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NEL LAVORO AGILE ANCHE UN MODELLO NUOVO DI IMPRESA

Nonostante gli appesantimenti burocratici del tutto inutili imposti dalla legge n. 81/2017, la diffusione dello smart working può rivelarsi una conseguenza positiva, pur nel disastro prodotto dalla pandemia da coronavirus: l’embrione di un nuovo assetto dei rapporti di lavoro

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Intervista a cura di Alessandra Ricciardi pubblicata da
Italia Oggi il 13 marzo 2020 – In argomento v. anche il mio articolo pubblicato da lavoce.info il 26 febbraio 2020 Se l’epidemia mette le ali allo smart working [1]  .
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[3]L ’emergenza coronavirus potrebbe dare il la a una rivoluzione nella gestione del personale e del lavoro.  Un volta individuati compiti ben definiti, con il lavoro agile niente più sedi fisse e timbrature di cartellino, «il corretto adempimento della prestazione non si misurerà più sul tempo passato in azienda, ma sull’esecuzione di quei compiti». Lo smart working a cui stanno ricorrendo le aziende, dice Pietro Ichino, giuslavorista dell’Università di Milano, tra i padri del Jobs act, più volte parlamentare, cofondatore del Pd, è però ancora appesantito da «una serie di bardature burocratiche prive di senso». Il decreto del governo «è stato tempestivo, ma poteva essere più coraggioso». Il vero rischio per un lavoratore in smart working? «Quello di non staccare mai». La rivoluzione comporterà una trasformazione anche per il sindacato: «Da organizzatore e difensore dell’operaio-massa deve diventare l’intelligenza collettiva che guida i lavoratori nella scommessa comune con l’imprenditore sull’innovazione», dice Ichino, «quindi nella negoziazione di forme di retribuzione più legate all’aumento della produttività, se non addirittura della redditività dell’azienda».

Domanda. Professor Ichino, l’emergenza coronavirus ha spinto molte aziende a favorire il lavoro da casa dei dipendenti, il “lavoro agile”, riconosciuto da una legge di tre anni fa. Lei allora in Parlamento denunciò un eccesso di bardature burocratiche introdotte da quella legge. A che cosa si riferiva?
Risposta.
Mi riferivo innanzitutto all’articolo 22 che impone la consegna al lavoratore e al rappresentante aziendale per la sicurezza di una “informativa almeno annuale” sui “rischi specifici connessi alla particolare modalità di esecuzione” della prestazione. Nessuno è stato in grado di chiarire quale possa essere l’oggetto di questa informativa. Ma anche all’articolo 23 che impone di comunicare agli organi amministrativi competenti la pattuizione scritta fra datore e prestatore: è un costo di transazione in più che rende, poco utilmente, il lavoro un po’ meno agile.

D. Il governo è dovuto intervenire con un decreto per agevolare il ricorso a questo strumento: come se l’è cavata?
R.
L’intervento è stato molto tempestivo. Ma forse poteva essere un po’ più coraggioso, eliminando almeno provvisoriamente queste bardature, che proprio nella situazione attuale mostrano tutta la loro assurdità. La realtà è che il lavoro agile esiste già dalla seconda metà degli anni ’90: da quando esistono i pc portatili collegati a Internet. E ha sempre funzionato senza bisogno di questi appesantimenti burocratici.

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Una postazione di telelavoro predisposta dalla Telecom

D. Se è per questo, il telelavoro aveva cominciato a diffondersi già negli anni ’80…
R. Però attenzione: quello che allora chiamavamo telelavoro era una cosa molto diversa. Era tutt’altro che agile: comportava l’istallazione presso l’abitazione del lavoratore di una postazione attrezzata fissa con una consolle e un monitor, collegata con l’azienda via cavo o via radio, mediante la quale la persona interessata svolgeva a distanza, col vincolo di orario esattamente come in azienda, un’attività di contenuto professionale per lo più modesto: mansioni di centralino, di call centre e simili.

D. Cioè non consentiva la libera scelta del luogo e dell’orario del lavoro?
R. Appunto. E implicava un ingente investimento da parte dell’impresa. Il lavoro agile no. In una situazione come l’attuale, il tele-lavoro non avrebbe avuto alcuna possibilità di rapida espansione. Invece il lavoro agile ha potuto avere, proprio per effetto delle misure di contrasto al contagio, una vera e propria esplosione.

D. E secondo lei il lavoro agile può davvero sostituire il lavoro tradizionale, con timbratura del cartellino?
R.
Certo che può. A condizione che sia possibile individuare un compito o una serie di compiti bene individuati che vengono affidati alla persona interessata: il corretto adempimento della prestazione non si misurerà più sul tempo passato in azienda, ma sull’esecuzione di quei compiti. L’estensione temporale del lavoro perde gran parte della sua rilevanza.

D. Una rivoluzione nella gestione del personale.
R.
Rispetto al modello dell’impiego pubblico tradizionale, sì. Ma nelle imprese moderne che funzionano bene il lavoro è già da tempo organizzato così, anche quando si svolge materialmente dentro il perimetro aziendale: la timbratura del cartellino interessa sempre meno.

D. Non ci nascondiamo dietro un dito, i datori di lavoro in Italia spesso mal tollerano che non si sia sul posto di lavoro. Il retropensiero è che non si lavori o che comunque la produttività sia più bassa. C’è del vero?
R.
In molti casi sì. Ma in molti altri il lavoro si fa già così. E ne traggono giovamento sia la persona interessata, che può conciliare meglio gli impegni del lavoro con quelli personali e familiari, sia l’azienda, che ha un dipendente più motivato, più responsabilizzato sul risultato. Però proprio qui sta un grosso problema di fondo, che investe l’intero sistema del diritto del lavoro.

