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L’INTELLIGENZA DEL LAVORO E LA SFIDA DELLA MOBILITÀ

Per tornare a crescere occorre sostenere robustamente i lavoratori nel passaggio al lavoro più produttivo; il blocco dei licenziamenti, invece, frena questo passaggio ingessando il tessuto produttivo e allungando i periodi di cassa integrazione, con redditi bassissimi per i lavoratori e deterioramento delle loro professionalità

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Intervista a cura di Cinzia Ficco, pubblicata sul sito
tipitosti.it [1] il 16 agosto 2020 – In argomento v. anche l’intervista pubblicata il 30 luglio 2020 su Italia OggiLavoro: la sfida della mobilità che un Governo col fiato corto non raccoglie [2] .
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[3]In Italia ci sono grandi giacimenti occupazionali che chiedono solo di essere valorizzati. La globalizzazione consente ai lavoratori, se lo vogliono e sanno farlo, di attirare in casa propria gli imprenditori da ogni parte del mondo, quindi anche di scegliere i migliori. Ma per questo occorrono: un mercato del lavoro innervato da servizi efficienti, relazioni industriali nelle quali modelli sindacali diversi possano davvero competere tra loro, la crescita di un sindacato capace di essere l’”intelligenza collettiva” dei lavoratori, cioè, di guidarli nella scelta dell’imprenditore e nella negoziazione della scommessa comune sul piano industriale innovativo.

È in sintesi la posizione del giuslavorista Pietro Ichino (Milano, ‘49), che si può leggere nel suo bel libro (L’intelligenza del lavoro. Quando sono i lavoratori a scegliere l’imprenditore [4]), pubblicato di recente da Rizzoli. Poco meno di 270 pagine, che sono un messaggio di speranza in una fase come quella attuale, segnata dai pesanti effetti sanitari, ma anche economici del virus.

Sembra surreale parlare di lavoratori con il potere di scegliere i propri datori di lavoro? E, invece, è già successo e ne hanno dato esempio, quando, nel 2008 bocciarono Air France e si accordarono con l’italianissima cordata, promossa da Berlusconi: la Cai. O quando nel 2010 prevalse il sì nel referendum di Pomigliano sul piano industriale Fabbrica Italia, presentato da Marchionne. Ma solo nel secondo caso si potrebbe parlare di una scelta intelligente.

Ma proviamo a capire cosa si intenda per intelligenza del lavoro, se in Italia esistano imprenditori e lavoratori intelligenti e quanto sia vero che, nonostante la congiuntura negativa, si possa osare essere ottimismi. Almeno un po’.

Professore, ci aspettano anni di grave crisi economica, con numeri di occupati sempre più bassi e lei parla di riserve inutilizzate e dice che anche il lavoratore potrà continuare a scegliere e ingaggiare l’imprenditore più capace di valorizzare il suo lavoro. Sembra si filosofeggi. Ma, se questo è il suo messaggio, è ancora valido oggi in piena crisi post Covid?
Lo è oggi ancora più di prima. È proprio nel momento in cui la disoccupazione aumenta che bisogna sfruttare i giacimenti occupazionali finora inutilizzati: centinaia di migliaia di posti che rimangono permanentemente scoperti per mancanza delle persone capaci di ricoprirli. Bisogna quindi rendere il sistema della formazione più capace di soddisfare la domanda espressa dalle imprese; anche perché le multinazionali tendono a dislocare i propri nuovi impianti là dove trovano la manodopera che meglio soddisfa le loro esigenze. E c’è bisogno di un sindacato capace di valutare il loro piano industriale, e, se la valutazione è positiva, negoziarne il contenuto a 360 gradi.

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Maurizio Landini

A proposito di sindacato, che cosa pensa del segretario della Cgil Landini, che giorni fa ha minacciato uno sciopero nazionale per ottenere la proroga del blocco dei licenziamenti?
Lo considero – con tutto il rispetto per la persona, che stimo – un caso di scarsa intelligenza del lavoro. Se vogliamo davvero tornare a crescere, abbiamo bisogno di sostenere robustamente i lavoratori nel passaggio dal lavoro poco utile, o addirittura scomparso del tutto, al lavoro più produttivo: sostenerli da un lato con un forte investimento sulla loro formazione e controllo sulla sua efficacia, dall’altro con un aumento del sostegno del reddito nella transizione. Il blocco dei licenziamenti, invece, frena questo passaggio ingessando il tessuto produttivo e allungando i periodi di cassa integrazione, con redditi bassissimi per i lavoratori e deterioramento delle loro professionalità.

Lei propone in sostanza di un aumento del trattamento di disoccupazione?
Se fossi nel sindacato rivendicherei un trattamento integrativo di disoccupazione a carico dell’impresa che licenzia: per esempio, il 10 o il 15 per cento dell’ultima retribuzione, per sei mesi. Così la perdita di reddito per il lavoratore sarebbe ridottissima e l’impresa sarebbe incentivata a cooperare per il reperimento della nuova occupazione, per accorciare la durata del trattamento.

