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MINIMUM WAGE, STANDARD COLLETTIVI E DIFFERENZE DI POTERE D’ACQUISTO DELLA MONETA

Gli standard retributivi complessivi orari minimi previsti dai contratto collettivi nazionali in Italia vanno da oltre 11 euro a meno di 6, rivelandosi in molti casi insufficienti al Nord, in altri eccessivi al Sud – Come si possono risolvere le due questioni di politica del lavoro che ne nascono, nell’ottica dell’introduzione di uno standard minimo universale

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Nota tecnica per la
Nwsl n. 551, 11 ottobre 2021 – In argomento, oltre alla mia relazione del 2019 citata alla fine della scheda, v. anche il mio articolo comparso sul Foglio il 5 ottobre, Il minimum wage non basta: occorre anche la trasparenza delle retribuzioni [1], nonché l’articolo di Claudio Negro del 14 marzo 2019, La questione del minimum wage: qualche osservazione di buon senso [2]

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La tabella che segue è tratta da uno studio su Salario minimo e contrattazione collettiva curato dall’Ordine dei Dottori Commercialisti di Milano e presentato nel corso di un convegno svoltosi il 26 settembre 2019. Le colonne seconda, terza e quarta forniscono per ciascun settore (indicato nella prima) rispettivamente il “minimo tabellare” orario senza incidenza delle mensilità aggiuntive rispetto alle prime 12 e dell’accantonamento del t.f.r., la retribuzione minima oraria comprensiva dell’incidenza di quelle voci ulteriori  (che costituiscono sostanzialmente una forma di risparmio contrattuale, o se si preferisce un prestito obbligatorio del prestatore al datore di lavoro) e la stessa retribuzione minima oraria onnicomprensiva al netto del contributo previdenziale posto a carico del dipendente. Nella penultima colonna il minimo onnicomprensivo orario al netto anche dell’Irpef. Nell’ultima il costo aziendale corrispondente.

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Fonte: Ordine dei Dottori Commercialisti di Milano, settembre 2019

Il dato di maggior rilievo, per ragionare sugli standard contrattuali di retribuzione complessiva lorda, è quello contenuto nella terza colonna, quella arancione. La quale pone in evidenza l’ampia gamma di minimi orari: da quello più elevato (oltre gli 11 euro) delle cooperative alimentari e degli artigiani dell’edilizia, a quello più basso (sotto i 6 euro) del lavoro domestico.

Ora, ipotizziamo che lo standard minimo orario venga stabilito – come previsto in alcuni disegni di legge presentati all’inizio della XVIII legislatura – al livello dei 9 euro: dovendo questo standard, secondo logica, essere riferito alla retribuzione lorda complessiva, ne risulterebbe che una buona metà degli standard contrattuali si collocherebbero al di sotto di quel livello. Come è evidenziato dal diagramma che segue, tratto dallo stesso studio curato dall’Ordine dei Dottori Commercialisti di Milano, citato all’inizio.

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Fonte: Ordine dei Dottori Commercialisti di Milano, settembre 2019

Per altro verso, le confederazioni imprenditoriali e sindacali maggiori temono che, se lo standard minimo universale venisse collocato sotto i 9 euro, per esempio a 8 euro o a 7,5,  questo possa costituire un incentivo per le imprese della maggior parte dei settori – quelli il cui minimo contrattuale si collocherebbe nettamente al di sopra – a disaffiliarsi dalle associazioni firmatarie per attestarsi sullo standard universale. Incentivo che sarebbe, ovviamente, tanto maggiore quanto più basso è il costo della vita: che, come si sa, in Italia è molto diverso da regione a regione.

Vi è motivo di ritenere, sulla base dell’esperienza recente della Germania, che questo timore non sia fondato. Ma se è questo che si teme, allora forse è il caso di ritornare alla formulazione della delega che era contenuta nella legge n. 183/2014 (c.d. Jobs Act) , c. 7, lett. g, che prevedeva l’«introduzione, eventualmente anche in via sperimentale, del compenso orario minimo, applicabile ai rapporti aventi ad oggetto una prestazione di lavoro subordinato, nonché, fino al loro superamento, ai rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, nei settori non regolati da contratti collettivi sottoscritti dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, previa consultazione delle parti sociali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale».

In altre parole: dove il contratto collettivo nazionale stipulato da associazioni serie c’è, il parametro per la determinazione dello standard retributivo è costituito dai minimi tabellari in esso contenuti; dove esso non c’è, lo standard minimo è quello determinato a norma di legge.

Resta, poi, il problema a cui si è accennato delle notevolissime differenze di potere d’acquisto della moneta che si registrano tra le regioni italiane: ciò che dovrebbe, secondo logica, indurre a prevedere l’applicazione di un coefficiente di adeguamento dello standard retributivo minimo a un indice regionale Istat del costo della vita (rinvio in proposito alla relazione che tenni nello stesso convegno del 26 settembre 2019 [5] sopra citato). Ma ben conosciamo le reazioni pavloviane che una proposta di questo genere suscita nel dibattito politico-sindacale nel nostro Paese.

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