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IL DIAVOLO E L’ACQUA SANTA

Coniugare il diritto alla riservatezza con il diritto del lavoro è un po’ come mettere insieme due opposti, perché il primo è eminentemente disponibile, mentre la protezione lavoristica per la maggior parte non lo è: donde le difficoltà di interpretazione della normativa in materia, per la cui soluzione l’approccio comparatistico è di grande utilità

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Prefazione al libro di Alessandra Sartori, Il controllo tecnologico sui lavoratori. La nuova disciplina italiana tra vincoli sovranazionali e modelli comparati, in corso di pubblicazione per i tipi dell’Editore Giappichelli, giugno 2020 – In argomento v. anche il mio editoriale telegrafico su L’oscurantismo della (falsa) religione della privacy [1]  .
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[2]L’incrocio fra protezione della privacy e protezione della persona che lavora, in una sorta di terra di mezzo tra diritto civile e diritto delle relazioni industriali, pone una serie di problemi assai intriganti. Perché il diritto alla riservatezza è per sua intima natura un diritto disponibile, mentre il diritto del lavoro ha nel proprio DNA la limitazione, se non addirittura una drastica negazione, dell’autonomia negoziale privata.

Il diritto all’inaccessibilità della sfera personale e del domicilio, alla non conoscibilità dei dati e dei comportamenti personali, può essere annoverato tra le prerogative fondamentali della persona solo in quanto questa possa disporre in assoluta libertà del diritto stesso, aprendosi o chiudendosi senza alcuna limitazione al contatto con le altre persone, alla visibilità dal mondo esterno. Come una casa di cui non si possano aprire porte e finestre, allo stesso modo una protezione dell’inaccessibilità della sfera privata di cui non si possa liberamente disporre diventerebbe la più insopportabile delle limitazioni della libertà individuale (ce ne stiamo accorgendo in questi tempi di imposizione inderogabile del “distanziamento sociale” in funzione di contenimento della grande pandemia che affligge l’intero pianeta). L’ordinamento giuslavoristico, invece, nasce proprio per difendere la persona che lavora dal pregiudizio che può derivarle dalla libera contrattazione con l’imprenditore: detta quindi una disciplina inderogabile del rapporto; e anche nella sua evoluzione più recente – in riferimento al mercato del lavoro maturo – conserva uno zoccolo duro di standard minimi inderogabili e, anche al di sopra di quello zoccolo, tende pur sempre a favorire una regolazione collettiva, quantomeno per ridurre i costi di transazione per le parti individuali. E ancora: il diritto alla riservatezza è posto a tutela della libertà della persona, protegge la sua libertà morale, presidia il “guscio” in cui essa può chiudersi solo per garantire la sua autentica libertà di aprirlo e uscirne, di sfruttare economicamente o no la propria immagine, le proprie vicende; il diritto del lavoro è posto invece a garanzia di uno standard di trattamento in linea di principio uniforme per tutta la platea dei suoi beneficiari e, anche quando ammette la negoziazione individuale, la guarda con preoccupazione. [3]Per questo aspetto, coniugare il diritto alla riservatezza con il diritto del lavoro è un po’ come mettere insieme il diavolo e l’acqua santa.

Una delle molte espressioni con cui nel mondo anglosassone è stata indicata la protezione della privacy è “right to be let alone”, che può tradursi in “diritto di essere lasciato solo” o “in pace”; ma nel momento stesso in cui una persona si impegna in un rapporto di lavoro, proprio questa sua scelta costituisce una rinuncia a starsene da sola, un’accettazione del “contatto” tra le parti che l’esecuzione del programma contrattuale inevitabilmente esige; per lo più un contatto assai stretto. E qui le strade del diritto si dividono. Nell’ordinamento statunitense, nel quale forse più che in qualsiasi altro l’autonomia negoziale individuale è valorizzata, quando il contatto tra le parti è previsto e regolato da un contratto, e in particolare da quello di lavoro, la protezione della riservatezza personale sembra ritrarsi del tutto. Dalla nostra parte dell’Atlantico, invece, di fronte alla pattuizione che implica il contatto tra le parti, la protezione del riserbo personale non arretra: nell’ordinamento dell’Unione Europea e in quelli dei suoi singoli Stati-membri la protezione della riservatezza della persona si concreta in obblighi procedimentali a carico del datore di lavoro e in divieti di indagini e di attività di controllo sul prestatore e sulla prestazione, che né il contratto individuale né quello collettivo possono validamente disattivare in via preventiva. In America il diritto alla riservatezza si lascia mettere fuori gioco dal contratto di lavoro; in Europa no. E, come sempre, la comparazione tra i modelli di regolazione della materia praticati nei due mondi costituisce l’unico modo in cui si possono studiare e comprendere fino in fondo le filosofie e le logiche che rispettivamente sottendono ciascuno dei due.

È questo il terreno sul quale si colloca lo studio di Alessandra Sartori, che muove dal tema giuridico generale del binomio lavoro/riservatezza, per poi mettere a fuoco il tema più specifico della dialettica tra potere di controllo del datore e interesse del prestatore a non subire il controllo onnipervasivo consentito dalle nuove tecnologie. Gli ordinamenti posti a confronto sono quello statunitense, quello dell’Unione Europea, quello tedesco e quello italiano; e la comparazione tra di essi mantiene le promesse, confermandosi utilissima per chi voglia andare alla radice delle questioni.

