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UNA SORTA DI SEGUITO DE “LA CASA NELLA PINETA”

Non si arriva mai sufficientemente preparati alle prove, ma nulla si improvvisa, tutto è il frutto di un cammino, di esperienze vissute, di insegnamenti recepiti, che poi arrivano in soccorso

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Articolo di Irene Trentin pubblicato su
Avvenire del 21 giugno 2020 – Gli altri articoli, recensioni, interviste, interventi e documenti relativi a La casa nella pineta sono facilmente raggiungibili attraverso la pagina web dedicata al libro [1].
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Il lento sfiorire della moglie, assalita dalla malattia, lo starle vicino intensamente fino all’ultimo, vissuto non come un tragico epilogo, ma come compimento di un amore e del matrimonio. La lezione più bella del professor Pietro Ichino.

Una vita intensa da giuslavorista con la passione del divulgatore, giornalista e scrittore, e poi la politica, più volte parlamentare. A lungo nel mirino dei terroristi, non ha mai rinunciato alle sue idee, rivolgendosi anche a loro, direttamente. In tutto questo, e in tanto altro ancora, sua moglie sempre al fianco, insieme nell’avventura della vita. Sul suo blog [2] Ichino nel raccontare le ultime ore con lei ha scritto parole che hanno lasciato il segno. Per salutare l’amata moglie Costanza Rossi, morta la mattina del 9 maggio dopo 8 durissimi anni di lotta contro la Psp-Paralisi Sopranucleare Progressiva, sindrome simile alla Sla, nota anche come Sindrome di Richardson. Parole per offrire a tutti il senso di questa sofferenza – che tale resta – ma che l’ha portato a scoprire un «tesoro nascosto dove mai lo immagineremmo», diventato patrimonio di tutta la sua bella famiglia. «Riguardando indietro a questi ultimi due anni nei quali la malattia ha infierito più duramente su Costanza, e di riflesso su chi la assisteva, non ho solo una memoria di sofferenza: è stato forse il periodo più ricco e intenso di tutto il nostro matrimonio». La malattia «ne ha lentamente menomato, fino ad azzerarle, tutte le facoltà vitali».

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1973 – Il giorno del matrimonio

Ma questi giorni sono stati anche un’occasione per andare indietro, al senso di 47 anni insieme, di cui 45 da sposi dopo i primi due da fidanzati. Eppure gli ultimi due, nella continua necessità di assistenza diurna e notturna, «la mia vita è stata legata a quella di Costanza ancor più di quanto non fosse stata nei precedenti».

Non si arriva mai sufficientemente preparati alle prove, ma nulla si improvvisa, tutto è il frutto di un cammino, di esperienze vissute, di insegnamenti recepiti, che poi arrivano in soccorso. «Mi ero impegnato a essere per Costanza le gambe che aveva perduto, gli occhi al posto dei suoi che non funzionavano più, e nell’ultimo periodo anche le braccia e le mani per lavarsi, pettinarsi, vestirsi, portare il cibo alla bocca. Questo, ben presto, ha creato tra me e lei, dopo 45 anni di matrimonio, pur molto ricchi e intensi, un’intimità che non avevamo mai vissuto».

Nella sua biografia familiare [1] che Ichino aveva dato alle stampe proprio due anni fa – all’inizio di questo periodo durissimo eppure lieto, con un sorriso sempre da regalare a chi li vedeva insieme, lei in carozzella e lui ad accompagnarla – si ritrovano le radici di un rapporto rivelatosi poi in grado di vivere e accettare la durissima prova finale, fino alla separazione dei loro destini terreni.

L’insegnamento di nonna Paola, innanzitutto, di fronte a una vicenda vissuta come una sfortuna dalla famiglia, ossia l’assegnazione del «lotto del poverello» nella ripartizione del “Forte” la villetta di famiglia al mare, in Versilia: «E invece guarda ora: abbiamo la pineta più grande e più bella. All’epoca il fatto che il terreno, oltre a non avere alcuna casa, fosse interno, io stessa lo vissi come una pesante mortificazione; oggi che sul viale a mare e su via Mazzini c’è un traffico rumoroso giorno e notte, chi ha avuto il lotto sul davanti o quello sull’altro lato ha motivo di invidiare noi che ne siamo al riparo», rifletteva la nonna. Di qui l’insegnamento ripetuto spesso: «Quando ci accade qualcosa che non avremmo desiderato, c’è quasi sempre un aspetto positivo: tutto sta nel trovarlo e nel saperlo valorizzare». Insomma, «quell’esito tanto indesiderato della divisione del Forte si era trasformato quasi in un dono della Provvidenza».

