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LAVORO E LOTTA ALLA POVERTÀ: A CHE PUNTO SIAMO

Gli annunci sconsiderati di questo Governo stanno accentuando la frenata dell’economia e dell’occupazione, prima ancora che la nuova legge finanziaria, quella vera, sia stata presentata dal Governo al Parlamento – Le strategie possibili per uscire dal tunnel

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Intervista a cura di Aldo Novellini, per la rivista La Voce e il Tempo, organo della Diocesi di Torino, dicembre 2018 – In argomento v. anche la mia intervista a Italia Oggi del 2 ottobre, Chi paga i costi dell’inaffidabilità [1] e il mio ultimo editoriale telegrafico, La retromarcia degli avventuristi [2] .
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Pietro Ichino ha voluto far coincidere la fine del decennio di suo “servizio civile” in Parlamento – come lui lo chiama – con la pubblicazione di un libro, La casa nella pineta. Storia di una famiglia borghese del Novecento [3] (ed. Giunti) che è un’autobiografia al tempo stesso politica ed esistenziale. “L’ho scritta” dice “anche per rispondere a chi mi contesta una incoerenza tra l’essere stato un discepolo di don Lorenzo Milani e i progetti e proposte di politica del lavoro per i quali mi sono battuto con molta convinzione negli ultimi vent’anni”. Ora l’ex-senatore è tornato a insegnare il diritto del lavoro all’università di Milano; ma non ha smesso le vesti di osservatore attento e commentatore di quanto accade nello scenario politico ed economico.

Professore, come vede la situazione attuale dell’occupazione in Italia?
Stiamo assistendo a una brusca frenata. Gli ultimi dati Inps, relativi al mese di settembre, fanno pensare addirittura a una inversione di tendenza rispetto al notevole aumento del numero e della percentuale degli italiani al lavoro che ha caratterizzato gli ultimi quattro anni.

In che modo si può promuovere la creazione di lavoro, e in particolare di lavoro stabile?
L’aumento dell’occupazione è dato dall’aumento degli investimenti sommato all’aumento della domanda di beni e servizi. Puntare direttamente sull’aumento della domanda di beni e servizi costa allo Stato molto e rende poco in termini di crescita occupazionale. L’esperienza insegna, invece, che la strategia più efficace per ottenere una crescita strutturale del tasso di occupazione è quella che punta a rendere il Paese più attrattivo per gli investimenti, con la riduzione della pressione fiscale su impresa e lavoro e la semplificazione degli adempimenti amministrativi, e contemporaneamente punta su un miglioramento della qualità dei servizi di formazione, che devono essere mirati agli sbocchi occupazionali effettivi e monitorati per quel che riguarda l’efficacia.

Si parla molto di taglio del “cuneo” fiscale e previdenziale. È davvero fattibile?
Certo che sì. Tanto è vero che in parte lo si è già fatto. La legge finanziaria varata nel dicembre scorso dimezza in modo strutturale, cioè per tutti gli anni a venire, il cuneo previdenziale per tutti i giovani fino a 29 anni per i primi tre anni di lavoro; e poiché questo sgravio è cumulabile con quello già previsto per l’apprendistato, questo porta a circa sei anni la durata del beneficio. È solo un primo passo, ma nella direzione giusta.

Il cosiddetto decreto dignità del luglio scorso ha ristretto l’uso dei contratti a termine. Per qualcuno si sono persi dei posti di lavoro. Quale è la sua impressione?
Una perdita di occupazione effettivamente da agosto si è verificata. Però credo che sia imputabile non tanto al decreto n. 87/2018, quanto al deterioramento del clima generale, con il declassamento del nostro debito pubblico da parte delle agenzie di rating e l’aumento dello spread sopra quota 300.

Una ciclofattorina di Foodora in piazza Gae Aulenti a Milano

Riders, ovvero lavoratori che consegnano a domicilio: come superare questa sorta di precarietà legalizzata?
L’esistenza di questa forma di lavoro, che consente a qualsiasi giovane di guadagnare qualche centinaio di euro al mese lavorando quando e quanto vuole, senza vincoli di orario, potendo conciliare facilmente questo impegno con quelli di studio o di altro genere, non mi sembra di per sé un male. Occorre solo proteggerla meglio sul piano retributivo e previdenziale. È male, invece, che da questa forma di lavoro un giovane non riesca a passare a un lavoro più sicuro e più redditizio nel momento in cui decide di farne la propria occupazione principale. Per questo occorre potenziare i servizi di orientamento scolastico e professionale e la qualità dei servizi di formazione, dei quali deve essere immediatamente conoscibile il tasso di coerenza tra formazione impartita e sbocchi occupazionali effettivi.

