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IL TARLO DELLA RESTITUZIONE: LA PORTA STRETTA DI PIETRO ICHINO

“[…] In questo libro la storia personale diviene storia collettiva, in grado di affascinare anche il lettore non così vicino alle vicende di casa Pellizzi-Ichino; […] un volume ove si intersecano intimità familiare e vissuto dell’intero nostro paese […]”

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Recensione de
La casa nella pineta a cura di Martino Liva, pubblicata sul numero di gennaio di Appunti di Cultura e Politica, rivista bimensile curata dall’Associazione Città dell’Uomo [1], fondata da Giuseppe Lazzati, ed. Morcelliana – Tutte le altre recensioni sono facilmente reperibili attraverso la pagina web dedicata al libro [2] .
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C. Pellizzi, La casa nella pineta, pastello su carta, anni ’60

La storia, in gran parte autobiografica, di cui scrive con avvincete senso di appartenenza Pietro Ichino, incomincia da una casa e una pineta [1] [3]. La casa è quella della famiglia Pellizzi, buona borghesia milanese, dotata di tutti quei valori tipicamente lombardi del lavoro, risparmio, filantropia, solidarietà, riservatezza (oggi diremmo low profile) e fiducia operosa verso il futuro («non puoi mai sapere prima se quello che accade è per il tuo bene o per il tuo male, anche perché se sarà un bene o un male dipende in gran parte da te stesso» è il motto della capostipite Paola). La pineta è quella di Vittoria Apuana, frazione al confine con Forte dei Marmi, allora (siamo a inizio del secolo scorso) «frequentata quasi solo da pescatori». Una casa da far vivere, attività molto più difficile che costruirla o comprarla.

Un incontro indelebile: don Lorenzo Milani

La casa è l’incipit di una vicenda familiare poi segnata da un incontro, alcuni decenni dopo, nel 1960, a Milano. L’incontro con don Lorenzo Milani, il quale, in visita alla famiglia Ichino con alcuni ragazzi di Barbiana, a bruciapelo, facendo un gesto circolare per indicare tutto il benessere del salotto che lo ospitava, disse a un giovane Pietro: «per tutto questo non sei ancora in colpa; ma dai ventun anni, se non restituisci tutto, incomincia a essere peccato». Quel ragazzino, Pietro Ichino, appunto, con questo libro rilegge la propria vicenda umana e familiare attraverso le lenti della sferzata di don Milani, regalando al lettore un volume ove si intersecano intimità familiare e vissuto collettivo del nostro paese.

La pieve di S. Andrea, a Barbiana

Ichino sarà marchiato a fuoco dalla provocazione di don Milani, e, con lui, tutta la sua famiglia, a tal punto che, racconta l’autore, la madre nel dare la notizia della morte del priore di Barbiana, commenta: «ora tocca a noi far vivere le sue idee: ciascuno nel suo piccolo». E lo fece, con un lavoro incessante e pionieristico al Tribunale dei minorenni. La provocazione di don Milani per Ichino si adagiò sul terreno fertile di un ragazzo educato dai genitori a «non ciondolare», cresciuto a pane e senso di responsabilità, proteso a un naturale senso del dovere, con l’assillo di dover restituire la condizione di privilegio ricevuta. Atteggiamento, per la verità, non infrequente a tanti ragazzi borghesi cresciuti negli anni del boom economico, animati da un cristianesimo sociale o un umanesimo progressista, o, spesso, entrambe le cose.

Un affresco di tre generazioni italiane

L’autore racconta della propria famiglia specchio di un paese aperto, filantropo, progressista, civile. Una famiglia dove si studia e lavora, senza dimenticare il tempo della festa e dell’ozio culturale.

