IL LAVORO INDEBOLITO DAL DIFETTO DEI SERVIZI NECESSARI NEL MERCATO

In realtà anche oggi, nella fase più acuta di una crisi economica gravissima, assistiamo al fenomeno paradossale delle imprese che cercano manodopera senza trovarla: veri e propri “giacimenti occupazionali” che restano utilizzati, per difetto dei servizi al mercato del lavoro necessari

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Intervista a cura di Massimiliano Rais, pubblicata su
l’Unione sarda il 16 novembre 2020 – Tutte le altre recensioni de L’intelligenza del lavoro sono reberibili nella pagina web dedicata al libro .
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Il giuslavorista Pietro Ichino, 71 anni, milanese, già parlamentare (deputato eletto come indipendente con il Pci e senatore con il Pd), nel suo libro, L’intelligenza del lavoro, appena pubblicato da Rizzoli, riprende, aggiornandole ai tempi nuovi, questioni che hanno sempre caratterizzato la sua attività di studioso spesso controcorrente. Ha “sfidato” le Brigate Rosse con strumenti pacifici: analisi coraggiose per le quali ha vissuto anni di vita blindata. “Il mercato del lavoro – sostiene nel volume – va visto anche come un luogo dove sono le persone a scegliersi l’imprenditore”.

Questo vero e proprio rovesciamento di prospettiva le sembra sostenibile anche in questo momento, nel quale milioni di persone stanno perdendo il lavoro?
In realtà anche oggi, nella fase più acuta di una crisi economica gravissima, assistiamo al fenomeno paradossale delle imprese che cercano manodopera senza trovarla: dai servizi informatici a quelli medico-sanitari, dai servizi alle famiglie e alle comunità locali a quelli logistici e delle consegne a domicilio, di installazione e manutenzione, della certificazione e controllo di qualità, della sicurezza e della tutela ambientale. Il discorso vale anche per quasi tutti i settori dell’artigianato. Nel libro li indico come veri e propri “giacimenti occupazionali” che restano utilizzati, per difetto dei servizi al mercato del lavoro necessari.

Non crede che, però, in questo momento il Covid stia modificando profondamente il mercato del lavoro?
È così; ed è sacrosanto che a chi perde il posto venga assicurato un robusto sostegno del reddito. Ma ciò che oggi troppo pochi hanno è la possibilità di scelta tra diversi possibili percorsi efficaci verso le opportunità di lavoro esistenti.

Che però ora non bastano certo per assicurare l’occupazione a tutti quelli che ne hanno bisogno.
Nel libro mostro che subito prima della pandemia i posti di lavoro permanentemente scoperti per mancanza delle persone adatte a ricoprirli erano, secondo il censimento Unioncamere-ANPAL, 1,2 milioni: abbastanza per dimezzare il tasso di disoccupazione che si registrava all’inizio dell’anno, riducendolo nei limiti fisiologici della cosiddetta “disoccupazione frizionale”. E anche oggi, pur nell’occhio del ciclone di una crisi gravissima, ci sono molti settori che avrebbero bisogno di personale che non trovano: sarebbe importantissimo che dei percorsi di formazione mirata indirizzassero i disoccupati verso quei settori.

Lei ultimamente ha proposto di separare gli anziani dai giovani, per proteggerli dal virus. Non sarebbe una forma di discriminazione?
Il Covid-19 ha un tasso di letalità bassissimo per chi ha meno di 50 anni, altissimo per chi ne ha più di 60. La proposta è dunque di consentire agli under50 di andare a scuola o al lavoro senza limitazioni, cercando invece di creare ambienti separati per i più anziani e semmai riservando a loro il lavoro da remoto e la Cassa integrazione. Una separazione totale non sarebbe possibile; ma quanto più si riuscisse ad attuarla, tanto più si ridurrebbero i danni da contagio, limitando i danni all’economia nazionale.

In questo modo, però, non correremmo il rischio di riaprire le scuole agli studenti, mentre gli insegnanti resterebbero a casa?
No: a scuola si potrebbero lasciar andare anche gli insegnanti fino a un certo limite di età, per esempio i 55 anni. Solo agli altri si dovrebbe chiedere di fare lezione da casa, fornendone loro i mezzi tecnici. E lasciando che siano gli insegnanti più giovani a “tenere” in aula i ragazzi.

Lo smart working lo hanno adottato ampiamente gli altri settori della pubblica amministrazione. Con quali risultati?
Nella maggior parte dei casi, in realtà, si è coperta con l’etichetta dello smart work una sostanziale sospensione del lavoro. Non per colpa dei lavoratori interessati, ma perché mancavano del tutto le condizioni per il lavoro agile: a cominciare dall’accessibilità da remoto dei gestionali e dei data-set delle amministrazioni.

Il virus ci ha fatto capire quanti danni abbiano causato i tagli al sistema sanitario…
… e anche quanto dannoso sia il ritardo nell’utilizzazione degli oltre 30 miliardi che ci sarebbero messi a disposizione dal MES, proprio per ammodernare le nostre strutture sanitarie.

Quanto è a rischio il nostro sistema di welfare. Reggerà all’ondata del Covid?
Purtroppo già da prima di questa catastrofe c’era motivo di pensare che il nostro sistema pensionistico fosse minato da uno squilibrio strutturale, nonostante che la legge Fornero avesse eliminato le cause di squilibrio precedenti.

Può spiegare meglio a che cosa si riferisce?
Mi riferisco al fatto che l’equilibrio raggiunto con la riforma del 2011 si basava sul presupposto che la popolazione attiva fosse destinata a non decrescere nei decenni successivi. Ora, invece, l’Istat ci dice che l’Italia perde circa 300.000 italiani ogni anno, che in 20 anni fanno circa il 10 per cento del totale. Basta molto meno per mandare a gambe all’aria anche un sistema pensionistico più solido del nostro.

Lei ha insegnato all’università di Cagliari tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta. Come ricorda quell’esperienza?
Sono stati i primi anni del mio insegnamento come professore di diritto del lavoro: ne ho un ricordo bellissimo, non solo per il rapporto con gli studenti, ma anche per le amicizie che ne nacquero con tanti cagliaritani e con la città stessa, alla quale mi sento ancora molto legato.

Come vede a distanza la situazione della Sardegna? Il virus rischia di creare ulteriori danni soprattutto con l’industria turistica di fatto paralizzata.
La pandemia ha questo di odioso: che colpisce soprattutto i più deboli, sia tra le persone sia tra le realtà economiche. Però essa potrebbe avere anche un risvolto positivo per la Sardegna: ha costretto milioni di persone a familiarizzarsi con le tecniche del lavoro da remoto. Che può voler dire in prospettiva una riduzione notevole degli effetti negativi dell’insularismo.

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