D. Quale?
R.
Quanto più la persona che lavora è responsabilizzata sul risultato, tanto più il rischio che il risultato non venga raggiunto, anche per cause esterne, ricade su di lei. Insomma, il lavoro dipendente finisce coll’assomigliare molto al lavoro autonomo. Non è un caso che il lavoro agile piaccia di più alla parte più motivata e più produttiva della forza-lavoro. Conseguentemente, allo stesso tempo si allentano i legami di solidarietà tra gli appartenenti a una stessa categoria professionale in seno all’azienda.

D. Un problema anche per il sindacato.
R.
Sì. Il sindacato, se vuole stare al passo con questa trasformazione e non rimanerne escluso, deve cambiare pelle. Da organizzatore e difensore dell’operaio-massa deve diventare l’intelligenza collettiva che guida i lavoratori nella scommessa comune con l’imprenditore sull’innovazione, quindi nella negoziazione di forme di retribuzione più legate all’aumento della produttività, se non addirittura della redditività dell’azienda. Il che porta dritto dritto a un aumento del coinvolgimento dei lavoratori nella gestione dell’impresa. Del resto, nell’idea del lavoro agile c’è già, in embrione, l’idea della partecipazione del lavoratore alla gestione e al rischio dell’impresa.

D. Non facile da realizzare.
R.
Proprio per questo un sindacato moderno deve sapersi proporre all’imprenditore non come un piantagrane, ma come un partner capace di aiutarlo concretamente nella progettazione e implementazione delle forme migliori di organizzazione, motivazione e coinvolgimento dei lavoratori nell’impresa.

D. Per questo, però, occorre che anche l’imprenditore sia d’accordo.
R.
Non solo che sia d’accordo: occorre che sia un imprenditore affidabile sul piano tecnico e sul piano etico. Se dall’altra parte del tavolo c’è il vecchio padrone delle ferriere, o anche solo un imprenditore poco trasparente negli intendimenti e nei comportamenti, tutto il discorso cade. E quello si merita di avere di fronte un sindacato all’antica e lavoratori la cui prestazione è misurata dall’orario di timbratura del cartellino.

[5]D. Il segretario della Cgil Landini lamenta che gli imprenditori italiani non brillano per modernità.
R.
Queste generalizzazioni sono sbagliate: l’imprenditoria italiana è ricca di persone di grande valore. Vedo, poi, una contraddizione tra la svalutazione della nostra imprenditoria indigena e la diffidenza radicata nei confronti delle imprese multinazionali, che caratterizza da sempre la nostra sinistra sindacale e politica. E per la verità anche la destra, sempre molto impegnata nella difesa dell’“italianità” delle nostre imprese. Se vogliamo migliorare la qualità degli imprenditori con cui abbiamo a che fare, incrementarne la modernità e l’apertura all’innovazione, dobbiamo allargare la platea: dunque abituarci a trattare con le multinazionali. Ma anche rendere il nostro Paese più attrattivo verso di esse.

D. Torniamo al lavoro agile. Quest’ultimo decreto che alleggerisce le formalità dello smart working è legato all’emergenza Covid-19. Cosa accadrà quando essa cesserà?
R.
Temo che l’alleggerimento verrà meno. La speranza è che lo tsunami Covid-19 porti almeno questo di buono: una maggiore diffusione della pratica del lavoro agile. A quel punto forse qualcuno si renderà conto dell’inutilità e anzi dannosità delle bardature burocratiche, e queste verranno abrogate.

D. Lei è contitolare di uno studio legale di grandi dimensioni. Come sono andate le cose da voi?
R.
Abbiamo rapidamente attrezzato tutti gli avvocati e collaboratori che non lo avevano ancora con il software necessario per lavorare da casa in rete e in collegamento con il gestionale e le banche dati dello Studio. Lo stesso abbiamo fatto per tutto il personale dipendente, per quel che riguarda la tenuta della contabilità, i pagamenti, l’emissione delle fatture, i depositi telematici di atti urgenti. La sede dello studio resta aperta con una presenza minima indispensabile di persone, garantita a turno da avvocati e dipendenti, come a Ferragosto. Per il resto tutto il lavoro viene svolto da casa.

D. E sta funzionando?
R. Certo, questo non sarebbe possibile con i flussi di lavoro dei tempi normali; ma ora i flussi si sono modificati: è un po’ aumentato il lavoro di consulenza, ma il lavoro giudiziale di udienza è quasi del tutto sospeso. Comunque è un’esperienza molto interessante, che sarà utilissima per quando torneremo alla normalità.

D. Dovranno cambiare anche i contratti e le tecniche di tutela?
R.
Sì, il lavoro agile pone problemi di protezione in parte molto diversi da quelli del lavoro tradizionale. Per esempio, qui non ha alcun senso responsabilizzare il datore di lavoro per la sicurezza e l’igiene del lavoro: il datore di lavoro agile è per definizione non responsabile del luogo di svolgimento della prestazione, perché non sa e non ha diritto di sapere neppure dove la prestazione venga svolta. L’obbligo di consegnare al lavoratore e al responsabile per la sicurezza annualmente una “informativa sui rischi specifici connessi alla particolare modalità di esecuzione” della prestazione è privo di qualsiasi senso. Quale può essere il “rischio specifico” del lavorare per mezzo di un pc mobile collegato con l’azienda via Internet? Il vero rischio per il lavoratore agile è un altro.

D. Quale?
R.
Quello di non “staccare” mai. Ma questo è tutto un altro discorso.