Lo sguardo di Ichino, come detto, è autobiografico ma in grado di estendersi alle vicissitudini di tre generazioni italiane, con particolare attenzione per quella dell’autore, segnata dalla rivoluzione del ’68 e dagli anni di piombo. La storia personale di Ichino diviene così storia collettiva, in grado di affascinare anche il lettore non così vicino alle vicende di casa Pellizzi-Ichino. Probabilmente non potrebbe essere altrimenti, perché Ichino è a tutti gli effetti un “uomo civile”, nel senso di chi vive pienamente la propria epoca, immerso nella società, non insensibile ai problemi della comunità cui appartiene, proteso ad appagare quel bisogno di restituzione, che si fa quasi tormento incessante, soprattutto quando il cammino della vita conduce davanti ai bivi dell’esistenza.

La scelta del sindacato, la politica, l’università

Luciano Ichino, padre di Pietro

Così, il neolaureato Ichino sceglie di lavorare all’ufficio legale del sindacato (dove rimarrà per dieci anni) anziché nel prestigioso studio legale del padre e, commenta nel libro: «se don Lorenzo mi vedesse ora – pensavo – dovrebbe riconoscere che mi sono spogliato davvero dei miei privilegi». Eppure, quanto più Ichino fugge dai privilegi, tanto più essi lo inseguono. Dopo dieci anni di avvocatura nel sindacato, l’autore, cui il PCI aveva appena offerto un posto sicuro in lista per le politiche del 1979 e nel frattempo aveva mosso i passi per candidarsi al concorso per una cattedra universitaria sempre nello stesso anno, riflette pensando che: «quando nasci “Pierino”, resti tale qualsiasi mestieri tu decidi di fare, qualsiasi ambiente decidi di frequentare». E come, in definitiva, il tarlo della restituzione dei privilegi non è una questione di stauts, classe o titolo, ma consiste nel «mettere a frutto, per restituirlo, l’investimento che la società aveva compiuto su di me».

Pietro Ingrao

Da qui le pagine scorrono velocemente, raccontando dello scrupoloso impegno politico alla Camera dei Deputati, da subito non scevro di conflitti con i membri stessi del PCI, a partire dalla “sinistra operaia” torinese. Si racconta degli incontri “nel Palazzo”, a cominciare da quelli con Ingrao e Trentin, da cui Ichino impara che «se vuoi diventare un buon politico devi imparare a preoccuparti un po’ meno di salvarti l’anima proclamando la verità agli ignoranti e preoccuparti molto di più di incidere nella mente di chi ti ascolta». E del successivo bivio, cioè la fine (precoce) dell’esperienza politica: alle elezioni successive del 1983, infatti, il PCI mise Ichino in lista, senza però assicurargli i voti per la rielezione.

La porta stretta e la casa del padre

La mancata rielezione alla Camera dei Deputati, non frena l’operosità di Ichino, che ritorna all’accademia, alle pubblicazioni e, dopo alcuni tentennamenti, quasi alla stregua di un figliol prodigo alla «scoperta del padre», nello studio legale di famiglia, per dedicarsi nuovamente all’avvocatura e al diritto del lavoro. Ma non per questo finisce l’impegno civile di Ichino (che tornerà anche a far politica in Senato nel 2008, su invito di Walter Veltroni e dell’allora neonato Pd), che alterna, nella seconda parte del libro, da un lato il suo riavvicinamento alla casa paterna (inteso come studio legale) e, dall’altro, un excursus di significativo interesse dentro la sinistra violenta del passamontagna.

Marco Biagi

L’autore ripercorre gli anni di piombo sino all’omicidio di Marco Biagi, racconta della fatica dell’essere un giuslavorista sotto scorta e dei “suoi” terroristi, riportando interventi processuali, incontri inattesi e alcune lettere. Tra cui, quella indirizzata ai brigatisti dalle pagine del Corriere della Sera del 27 febbraio 2001, quando Ichino li invitò a «smettere di considerarci reciprocamente come idee astratte, come alieni». Perché il dissenso è legittimo, talvolta inevitabile. L’odio personale, la demonizzazione come pretesto per l’aggressione fisica, invece, sono un nemico per chiunque abbia a cuore le sorti della nostra, pur fragile, democrazia.

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[1] [4] P. Ichino, La casa nella Pineta. Storia di una famiglia borghese del novecento, Giunti, 2018.