vicino un papà che non avevo conosciuto, la parte di lui professionista, avvocato, il suo modo di approcciarsi ai clienti, una parte che mi appassiona molto. Lui per un certo verso volle identificarsi con me. Io mi occupavo solo di diritto del lavoro e lui prevalentemente di diritto commerciale, volle riconvertirsi al diritto del lavoro per lavorare con me. Moto reciproco di trasmissione di un archivio di memorie, di tutto, che lui mi raccontava, mi coinvolgeva in mille modi. E io tendevo ad identificarmi con lui. Sempre di più mi sono sentito il “secondo” lui. Finché non gli fu diagnosticato questo melanoma già in metastasi di cui non venne mai trovato l’origine. A quel punto lui sapeva che gli restavano pochi mesi di vita. Qui si colloca quel famoso viaggio a Genova che lui volle molto insistentemente fare, Genova era la sua città natale in cui volle accompagnarmi nei luoghi della sua infanzia e raccontarmi tutto, anche il non detto nel rapporto con i suoi genitori e anche con la mamma».

Una conversazione sul libro così coinvolgente ed entusiasmante che il tempo alla fine non è mai abbastanza. Al termine della presentazione il prof. Pietro Ichino si è infatti fermato per il firmacopie e la degustazione di alcuni vini offerti dalla Cantina Albino Armani.

Ma non finisce qui!

Il professore Pietro Ichino ha infatti acconsentito a rispondere ad alcune domande “fuori onda”. La curiosità e la voglia di conoscere e approfondire era così tanta che noi non siamo riuscite a resistere e lui ha ben accolto, con una gentilezza e un garbo incredibile, questa richiesta.

Si è continuato quindi a parlare di altre figure rilevanti nel romanzo – che ricordiamo essere un romanzo autobiografico contenenti fatti, cose e persone realmente accaduti ed esistite.

Abbiamo chiesto di approfondire la figura di don Milani, per quanto la sintesi risulti in qualche modo sprecata per un personaggio del suo rilievo: «Don Lorenzo Milani, l’ho incontrato di persona nell’aprile 1959 all’età di 10 anni, quando venne ospite a casa nostra con i suoi primi sei allievi per una settimana; poi l’ho incontrato di nuovo diverse volte sia a Milano sia soprattutto a Barbiana; ma soprattutto l’ho seguito passo per passo in tutto quello che ha fatto e scritto, fino alla sua morte. È stato per me l’esempio di come portare la rivoluzione nella propria vita sia concretamente possibile».

Insieme a quella di don Milani, anche la figura di padre Acchiappati: «Fu anche lui un grande profeta di quegli anni. Ma un profeta di tutt’altro genere rispetto a don Milani. Basti pensare che, pur essendo una persona straordinariamente colta, non lasciò scritta una sola riga. I miei genitori affidarono a lui il mio “catechismo” dai nove anni in poi; e fu un catechismo molto fuori dall’ordinario. Perché lui non mi insegnò nessuna formulazione corretta delle verità rivelate, nessuna regoletta morale né tantomeno rituale. La sola cosa che cercò sempre di farmi capire fu l’essenza della rivelazione cristiana, che non sta in un insieme di concetti ma nell’esperienza dell’“eterno” nel vivo della nostra vita. Un “eterno” che non sta in una estensione temporale infinita e lontanissima, ma è qui, adesso, nella scelta libera di ciascuno di noi di dare la propria esistenza per gli altri. È quello di cui facciamo l’esperienza quando abbiamo la percezione precisa che il nostro spenderci per gli altri non è fatto solo per avere la loro gratitudine, o la gloria, o qualche ricompensa: in quel sacrificio di noi stessi, tanto più quanto più privo di gratitudine, di gloria o di altra ricompensa, sta il senso stesso della vita, il suo essere “eterna”, la sua capacità di non essere travolta dal tempo che passa per finire nel nulla come il “soffio di vento” del Qoelet. Con un’immagine antropomorfica di Dio, possiamo dire che è la sua mano che sorregge il nostro essere sottraendolo alla rovina del tempo; ma padre Acchiappati ammoniva sempre a non pretendere di descrivere Dio, per evitare il rischio di nominarlo invano».

