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IL CIRCOLO VIZIOSO DEL NOSTRO MERCATO DEL LAVORO

Il mercato del lavoro italiano è caratterizzato da un equilibrio deteriore, tra debolezza della domanda, protezioni centrate sulla stabilità del posto, scarso sviluppo dei servizi nel mercato, peggiore allocazione delle risorse umane, irreperibilità della manodopera necessaria per le imprese, scarsa attrattività del Paese per gli investitori

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Intervista a cura di Giuliano Testi pubblicata su
LawHR, 15 dicembre 2020 – In argomento v. anche Il lavoro indebolito dal difetto dei servizi necessari nel mercato [1] .
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In Italia ci sono grandi “giacimenti occupazionali” che chiedono solo di essere valorizzati. La globalizzazione consente ai lavoratori, se lo vogliono e sanno farlo, di attirare in casa propria gli imprenditori da ogni parte del mondo, quindi anche di scegliere i migliori. Ma per questo occorrono un mercato del lavoro innervato da servizi efficienti, relazioni industriali nelle quali modelli sindacali diversi possano davvero competere tra loro, la crescita di un sindacato capace di essere l’intelligenza collettiva dei lavoratori, cioè, di guidarli nella scelta dell’imprenditore e nella negoziazione della scommessa comune sul piano industriale innovativo. Prendiamo spunto da queste, che sono le idee centrali sulle quali è costruito il discorso proposto da Pietro Ichino ne L’intelligenza del lavoro. Quando sono i lavoratori a scegliersi l’imprenditore (Rizzoli, 2020), per porgli alcune domande in proposito.

[2]Professor Ichino, in quest’ultimo suo libro lei parla di “giacimenti occupazionali”, ma la sensazione percepita dalla grande massa delle persone è quella di un’estrema difficoltà nel trovare lavoro, soprattutto all’interno di determinate aree geografiche.
Il punto è proprio questo: chi cerca un’occupazione ha la percezione di un mercato in cui la domanda di lavoro è latitante, ma contemporaneamente le imprese cercano lavoratori senza trovarli. E non soltanto nelle fasce professionali superiori: anche in quelle più basse. Certo, la domanda di lavoro ha subito una forte flessione in questi mesi; ma il problema cruciale, nel nostro Paese, prima e più che il difetto della domanda, è costituito dal difetto dei servizi indispensabili per mettere la domanda in comunicazione con l’offerta.

Davvero le imprese cercano e non trovano la manodopera di cui hanno bisogno?
Nel primo capitolo del libro riporto i dati dell’indagine svolta da Unioncamere e Anpal sulla situazione a fine 2019: 1,2 milioni di posti permanentemente scoperti per mancanza delle persone capaci di coprirli. Ma la cosa sconcertante è che questa situazione si protrae anche durante l’attuale fase di crisi gravissima: il bollettino pubblicato da Unioncamere e Anpal a novembre 2020 dà conto della previsione da parte delle aziende di 763mila assunzioni nell’ultimo trimestre di quest’anno, in tutte le fasce professionali, con difficoltà di reperimento del personale nel 32,5 per cento dei casi: un caso su tre! È inammissibile che, con la fame di lavoro che c’è in questo momento, noi sprechiamo 250mila posti che sarebbero lì pronti, senza bisogno di incentivi statali.

Come va affrontata  questa situazione paradossale?
Attivando i servizi di informazione e orientamento, e i percorsi di formazione mirata agli sbocchi occupazionali esistenti, dei quali occorre controllare capillarmente e permanentemente i risultati in modo da garantirne l’efficacia. Ma per questo occorrerebbe investire sulle politiche attive del lavoro; invece noi stiamo spendendo decine di miliardi per le politiche passive, cioè il sostegno del reddito delle persone che perdono il lavoro, o sono temporaneamente sospese, senza investire un euro sulle politiche passive.

[3]Il Governo, però, ora ha stanziato 500 milioni per questo capitolo di spesa.
Ne occorrerebbero di più, e avrebbero dovuto essere investiti prima, perché le politiche attive del lavoro non si improvvisano da un giorno all’altro.  Ma la mia preoccupazione è che neanche questi 500 milioni finiscano per essere spesi sul serio nelle politiche attive: vedo il pericolo che vengano destinati principalmente a rinnovare i contratti con i cosiddetti navigator, quelle migliaia di giovani di cui si è fatta un’imbarcata due anni fa con l’idea che potessero essere adibiti ad aiutare i percettori del Reddito di Cittadinanza a trovare un lavoro, ma che non avevano la preparazione necessaria  e, di fatto, nel migliore dei casi sono stati assegnati in affiancamento ai dipendenti dei Centri per l’Impiego, per il disbrigo di pratiche burocratiche. Ricordo, a questo proposito, che i Job Advisor dei Paesi del centro e nord-Europa hanno, di regola, due o tre anni di formazione specialistica post-laurea. La verità è che il Governo sembra il primo a non credere davvero nell’utilità delle politiche attive del lavoro.