Il libro vede la luce nel momento di massima intensità della crisi economica causata da una pandemia estesa al mondo intero. Una crisi dalla quale il mondo stesso si è lasciato cogliere totalmente di sorpresa a tutte le latitudini e longitudini, e che per la sua gravità sta mettendo bruscamente in discussione ab imis fundamentis non soltanto l’ordinamento del lavoro, ma anche gli stessi diritti fondamentali della persona e tra questi il diritto alla riservatezza e l’intera disciplina della rilevazione e del trattamento dei dati personali: basti pensare al regime di “arresti domiciliari” cui mediante decreti amministrativi nel giro di poche settimane è stata condannata metà del genere umano, nonché all’assoggettamento degli spostamenti delle persone sul territorio a una visibilità costante non solo da parte dell’autorità sanitaria o di pubblica sicurezza. Tanto più importante, dunque, per il lavoro di ricostruzione che tutti ci attende, è disporre di studi che – come questo – facciano in modo rigoroso il punto circa lo stato dell’arte della materia, sul versante del common law come su quello del civil law, mettendo a fuoco ciò che merita di essere conservato, recuperato e sviluppato e quanto invece può considerarsi caduco.

La questione specifica del controllo tecnologico a distanza sulla prestazione lavorativa è stata oggetto di un dibattito molto acceso in occasione dell’emanazione del decreto n. 151/2015, attuativo del cosiddetto Jobs Act, contenente la nuova formulazione dell’articolo 4 dello Statuto dei Lavoratori. In quell’occasione si è assistito allo scontro fra i “talebani della privacy”, schierati in difesa della formulazione originaria della norma, e i “talebani della modernità tecnologica” che ne avrebbero preferito addirittura l’abrogazione secca. Il lettore potrà vedere nel capitolo in cui questa vicenda viene trattata come, durante i lavori preparatori della norma, lo stesso Garante si sia spinto a darne un’interpretazione estremizzata a sostegno della tesi della sua incompatibilità con la disciplina europea. Lo studio di Alessandra Sartori mostra invece come la soluzione adottata per la disciplina della materia nel nostro Paese non porti a risultati pratici significativamente diversi rispetto a quelli della disciplina della materia vigente in Germania, con il suo penetrante regime di cogestione (mentre gli U.S.A. costituiscono per questo aspetto un mondo a parte, per la marcata differenza di impostazione fondamentale di cui si è detto all’inizio).

[4]Merito non secondario di Alessandra Sartori è di avere trattato la materia senza alcuna soggezione nei confronti dei protagonisti delle contrapposizioni che hanno frequentemente animato i dibattiti sulla circolazione e l’utilizzabilità dei dati relativi a prestazioni di lavoro. Il merito, cioè, di aver trattato la materia in modo laico, con occhio attento al bilanciamento degli interessi in gioco secondo il rispettivo rango. L’equilibrio, in questo bilanciamento, è tanto più difficile quanto più aspre sono quelle contrapposizioni; come lo sono state, per esempio, quando si è trattato di decidere circa la conoscibilità della valutazione della prestazione lavorativa dei dipendenti pubblici e dei professori universitari in particolare: dove – se mi è consentita una digressione su questo terreno, che non rientra nel campo di indagine di questa monografia – si è assistito addirittura a una interpretatio abrogans da parte del Garante dell’articolo 19, comma 3-bis del Codice della Privacy, a norma del quale “le notizie concernenti lo svolgimento delle prestazioni di chiunque sia addetto a una funzione pubblica e la relativa valutazione sono rese accessibili dall’amministrazione di appartenenza”; e della norma della legge sull’impiego pubblico che, in piena coerenza con il Codice, impone alle amministrazioni di «assicurare la totale accessibilità dei dati relativi ai servizi resi dalla Pubblica amministrazione tramite la pubblicità e la trasparenza degli indicatori e delle valutazioni operate da ciascuna Pubblica amministrazione», specificandone le modalità pratiche: articolo 4, comma 2, lettera h, della legge n. 15/2009. Così confondendosi i dati relativi alla prestazione di un dipendente pubblico, che dovrebbe considerarsi “pubblica” per definizione, con i dati relativi alla sua vita privata, i soli che devono essere protetti dalla visibilità e dall’intrusione.

Il fatto è che della bandiera della privacy si sono troppo facilmente appropriati, non soltanto nelle amministrazioni pubbliche, molti di coloro che dalla circolazione delle informazioni e dalla trasparenza del funzionamento delle organizzazioni in cui operano hanno da perdere qualche grande o piccola rendita di posizione. Così, viene opposta – per lo più con successo – la protezione dei dati personali per escludere, in un’amministrazione o azienda, la conoscibilità delle retribuzioni correnti, o del lavoro straordinario, o delle promozioni, anche se il dato è anonimizzato; o la conoscibilità dei dati analitici sul funzionamento degli uffici giudiziari, che sarebbe di importanza cruciale per una riforma organizzativa della Giustizia a costo zero; oppure ancora la conoscibilità dei dati – sempre anonimizzati, s’intende – sulle carriere scolastiche di milioni di studenti italiani, indispensabile per qualsiasi ricerca sul funzionamento della scuola pubblica e privata e sulle determinanti dei suoi successi e dei suoi insuccessi.

Queste poche note non hanno certo la pretesa di fare il catalogo dei casi in cui la protezione della privacy viene invocata a sproposito, o addirittura con intendimenti oscurantisti, e neppure dei casi in cui quell’indebita invocazione trova benevolo ascolto o addirittura convalida da parte delle autorità competenti; bensì soltanto di introdurre e motivare il lettore alla lettura di questo libro dedicato allo studio delle questioni che si pongono nella coniugazione tra protezione dei dati personali e protezione del lavoro, sottolineando l’interesse cruciale di questa materia e la necessità di affrontarla con il rigore e l’equilibrio con cui qui è affrontata. Non solo per l’oggi, ma soprattutto per la fase di ricostruzione che ci attende domani.

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