Il ruolo della famiglia è stato fondamentale per Pietro Ichino nella trasmissione dei valori e nell’impatto sociale che ha avuto. La domanda posta, appunto, riguarda quanto ha effettivamente inciso sulle scelte e se tanto i successi quanto gli insuccessi siano stati merito della famiglia e se, crescendo in un contesto diverso, le cose sarebbero potute andare diversamente: «Non riesco a immaginare un me stesso nato e cresciuto in un contesto totalmente diverso. Il materiale di cui sono fatto è costituito per la maggior parte dall’educazione che ho ricevuto dai miei genitori e dall’ambiente nel quale essi hanno voluto farmi crescere. In questo senso anche la casa nella pineta è parte essenziale di me. […] Se nel pormi questa domanda vi riferite alla scelta del ’60 di andare a lavorare nel sindacato invece che nello studio legale dei miei genitori e dei miei nonni, sì: la considero una delle cose migliori che ho fatto. E vi rispondo di sì anche se vi riferite alla mia scelta di vent’anni dopo, di andare a lavorare con mio padre. Ho cercato di raccontare nel libro l’esperienza straordinaria, e per me del tutto inattesa, che quel “ritorno alla casa del padre” mi ha dischiuso».

Non rimaneva che chiedere quale parte del libro – e quindi della sua vita – preferisce: «Non riesco a individuare nessuna parte della mia vita che io ricordi con minor piacere, con minor desiderio di scavare nei ricordi e farli riemergere, rispetto alle altre: né l’infanzia, né l’adolescenza, né il decennio di lavoro come sindacalista, né gli anni dell’università, e neppure le due esperienze parlamentari. In ciascuna di queste parti ci sono dei momenti bellissimi, il cui ricordo rinnova in me un senso di grande felicità. Alcuni si collocano nello sfolgorio del sole in alta montagna; altri appartengono al capitolo del rapporto con mia moglie e le mie figlie; altri ancora al capitolo del mio rapporto con gli studenti in università; ma forse il più straordinario è stato quello del viaggio a Genova con mio padre per la causa che dovevamo discutere insieme in Tribunale, poi trasformato da lui in un viaggio attraverso la sua vita nel quale volle coinvolgermi fino in fondo, alla vigilia della fine».

Verso la fine del libro c’è una parte intitolata “Trasmissione di un’identità”. In particolare, la frase: «Incominciai a sentirmi come un suo clone. E l’idea di essere un altro lui non mi dispiaceva affatto; anzi, la coltivavo cercando di favorire un trasferimento dal suo cervello al mio delle informazioni necessarie perchè io potessi pensare come pensava lui e le cose che pensava lui». Si parla di suo padre, quindi. È a questa trasmissione di identità che si riferisce quando parla di una esperienza straordinaria conseguente a quel ritorno a casa? «In gran parte sì. Quando, a vent’anni, decisi di tradire le attese di mio padre, lo conoscevo soltanto per una metà scarsa. Se allora avessi saputo tutto quello che rischiavo di perdere di lui, forse non me la sarei sentita di compiere quella scelta. Però, forse, se non ci fossero stati quei vent’anni di distacco, gli ultimi anni vissuti insieme non sarebbero stati così straordinariamente intensi».

Rifarebbe le stesse scelte fondamentali che hanno segnato la sua vicenda personale? «Se nel pormi questa domanda vi riferite alla scelta del ’60 di andare a lavorare nel sindacato invece che nello studio legale dei miei genitori e dei miei nonni, sì: la considero una delle cose migliori che ho fatto. E vi rispondo di sì anche se vi riferite alla mia scelta di vent’anni dopo, di andare a lavorare con mio padre. Ho cercato di raccontare nel libro l’esperienza straordinaria, e per me del tutto inattesa, che quel “ritorno alla casa del padre” mi ha dischiuso».

Un Venerdì d’Autore, quindi, davvero speciale. Speciale quanto il professor Pietro Ichino e il suo splendido racconto di se stesso attraverso la storia di una famiglia che negli anni si è fatta veicolo di una trasmissione di valori importante.

L’evento è stato organizzato dall’Associazione Botta&Risposta e dal Club delle Accanite Lettrici e Accaniti Lettori, in collaborazione con la Cantina che lo ha ospitato. Si ringrazia anche il Comune di Marano di Valpolicella, la Libreria Jolly che ha fornito le copie del libro e la Valpolicella Benaco Banca.

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