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PRENDERSI CURA DEL MALATO PER ESSERNE CURATI

C’è molta reciprocità nell’assistenza che si presta a una persona malata: trasforma non solo il malato, ma anche chi lo assiste; è l’esperienza di qualche cosa che supera la morte e la domina

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Estratto dal libro di Giada Lonati fresco di stampa,
Prendersi cura, Milano, Corbaccio, 2022, pp. 14-22 (l’editrice Corbaccio è un marchio Garzanti) – Propongo questo libro a credenti e no, nella settimana di Pasqua, perché sono convinto che il messaggio evangelico della possibilità della resurrezione non richieda affatto una scelta religiosa per essere recepito e vissuto; riguarda un’esperienza concreta, viva, che non presuppone atti di fede: è accessibile proprio a tutti – In argomento v. anche la pagina che scrissi nella notte che precedette la morte di mia moglie: Il tesoro nascosto dove mai lo immagineremmo [1]; inoltre la recensione del libro di Carlo Alberto Clerici e Tullio Proserpio, La spiritualità nella cura. Dialoghi tra clinica, psicologia e pastorale,  a cura di Giulia Ichino, Riflessioni sulla malattia e la cura [2] 

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[3]Non molto tempo fa ho assistito Costanza Ichino, moglie di Pietro, affetta da una grave patologia neurodegenerativa. Pietro Ichino è, oltre che docente universitario, avvocato, giornalista, scrittore, politico […] Sua moglie Costanza è stata una donna di cultura, brillante conversatrice e divoratrice di libri. Quando ci siamo incontrate, la malattia insieme all’autonomia motoria, ridotta ormai alla sola possibilità di accennare movimenti non sempre ben controllabili con una mano, le aveva tolto la possibilità di vedere e quindi di leggere e aveva limitato i suoi dialoghi a poche fa­ticosissime parole. Le restava un sorriso dolcissimo, rivolto a chi la accudiva.

Quando ho iniziato ad assisterla era così: dipendente in tutto, anche per un’azione che diamo per scontata come grattarci il naso o spostare una ciocca di capelli che ci infastidisce. Immaginare un tipo di dipendenza simile è un esercizio che ogni tanto bisognerebbe fare, anche solo per apprezzare la libertà delle piccole cose scontate del nostro quotidiano.

Del nostro primo incontro ricordo tra l’altro l’attenzione – ecco anche questo è un sinonimo di cura – con cui vengono scelti gli abiti che indossa. […] Eppure è vestita di tutto punto, certo con abiti comodi ma scelti con gusto, il golfino di cashmere azzurro abbinato agli orecchini di lapislazzuli, a raccontare un’eleganza sobria che probabilmente ha accompagnato tutta la vita di questa donna. E che giustamente il marito e le figlie continuano a far vivere.

Mi complimento con lei per l’eleganza. In un altro tempo della mia vita, avrei forse letto come vana questa attenzione all’aspetto esteriore. Oggi sento che è una parte centrale della cura, che niente ha a che vedere con la vanità fine a se stessa, ma piuttosto con il continuare a essere se stessi.

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Esserci semplicemente di fronte al mistero della vita che finisce richiama le analogie con la vita che inizia.

C’è «qualcosa di radicale che percepiamo nella comparsa di un neonato e nella sparizione di un essere che muore. Sono tante le esperienze-soglia, ogni giornata ne è costellata […]» dice Chandra Candiani, poetessa e maestra buddista, spingendosi a dire come, nonostante il nostro desiderio di fuggire dalle esperienze dolorose, proprio le esperienze di perdita e di abbandono si trasformino in «formidabili esperienze di contatto con qualcosa che conta più di noi, che è più di me e di te».[1] [4]

Più di noi, appunto.

E nelle parole della Candiani mi riconosco, negli incontri alla fine della vita, come una esploratrice alla ricerca di quello che accomuna gli esseri umani, quella sorta di essenza a cui proprio non si può rinunciare per sentirsi parte del consesso umano.

Non solo nasciamo e moriamo bisognosi di cura, ma in entrambi i casi il corpo esige uno spazio da protagonista. Il neonato è tutt’uno con i suoi bisogni fisici e proprio attraverso l’accudimento del corpo sperimenta e costruisce i fondamenti della relazione. Attraverso i sensi e grazie alla parola.

Così alla fine della vita torna a farsi evidente questa sintesi tra corpo e spirito. Il dolore globale – quello in cui gli aspetti fisici, psicologici, sociali, spirituali si sommano – ci ricorda che siamo una cosa sola. Il corpo dolente, limitato, dipendente evidenzia la fragilità dello spirito. Le domande centrali, quelle sul senso dell’esistenza ma anche sulla propria identità diventano ine­ludibili di fronte ai grandi dolori della vita, alle perdite, all’incontro con il limite. Il corpo che perde la propria autonomia richiama violentemente alla mancanza.

Chi sono io che fino a ieri avevo in mano il mondo, per lo meno il mio mondo, e oggi attendo con pazienza che qualcuno mi cambi il pannolone? Qual è l’essenza che fa sì che io resti me stessa, continui a riconoscermi per quella che ero anche oggi che guardo il mondo da una finestra perché i quattro gradini che ci sono in portineria sono diventati un ostacolo insormontabile? Quanto può adattarsi un essere umano prima di giudicare intollerabile, indegna, irriconoscibile l’esperienza di vita che sta vivendo?