Che cosa la induce ad affermarlo?
Il fatto che – unico in tutto l’occidente sviluppato – il Governo italiano abbia scelto la scorciatoia del blocco dei licenziamenti per un periodo di oltre un anno. Una vera follia.

Il blocco non può servire per difendere l’occupazione in attesa che “passi ’a nuttata”?
Vede, i casi sono due: o l’eccedenza di organico è temporanea, essendoci una prospettiva reale di ripresa del lavoro nella stessa impresa al termine della crisi, e allora la Cassa integrazione “automatica” attivata per far fronte alla pandemia è più che sufficiente per evitare i licenziamenti: in questo caso l’impresa non ha alcun interesse a licenziare; oppure l’eccedenza di organico è irreversibile, e allora impedire il licenziamento significa soltanto mettere delle persone in freezer, perdere tempo prezioso invece che attivare subito i percorsi per la ricollocazione, che nella maggior parte dei casi – come abbiamo visto prima – sarebbe possibilissima se si attivassero i percorsi di formazione mirata necessari. Nel primo caso il blocco dei licenziamenti è inutile; nel secondo caso è come nascondere la polvere sotto il tappeto. Anzi è più dannoso, perché ogni mese di inerzia in più riduce l’occupabilità delle persone, la loro appetibilità per le imprese.

E intanto le imprese cercano personale e non lo trovano…
… quindi tendono a insediarsi altrove, dove lo trovano. Dobbiamo tenere conto anche di questo: la domanda di lavoro è funzione anche della capacità del tessuto economico-produttivo di rispondere alla domanda delle imprese di manodopera qualificata e specializzata in relazione alle loro esigenze specifiche.

[4]Nelle difficoltà del nostro mercato del lavoro non vede anche una componente culturale, soprattutto per quanto riguarda i giovani?
La componente culturale c’è eccome ed è molto rilevante; ma è parte integrante di un equilibrio deteriore, di un circolo vizioso nel quale ogni elemento è causa e al tempo stesso effetto di un altro. L’assenza di servizi efficienti nel mercato è (con)causa di una minore propensione delle imprese a insediarsi in Italia, perché trovano meno facilmente il personale qualificato e specializzato di cui hanno bisogno; questo riduce la domanda di lavoro; la percezione della debolezza della domanda genera paura del mercato del lavoro e preferenza per regole che proteggono la stabilità del posto di lavoro; quanto più i posti di lavoro sono stabili (ovvero i licenziamenti costosi e difficili), tanto meno le persone si muovono alla ricerca dell’azienda più capace di valorizzare le loro capacità, e tanto meno i servizi efficaci di informazione e formazione mirata agli sbocchi occupazionali esistenti vengono percepiti come indispensabili; donde l’indifferenza dell’opinione pubblica di fronte alla carenza di servizi efficienti nel mercato, lo scarso impegno del Governo per migliorarli, la preferenza per concentrare tutta la spesa sulle politiche passive, a  scapito delle politiche attive del lavoro. Così il cerchio si chiude.

La crisi economico-occupazionale causata dalla pandemia, evidente sotto gli occhi di tutti, potrà avere come conseguenza una maggiore ricerca di efficienza, una presa di coscienza della necessità di operare scelte anche coraggiose o quantomeno innovative a livello di mercato del lavoro e di gestione del rapporto di lavoro?
La speranza è che le cose vadano così. Ho scritto questo libro proprio per spingere in questa direzione.

Sarà possibile una maggiore apertura verso gli imprenditori stranieri o al contrario prevarrà la spinta nazionalista/populista della difesa dell’italianità ad ogni costo?
Nella seconda parte del libro mi propongo di mostrare come non sia importante solo l’ intelligenza del lavoro individuale, quella che consente alla singola persona di servirsi del mercato per migliorare la propria posizione, traendone forza contrattuale, ma anche l’intelligenza collettiva, che è rappresentata principalmente dal sindacato e dal Governo. Alla quale si chiede di capire che la forza contrattuale dei lavoratori, sia sul piano individuale sia su quello collettivo, è tanto maggiore quanto maggiore è la concorrenza tra gli imprenditori sul versante della domanda di lavoro. Per questo occorre un Governo capace di fare politiche efficaci di attrazione delle imprese straniere; e un sindacato capace di guidare i lavoratori nella valutazione dei piani industriali innovativi; e, quando la valutazione sia positiva, di guidarli nella scommessa comune con l’imprenditore.

[5]Infine, a proposito di difesa dell’identità nazionale, cosa ne pensa della Brexit?
Penso che sia un clamoroso, tragico errore commesso dalla Gran Bretagna: scelta compiuta, oltretutto, da un elettorato massicciamente fuorviato da una disinformazione impressionante. Tuttavia non è detto che questo male venga solo per nuocere: per l’Unione Europea può essere un’occasione preziosa per accelerare il proprio processo di integrazione: la Gran Bretagna, da questo punto di vista, era una remora non da poco.

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