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SE LA PRIVACY (MALE INTESA) GIOCA A FAVORE DEL VIRUS

Un equivoco grave nella concezione del diritto alla riservatezza sta ostacolando indebitamente la lotta contro il virus – L’istituzione del passaporto vaccinale corregge l’errore, ma è necessario che anche il Garante ne prenda atto.

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Articolo pubblicato il 24 maggio sul
Corriere Economia – In argomento v. anche, ultimamente, il mio editoriale telegrafico del 3 maggio scorso su Privacy e Covid [1]: ivi il link ad altri interventi precedenti sullo stesso tema

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[2]Nella campagna per la vaccinazione di massa degli italiani, e in particolare per un rapido ritorno alla normalità nel settore dei trasporti e del turismo, il Governo Draghi sta incontrando un ostacolo insidioso in un’idea tanto diffusa quanto sbagliata della protezione della privacy dei cittadini. Di questo ostacolo si era avuto un assaggio già l’anno scorso [3], quando, proprio in nome della tutela della privacy, ai tecnici incaricati di predisporre l’app Immuni per il “tracciamento” dei contagi da covid-19 venne imposto di escludere il collegamento con il gps, cioè il sistema di geolocalizzazione satellitare. Nonostante che l’uso della app fosse lasciato alla libera scelta dei cittadini. E nonostante che il collegamento con il gps fosse felicemente utilizzato invece in Norvegia e nella Corea del Sud. Come era prevedibile, questo ha condannato l’app Immuni alla pressoché totale inutilità.

Alla radice del problema sta un equivoco sulla natura del diritto alla privacy. Esso è – sì – un diritto assoluto in senso tecnico, nel senso cioè che può essere fatto valere da ciascuna persona nei confronti di qualsiasi altra. Ma è anche un diritto eminentemente disponibile: un diritto, cioè, del quale ogni persona può fare l’uso che vuole, esercitandolo o no a seconda delle proprie esigenze e delle proprie scelte. Altrimenti diventerebbe un’insopportabile prigione. Basti pensare che inferno sarebbe se non potessimo fare uso liberamente della nostra immagine, della nostra corrispondenza, o delle vicende personali, se non potessimo aprire liberamente il domicilio a chi ci pare, e così via.

[4]Prevale invece – e sembra avere eco anche in alcuni atti recenti del Garante [5] della Protezione dei Dati personali – l’idea sbagliata che il diritto al riserbo sia sottratta alla disponibilità delle persone. Alle quali dunque deve essere negato dai medici di base il certificato di avvenuta guarigione o di avvenuta vaccinazione. E ancor più deve essere negata la possibilità di esibire un “passaporto immunitario” dal quale risulti il proprio grado di immunità. La protezione della privacy dovrebbe spingersi al punto di vietare al cittadino di far conoscere a terzi, nel proprio interesse, il dato che lo riguarda. Ma questo porta al risultato, evidentemente contrario alla Costituzione, di ritorcere il diritto della persona contro la persona stessa, la sua libertà, la protezione della sua salute.

Proprio il carattere eminentemente disponibile del diritto alla riservatezza, invece, spiega perché e come possa accadere del tutto legittimamente che la persona ne disponga, per esempio, stipulando un contratto di lavoro che la assoggetta a controlli di malattia o sull’idoneità al lavoro; oppure stipulando un contratto di trasporto che condiziona la possibilità per la persona stessa di salire su un aereo o su un treno all’esibizione di un certificato di immunità. Certo, finché una legge non imporrà la vaccinazione anti-Covid a tutti (come la ha già imposta contro una ventina di altre malattie infettive), ciascuno sarà libero, a norma dell’articolo 32 della Costituzione, di rifiutarla; ma la stessa norma esclude che un cittadino sia libero di infettare gli altri. E certo non vieta che esso si vincoli con un datore di lavoro, o un un’impresa alberghiera, di ristorazione, o di trasporto, ad assoggettarsi a questo trattamento sanitario.

Sul sito del Garante della privacy si legge che il divieto nei confronti dei datori di lavoro si giustificherebbe con lo “squilibrio del rapporto” con i loro dipendenti. Ma questo argomento non può evidentemente valere per ridurre il livello di protezione dell’igiene e sicurezza nelle aziende rispetto al massimo possibile. E comunque non può essere addotto a sostegno del divieto per i medici di base di rilasciare le certificazioni richieste dai loro pazienti, o per i trasportatori, gli albergatori o i ristoratori di chiedere le certificazioni stesse a chi si avvale dei loro servizi. L’imprescindibile disponibilità del diritto al riserbo personale significa proprio questo: libertà di ogni persona di comunicare o no i dati che la riguardano; ma anche libertà per ogni operatore economico di chiedere la certificazione dei dati sanitari che siano indispensabili per la protezione di un altro diritto fondamentale di tutte le persone, qual è il diritto alla salute e alla sicurezza.

[6]Si dà il caso che anche il Parlamento di Strasburgo, su proposta della Commissione UE, stia varando un “passaporto vaccinale europeo”, considerandolo uno strumento indispensabile per ripristinare la libertà di circolazione. Ora, l’ordinamento europeo costituisce la prima fonte dell’intero sistema di disciplina della protezione dei dati personali. Se questo stesso ordinamento si orienta nel senso di rendere conoscibile il grado di immunità delle persone al virus per consentire la loro libera circolazione, perché lo stesso dato non dovrebbe essere conoscibile dall’imprenditore per consentirgli di adempiere il proprio dovere di sicurezza nei confronti dei dipendenti e delle persone che si avvalgono dei suoi servizi?