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RIFLESSIONI SU DI UNA CULTURA DEL LAVORO INADATTA AI TEMPI

Non è solo la sinistra del 3 per cento a chiedere il ritorno dell’articolo 18 – Manca ancora una consapevolezza diffusa dei danni derivanti per tutti dal regime di job property


Lettera di Enrico Castellano pervenuta il 14 gennaio 2020, in riferimento al mio editoriale telegrafico del 13 gennaio
L’articolo 18 e una sinistra senza speranza [1]Dello stesso E.C. vedi anche Un lessico familiare che rispecchia i temi e i valori di tante famiglie [2] .
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Caro Pietro,  condivido in toto le considerazioni del tuo recente editoriale [1] circa la proposta di ripristino dell’Articolo 18 fatta da Speranza, ma penso che la situazione italiana in fatto di lavoro, ben spiegata nel tuo intervento, nel titolo (L’uscita del leader di LeU ….. spiega perché quel partito non riesce a superare il 3 per cento) non appaia in tutta la sua gravità, quasi che proposte come questa siano ormai ritenute superate dalla quasi totalità del Paese.

[3]Torno su riflessioni che ho già avuto modo di condividere con te: se è vero che l’incapacità di leggere la realtà del contesto economico e sociale del terzo millennio porta la sinistra radicale all’irrilevanza, penso che la comprensione vera del problema rappresentato da garanzie del passato quali l’articolo 18 in Italia sia purtroppo scarsa. Se sul tema specifico il consenso degli Italiani per la proposta di LeU fosse pari al suo peso elettorale il problema sarebbe superato, ma temo non sia così. Continuo infatti ad essere sconcertato da quello che emerge dal dibattito pubblico e in particolare da cosa gli Italiani possono capire ascoltando i tanti cosiddetti “esperti” presenti quotidianamente sui media: proposte quali quella di LeU, che in un paese normale dovrebbero essere contestate con lo stesso scetticismo e lo stesso vigore con cui si contestano tante fake news, sono invece alla fine considerate ragionevoli, e al massimo difficili da attuare o non prioritarie. Le reazioni vanno da quelle di chi (penso ai tanti conduttori di talk show) le accoglie con considerazione al consenso esplicito di tanti commentatori che dichiarano di condividerle (“io non posso che essere d’accordo quando crescono i diritti” è il commento più recente che ricordo).

Quella che continua a mancare è la spiegazione “chiara e forte” che non si tratta di diritti o di garanzie, che l’articolo 18, prima che un  “beneficio utile che purtroppo non ci potevamo più permettere” o una “una garanzia per gli insiders da ridimensionare per dare qualche garanzia in più agli outsiders”, era un vero e proprio inganno, un’illusione che davamo a troppi e che danneggiava, prima che gli esclusi e più in generale l’economia, proprio chi pensava di beneficiarne, perché ostacolava l’adeguamento delle sue competenze e la sua motivazione al cambiamento. Che in sintesi non si tratta di qualcosa di poco utile, di meno prioritario per “innovare incisivamente le strutture produttive e coltivare competenze sempre più sofisticate” ma di qualcosa che ostacola direttamente questo obiettivo, sempre più importante nel contesto attuale e futuro.

Sono riflessioni che derivo in primo luogo dalla mia esperienza, sia lavorativa che personale. Nella prima ho avuto modo essere coinvolto direttamente in numerosi casi di licenziamento (fortunatamente di ordini di grandezza inferiori a quelli di assunzione e crescita nella carriera), o meglio, di “outplacement”, perché, in presenza dell’Articolo 18, si arrivava alle dimissioni solo se consensuali. Nei casi (fortunatamente la maggioranza) in cui le persone coinvolte hanno accettato di dimettersi, per loro si è trattato di un’occasione per “ripartire”, per ripensare al loro futuro, per trovare un lavoro più soddisfacente, alla fine per migliorare la propria esperienza lavorativa, in alcuni casi con carriere di grande successo che sicuramente non avrebbero avuto rimanendo in Azienda. I pochi che invece si sono “trincerati dietro l’Articolo 18” hanno continuato con un lavoro sempre meno soddisfacente, con sempre minori capacità di crescere e di migliorare la propria posizione. E se, come auguro loro, non hanno finito per perdere il lavoro in una situazione di “occupabilità” ormai compromessa è solo perché l’Azienda poteva permettersi qualche inefficienza (cosa che comunque non è un bene, né per le singole aziende, né per il “sistema”).

A livello personale conosco più di un giovane che svolge un lavoro non soddisfacente, poco motivante, che ogni mattina fa più fatica per alzarsi per andare a lavorare, ma che viene ostacolato nell’auspicabile ricerca di un lavoro migliore proprio dall’articolo 18, per cui rimane “attaccato” al proprio lavoro per la paura che tutti i cambiamenti comportano. E così al possibile circolo virtuoso che un cambiamento potrebbe innescare (motivazione a sforzo di apprendimento, a soddisfazione per il nuovo lavoro) si sostituisce un circolo vizioso che non può che portare al peggio: la sua obsolescenza rispetto alle esigenze del suo lavoro, o l’obsolescenza del suo lavoro, o l’obsolescenza della sua azienda.

Sono tutti esempi dei danni “diretti” fatti a chi ne beneficia dall’Articolo 18, o meglio dei danni culturali fatti dalla mentalità che all’Articolo 18 è legata. Poco importa se sia nata prima la norma o questa mentalità: il problema è che, abrogato l’Articolo 18, la mentalità continua ad essere ampiamente diffusa (complice anche il perdurare della norma nella Pubblica Amministrazione), e con questa anche i suoi danni, all’innovazione, alla produttività, alla competitività del Paese, alle prospettive per i suoi giovani.

È per questo che secondo me non dobbiamo aspettare che, con i tempi “lunghi” del cambiamento culturale la mentalità cambi da sola, non dobbiamo consolarci col fatto che le proposte di ripristino arrivino solo da un “partitino del 3 per cento”, ma dobbiamo contestare con forza, spiegandone le ragioni, questa mentalità, come facciamo con i “no-vax”, i terrapiattisti o i “no-Euro”.

Un caro saluto

Enrico (Castellano)