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Marco Bentivogli

C’è un sindacato che le pare corrisponda meglio all’idea di “intelligenza collettiva del lavoro”?
In realtà, se si guarda alla realtà periferica, tutte le confederazioni hanno, in molte aziende, dei sindacalisti che sanno incarnare il ruolo di intelligenza collettiva dei propri rappresentati. Al livello di organizzazione complessiva, però, il sindacato che ha fatto di questo il proprio modello nel modo più compiuto è la Fim-Cisl guidata da Marco Bentivogli. E spero che continui a farlo ora, sotto la guida di Roberto Benaglia.

“L’Italia non cresce da vent’anni, ha una produttività mediamente molto lontana da quelle dei maggiori Paesi europei, attrae pochi investimenti dall’estero, innova troppo poco, tende a scivolare verso i segmenti più passi delle catene del valore e schiacciare qualità del lavoro e salari”. Lo scrive Giorgio Gori, sindaco Pd di Bergamo, che in un articolo su Il Foglio chiede: “Il Pd vuole farsi carico di questi problemi – e dare quindi rappresentanza all’Italia che lavora e che produce – o no?”. Lei come risponderebbe a questa domanda?
In questo momento vedo nel Pd una pericolosa assenza di progettualità, sul terreno delle politiche del lavoro, che finisce col lasciare troppo spazio a una politica del lavoro malata: quella che si fonda sull’idea di un fondamentale antagonismo tra impresa e lavoratori. È troppo diffusa, nella attuale maggioranza, l’idea che dell’imprenditore si possa fare a meno: il ritorno in grande stile delle “partecipazioni statali” corrisponde, a ben vedere, all’idea che lo Stato sia capace di far volare gli aerei, di produrre e vendere l’acciaio, oppure gli elettrodomestici. Ma non è così: non ci può essere buon lavoro senza un buon imprenditore.

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Carlo Bonomi, presidente di Confindustria

Pensa che la presidenza Bonomi in Confindustria sia pronta per la nuova sfida, quella di una “intelligenza del lavoro”, per usare il titolo del suo libro?
Spero di sì, anche se mi è parso di vedere qualche incertezza di linea nelle prime battute di questa presidenza.

Cosa pensa della fiscalità di vantaggio al Sud?
Il nostro Mezzogiorno ha bisogno soprattutto di diventare più attrattivo per le imprese. Per questo occorrono infrastrutture di trasporto e comunicazione più moderne, giustizia più affidabile ed efficace, burocrazia meno soffocante, maggiore sicurezza contro le varie mafie, e una riduzione del cuneo fiscale sulle retribuzioni. Ma occorre anche un sistema scolastico e della formazione professionale più capace di soddisfare la domanda di manodopera qualificata e specializzata espressa dalle nuove imprese. È soprattutto questo che cercano le multinazionali; e su questo terreno il nostro Mezzogiorno è arretratissimo.

Perché ce l’ha tanto con i dipendenti della Pa in smart working durante il lockdown?
No, guardi, l’immagine di me come di uno che “ce l’ha con i dipendenti pubblici” è quella che è stata diffusa da coloro che volevano eludere il problema su cui ho cercato di aprire una discussione. Non ho mai detto che fosse colpa dei dipendenti pubblici la sospensione del loro lavoro: ho detto che quella sospensione non poteva – e ancor meno può oggi – essere mascherata chiamandola smart working. Sappiamo che nella maggior parte dei casi il gestionale delle amministrazioni non è accessibile da remoto: come è possibile che in marzo e aprile il 90 per cento dei dipendenti pubblici fossero impegnati in smart working, come ci ha detto avventatamente la ministra della Funzione Pubblica?

Per chiudere, nel post Covid, proviamo a lanciare un messaggio di speranza vera: si potrà creare lavoro, come e chi dovrà farlo?
Torniamo al discorso iniziale: occorrono sia l’intelligenza del lavoro individuale, sia quella collettiva, necessarie innanzitutto per sfruttare fino in fondo tutti i giacimenti occupazionali finora ignorati, poi per trasformare profondamente il nostro sistema della formazione professionale, controllandone sistematicamente l’efficacia in relazione alla domanda espressa dal tessuto produttivo. Occorre un sindacato capace di fare sponda agli imprenditori migliori, accettando la scommessa comune sull’innovazione, e imprenditori capaci di fare altrettanto nei confronti del sindacato aperto a questa scommessa. Occorre anche una capacità dello Stato – per nulla scontata – di spendere, e spendere bene, le enormi risorse che ci arriveranno dall’Europa per rafforzare e integrare le nostre infrastrutture, ammodernare le strutture dei servizi incominciando da quello scolastico e da quello sanitario. In questa fase attribuirei però allo Stato più un ruolo di regolatore del traffico che quello di imprenditore.

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