E poi l’insegnamento venuto dal vissuto dei suoi genitori, che un matrimonio è una vita insieme, non una comune visione politico-culturale. Sposatosi, il papà, profondamente convinto della superiorità del genere maschile, secondo i principi del Ventennio, e lei invece già aperta ai germi dell’emancipazione femminile. Eppure, a un certo punto per entrambi, nell’avventura di una vita da vivere anche cambiando insieme, accade la fascinazione per don Lorenzo Milani, il loro amico degli anni giovanili che aveva lasciato tutti, anche una cugina di Francesca cui era legato, per andare dietro alla sua vocazione, precorrendo lo spirito di quegli anni di grandi cambiamenti.

[4]Il Sessantotto Ichino lo visse di persona, alla Statale di Milano, vedendo con i suoi occhi, nelle prime file delle manifestazioni, i primi germi di una violenza che stava per insanguinare l’Italia. Fin dagli anni della loro conoscenza, la vita dei coniugi Ichino attraversò il dramma del terrorismo, che fu anche la tragedia di famiglie una contro l’altra. Nella parrocchia di San Pietro in Sala, a Milano, «vedevamo il commissario Calabresi mettersi in fila, nella navata centrale insieme a Marcello Gentili», l’avvocato di Giuseppe Pinelli, l’anarchico della cui morte in questura il commissario era ingiustamente accusato, fin nella sua parrocchia, persino durante la preghiera dei fedeli.

La militanza nella Cgil, le prime frizioni con le rigidità sindacali da ricercatore di diritto del Lavoro. Poi un episodio cruciale arrivò a cementare la giovane coppia. Aveva 35 anni, Ichino, e inseguiva una cattedra quando un luminare come il professor Giuseppe Pera gli propose di assumere, gratis e senza promesse di “aiutini”, l’incarico di caporedattore della Rivista italiana di diritto del Lavoro, con l’unica possibilità di assumere una segretaria di redazione tuttofare, lei sì pagata. Ichino per quell’incarico pensò a un’amica coltissima che cercava un lavoro, ma purtroppo già in preda a un «male dell’anima» che l’avrebbe presto indotta a togliersi la vita, lasciando nella disperazione «il marito e le sue figlie deliziose Widad e Susanna, che da quel momento sentimmo figlie anche nostre».

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2007 – Il processo alle Nuove Brigate Rosse

Non aveva proposto quell’incarico, presso l’editore Giuffré, a sua moglie Costanza, che era ricercatrice di Storia moderna a Bergamo, ma a quel punto fu lei a decidere prenderlo per sé, anche se era meno retribuito e meno sicuro, anche per poter meglio accudire quelle due bambine. «Ero preoccupato che potesse più tardi pentirsene; invece avrebbe svolto quel lavoro con me per i 23 anni successivi, per un totale di quasi 100 fascicoli della rivista e di circa 50mila pagine di bozze corrette, condividendone i criteri fin nei più piccoli dettagli, senza mai che la sentissi rimpiangere l’università», ricorda Ichino.

Di lì a poco per lui arrivò anche la cattedra universitaria, ma con essa anche la minaccia terroristica che l’indusse a scrivere una drammatica lettera alla famiglia con le “istruzioni per l’uso” se fosse finito nelle mani di rapitori: l’istruzione era di “non pagare” per nessun motivo. Una minaccia fattasi concreta in anni più recenti, quando – dopo Marco Biagi – l’Antiterrorismo fece appena in tempo a scoprire che sarebbe toccato a lui, a Pietro Ichino, il giuslavorista con l’aggravante di essere anche un politico e scrittore.

[6]Invece l’insidia mortale, lenta ma inesorabile, si è presentata a sua moglie, e stavolta è toccato a lui starle dietro, memore di quell’insegnamento della nonna Paola, di cercare il bene nascosto in un male. Costanza è morta in un periodo in cui era vietato l’abbraccio pubblico in un funerale, ma con i suoi cari vicino. «Papà ha deciso di restituire con gesti di quotidiana tenerezza e le notti accanto alla mamma, tutto quello che aveva ricevuto in 45 anni di matrimonio», hanno detto le figlie Giulia ed Anna [7]. «La “fede” in quel bene nascosto – conclude Ichino – si è rivelata non solo frutto di speranza, non solo immaginazione di una consolazione promessa altrove, ma conoscenza – nel senso più profondo del termine – di qualche cosa di molto concretamente tangibile».

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