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IL DECLINO DEL “TEMPO” NELLA STRUTTURA DEL RAPPORTO DI LAVORO

Con l’avvento del coordinamento informatico-telematico, nella nozione di lavoro dipendente il coordinamento spazio-temporale della prestazione con il resto dell’organizzazione aziendale tende a perdere rilievo – Che cosa ne consegue per il futuro del diritto del lavoro

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Lettera dell’avvocato giuslavorista Gianni Giovannelli pervenuta il 16 ottobre 2021 – Segue la mia risposta
Sul tema del tempo della prestazione di lavoro, oltre agli scritti citati in questo scambio epistolare, v. anche l’articolo di Cyprien Batut, Andrea Garnero e Alessandro Tondini [1] pubblicato su lavoce.info il 16 aprile 2017, e il mio editoriale telegrafico [2] pubblicato il 24 aprile successivo

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La mie vita è il mio tempo – Ripensare il lavoro

Caro Pietro, un parere che mi era stato richiesto in tema del c.d. lavoro da remoto è stata l’occasione per una riflessione più ampia sul tempo come elemento strutturale essenziale dell’obbligazione di lavoro subordinato. Cito proprio la tua prefazione al primo volume, nel 1984 [4] (già 36 anni addietro!), che ho negli scaffali e che comincia leggermente ad ingiallire verso il margine delle carte.
Sarei curioso di sapere se ci sono state rielaborazioni. Mi spiego. Nel 1984, nonostante i progressi dell’informatica, il lavoro era in qualche modo ancora legato al luogo e insieme al luogo per forza di cose anche a un tempo prefissato. Le imprese più ricche e potenti si caratterizzavano per i prodotti materiali. E i prodotti materiali esigono per loro natura luoghi e tempi. Oggi invece la lista dei miliardari vede al vertice chi si occupa di merce immateriale. Il luogo della prestazione è mutevole, comunque non costituisce più la colonna portante. E pure il tempo di lavoro sembra aver infranto il tradizionale confine fra tempo libero e tempo ceduto all’imprenditore. Con il suo telefono portatile il lavoratore è sempre raggiungibile, ma viaggia fra navigazione per diporto e navigazione mercantile. Nell’esistenza complessiva i due tempi convivono e si intrecciano. Ovviamente l’occhio cade sul risultato a consuntivo, per giunta non sempre individualizzato ma spesso dentro una magmatica cooperazione sociale da cui ormai è difficile prescindere. Nel contratto di lavoro sembra far capolino l’esistenza, la vita, come tempo di riferimento; naturalmente connessa al risultato. Mi chiedevo: ma come la vedi, qui e oggi, la collocazione temporale della prestazione? Questa formidabile transizione che stiamo vivendo che effetti ha sul reale (e non sull’astratto) rapporto di lavoro? La mia impressione è che si stia creando una sorta di scollatura fra le obbligazioni di fatto e le norme.
Basta così. Era solo l’occasione per riflettere e un interlocutore severo aiuta, così come il testo del 1984. Buon fine settimana.
Gianni Giovannelli

 

Ringrazio il caro amico e collega G.G. di avere ripreso in mano il mio libro sul Tempo della prestazione nel rapporto di lavoro [4], uscito poco meno di quarant’anni or sono. Questo mi spinge a riprenderlo in mano anch’io e a rileggeerne le pagine iniziali, poi quelle sulla sempre più marcata variabilità della collocazione e dell’estensione temporale della prestazione nell’interesse del datore e/o del prestatore di lavoro. Trovo in esse delineata una tendenza già allora percepibile al tramonto dell’“orario di lavoro” come dato rigido, caratteristico ed essenziale nel rapporto di lavoro subordinato: tendenza che era destinata a consolidarsi nei decenni successivi.
Allora, però, quello che chiamai il “coordinamento spazio-temporale” della prestazione lavorativa era ancora un elemento essenziale (ancorché non sufficiente) della nozione di lavoro subordinato; è dubbio che oggi possa affermarsi la stessa cosa.
Al tendenziale tramonto del coordinamento spazio-temporale della prestazione come elemento essenziale della fattispecie sono poi tornato nel 2012, nella seconda edizione de
L’orario di lavoro e i riposi [5] (Commentario Schlesinger del Codice Civile, 2012), dove con la co-autrice Lucia Valente ho affrontato la questione dei “rapporti di lavoro senza orario”, osservando come non abbia ormai più “alcun senso imporre un limite d’orario massimo in riferimento a rapporti in cui la retribuzione sia determinata in base al risultato e il contratto lasci il lavoratore del tutto libero di lavorare più a lungo e meno intensamente, o più intensamente e meno a lungo: è questo il caso del lavoratore che operi in condizioni di isolamento rispetto all’organizzazione aziendale e goda di un ampio margine di discrezionalità nell’organizzazione e determinazione del proprio tempo di lavoro” (pp. 143-144), cioè la forma di organizzazione che oggi viene indicata col termine smart working.
Ultimamente allo stesso tema ho dedicato qualche pagina ne
L’intelligenza del lavoro [6] (2020), osservando come ogni anno che passa la summa divisio giuridica dei lavoratori tra subordinati e autonomi corrisponda sempre meno alla realtà dell’organizzazione del lavoro nel tessuto produttivo:
   – prosegue la diffusione di forme non tradizionali di inserimento organico della prestazione lavorativa personale nella compagine aziendale; il “coordinamento spazio-temporale” tipico del lavoro subordinato viene sempre più diffusamente sostituito dal coordinamento realizzato mediante collegamento telematico col sistema informatico aziendale;
– con la legge n. 81/2017 viene riconosciuta esplicitamente la compatibilità di questa forma di organizzazione della prestazione con il contratto di lavoro subordinato;
   – nell’ultimo quinquennio prende piede l’ingaggio di persone per servizi di vario genere la cui prestazione è organizzata mediante piattaforme digitali (i platform workers tipicamente operanti nel settore della c.d. gig economy): una forma di organizzazione del lavoro che all’inizio della XVII legislatura, nel 2013, quando si incominciò a discutere del Jobs Act era ancora pressoché totalmente sconosciuta al dibattito politico-sindacale;
– l’ordinamento europeo vincola gli Stati membri a estendere alcune protezioni essenziali (legislazione antidiscriminatoria, libertà e agibilità sindacale, sicurezza e igiene del lavoro, ultimamente pure diritto all’informazione sulle condizioni di lavoro) anche a rapporti di lavoro che sicuramente non rientrano nella nozione tradizionale di contratto di lavoro subordinato e nei quali l’estensione e la collocazione temporale della prestazione possono non avere alcuna rilevanza nel programma contrattuale.
Tutto questo mi induce a pensare che sia ora di elaborare una nozione di lavoro
lato sensu “dipendente” cui applicare almeno le protezioni essenziali, molto più ampia rispetto a quella del lavoro subordinato: una nozione nella quale la continuità della prestazione in senso tecnico e il coordinamento spazio-temporale non costituiscono più elementi necessari, mentre assumono rilievo ai fini dell’applicazione delle protezioni essenziali la permanenza nel tempo del rapporto, la monocommittenza e il livello relativamente basso della professionalità, indice di debolezza nel mercato. Tratti distintivi, questi, che – come osservavo nella relazione al congresso dell’Associazione giuslavoristica del 1999 [7] – sono a ben vedere i tratti essenziali della nozione di “dipendenza economica” del prestatore dal committente, cui già il nostro diritto commerciale attribuisce peso ai fini della protezione contro l’abuso di posizione dominante.      (p.i.)

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