Il reddito di cittadinanza dovrebbe essere accompagnato da misure di reinserimento produttivo dei beneficiari. Quale è la sua valutazione?
Se questa misura è destinata, come dice il ministro Di Maio, a far uscire da una situazione di povertà i cinque milioni di persone che in Italia vi si trovano, va detto subito che di questi soltanto un quarto o al massimo un terzo sono realisticamente suscettibili di essere inseriti utilmente nel tessuto produttivo. La parte restante è costituita da persone non autosufficienti, oppure da persone portatrici di handicap sociali gravi, che costituiscono un ostacolo pressoché insormontabile all’avviamento al lavoro.

Ma per il restante 30 o 25 per cento degli interessati un inserimento nel tessuto produttivo è possibile. Si parla per questo di un potenziamento della rete dei Centri per l’impiego. Cosa occorre fare?
I Centri per l’impiego già oggi stentano a svolgere le funzioni assegnate loro dalle leggi vigenti, perché le loro strutture negli ultimi anni sono state impoverite dall’esodo di una parte degli organici senza assunzioni sostitutive. Non occorre essere esperti del settore per prevedere che queste strutture non possano reggere l’enorme impatto dei compiti aggiuntivi che il nuovo programma accollerebbe loro.

Quali dovrebbero essere i loro nuovi compiti?
Di gestione burocratica delle domande, innanzitutto. Già solo questo comporta una triplicazione del carico di lavoro rispetto a quello attuale. Ma la parte più gravosa del lavoro dovrebbe essere quella relativa all’assistenza prestata a ciascuna persona richiedente e al controllo della sua disponibilità effettiva per l’inserimento nel tessuto produttivo, quando questo è possibile. È facilmente prevedibile che questa seconda parte dei nuovi compiti, meno burocratica e più operativa, sia destinata a rimanere totalmente inattuata. Col risultato che l’erogazione del sostegno del reddito sarebbe di fatto non condizionata all’attivazione effettiva del percipiente nel mercato del lavoro.

Come se ne può uscire?
Occorrerebbe innanzitutto dotare la rete dei CpI di una dirigenza dotata della competenza specifica richiesta per un servizio efficiente di assistenza nel mercato del lavoro, e responsabilizzata circa gli obiettivi da raggiungere. Per questo sarebbe necessario che almeno un dirigente su due venisse inviato a fare uno stage di sei mesi in un Paese del nord-Europa per affinare il know-how specifico. Poi occorrerebbe un adeguamento delle attrezzature materiali: nei CpI oggi accade che manchino i pc, il collegamento alla rete, o persino la carta. Infine un aumento degli organici e una loro formazione specifica.

Le imprese spesso non trovano le professionalità richieste. Come si supera questo impasse?
Potenziando l’istituto dell’apprendistato e migliorando la qualità dei servizi di formazione. È indispensabile costruire un sistema di rilevazione a tappeto del tasso di coerenza tra formazione impartita e sbocchi occupazionali effettivi, per ciascun centro di formazione, istituto scolastico, facoltà universitaria. Lo si può realizzare istituendo una anagrafe degli utenti dei corsi, i cui dati poi vengono incrociati con quelli delle Comunicazioni obbligatorie al ministero del Lavoro. Ma per questo occorre superare alcune resistenze fortissime.

Resistenze da parte di chi?
Di molte componenti del sistema della formazione professionale e dell’istruzione, i cui vertici e i cui addetti non gradiscono di essere messi sotto stress da un meccanismo che consenta la valutazione sistematica e capillare della qualità del servizio che essi rendono. Ma i policy-makers devono smettere di privilegiare l’interesse degli addetti al servizio, e incominciare a privilegiare quello degli utenti, che in questo caso coincide con l’interesse generale del sistema economico.

Vi è l’ipotesi di ridurre l’alternanza scuola-lavoro. Cosa ne pensa?
Questa misura è stata adottata in modo troppo improvvisato e con una attrezzatura insufficiente. Però, nonostante tutto, l’alternanza scuola/lavoro sta producendo buoni frutti. È una esperienza che non va ridotta, ma rafforzata e attrezzata meglio.

Come valuta il taglio di fondi per l’apprendistato previsto nella legge di bilancio?
Molto male, per i motivi detti prima.

In definitiva, come valuta, nel suo complesso, la politica economica del nostro Governo attuale?
Disastrosa. Nel senso letterale del termine: l’abbandono del “sentiero stretto” seguito dai Governi Monti, Letta, Renzi e Gentiloni, di riduzione progressiva del deficit nel rispetto degli impegni presi verso i nostri partner del sistema dell’euro e in accordo con la Commissione UE, sta portando l’Italia a un disastro economico-finanziario che genererà povertà e sofferenza soprattutto nella parte più debole della popolazione.

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