Il corpo diventa finestra per lo spirito e non c’è cura della sofferenza del secondo che non passi attraverso un farsi carico amorevole e consapevole del primo.

«Come caregiver, essere una fonte di cose buone, che fanno sentire l’altro sicuro e compreso, è un modo di essere essenziale» afferma Luigina Mortari in La sapienza del cuore.[2] [5]

E, come sanno bene molti caregiver, c’è molta reciprocità in questo prendersi cura. E il percorso trasformativo non riguarda solo il malato ma anche chi agisce la cura.

La famiglia Ichino ha organizzato la casa in modo esemplare. C’è tutto quello che serve per rendere la vita più agevole e semplice, verrebbe da dire più normale. Anche la badante è la persona giusta per Costanza, in una sorta di miracolo che fa incontrare le anime: silenziosa, efficiente, dolcissima. Non ho mai respirato in questa casa un’aria che non fosse impre­gnata di amore e di serenità, nonostante tutto.

[6]E però il marito, che non ha mai rinunciato ad affiancare la badante nelle pratiche di igiene di Costanza, a tratti inizia a sentire la fatica, proprio quella fisica. Leggo negli occhi delle figlie la preoccupazione per lo sforzo che la dipendenza crescente di Costanza richiede.

Il rito più faticoso è la doccia del mattino. «Costanza trae giovamento dalla doccia. L’acqua tiepida, il suo bagnoschiuma, la crema profumata la fanno sentire bene» mi spiega il marito con il suo linguaggio un po’ aulico.

Propongo il passaggio del nostro Operatore Socio Sanitario (OSS) per dare una mano alla badante e far sì che lui possa riposarsi, spiego a entrambi che esiste la possibilità di effettuare il bagno a letto. I nostri operatori sanno fare – e insegnare – cose magiche: persino lo shampoo si può fare senza muoversi dal letto.

Costanza non si esprime. Rivolge uno sguardo al marito. Lui la guarda a sua volta, in silenzio. Poi si rivolge a me: «No dottoressa grazie, ma Costanza non può rinunciare a questo rito. Per lei è un momento di benessere insostituibile. La malattia le ha portato via tanto, finché ce la faremo andiamo avanti così. La mia schiena si aggiusta con qualche analgesico. Ce la possiamo fare, vero Costanza?». Lei sorride ora. Lui le stringe la mano, come se stessero partendo per fare una passeggiata insieme.

Costanza farà la doccia del mattino fino a tre giorni prima di morire quando avvieremo una sedazio­ne palliativa per gestire un’insufficienza respiratoria intrattabile insorta a causa di una polmonite ab ingestis, secondaria cioè all’inalazione di cibo nelle vie respiratorie. In altre parole, la difficoltà a deglutire ha determinato il passaggio di alimenti in trachea e nei polmoni e questi hanno indotto la comparsa di una grave infezione polmonare. Costanza aveva scelto di non avere alcuno strumento per forzare l’alimentazione: non un sondino nasogastrico e non una PEG (in estrema sintesi un abbocco dello stomaco all’esterno che consenta di nutrirsi bypassando l’incapacità di deglutire). Per questo si è alimentata con cibi di consistenza sempre più omogeneizzata finché ha potuto, consapevole del rischio che stava correndo e cioè che gli alimenti andassero in trachea provocandole una crisi respiratoria acuta o una polmonite. Ha scelto però di non prolungare la sua vita oltre questa possibilità. Ha definito con chiarezza e ponderazione che questo per lei sarebbe stato un limite oltre il quale non era più tollerabile considerare questa vita come buona, dignitosa, accettabile. Sapeva della sedazione palliativa e l’aveva scelta con cognizione di causa.

Pur con le enormi difficoltà comunicative che hanno caratterizzato i nostri incontri ha sempre confermato quello che aveva a suo tempo scritto nelle proprie Disposizioni Anticipate di Trattamento, dando vita a quella che altro non è se non la concretizzazione della Pianificazione Condivisa delle Cure. Che cosa facciamo se succede questo? Che cosa non facciamo? Quale percorso è più adatto alla sua idea di dignità del vivere e del morire?

In questi dialoghi in cui le parole di Costanza sono così poche e faticose, in cui le domande devono essere poste con attenzione, avendo cura di renderle domande chiuse cui rispondere con un sì o con un no, con un cenno degli occhi o con un movimento della mano, il silenzio ha avuto spesso un ruolo da protagonista.

È difficile stare in silenzio soprattutto quando le domande sono urgenti, enormi, cariche di significati. Il silenzio assume allora una dimensione quasi tangibile, occupa spazio.

Di nuovo Chandra Candiani nel Silenzio è cosa viva afferma che nonostante il nostro bisogno di riempire tutto: «Lo spazio vuoto è quello che permette alle persone e agli oggetti di entrare in relazione. Lo spazio vuoto separa e collega».

Il marito di Costanza ha imparato a stare nel silenzio, ad attendere, a usare il ritmo di sua moglie, quello che il metronomo della malattia impone.

Accompagnare in fondo è anche questo. È compagno chi condivide il pane (cum panis) e sta con l’altro, ma lo è anche chi si unisce nel cammino a qualcuno.

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[1] [7] Il silenzio è cosa viva. L’arte della meditazione, Milano, Einaudi, 2019.

[2] [8] Milano, Raffaello Cortina Editore, 2017.

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