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PROGETTO SEMPLIFICAZIONE E FLEXSECURITY: L’APPREZZAMENTO E IL DISSENSO DI LUIGI MARIUCCI

IL GIUSLAVORISTA, ESPONENTE DEL PD EMILIANO, DISSENTE DAL “METODO POLITICO” DEL PROGETTO. E, NEL MERITO, DALLA DEFINIZIONE DEL LAVORO DIPENDENTE (ARTICOLO 2094) E DALLA DISCIPLINA DELLA STABILITA’ DEL POSTO DI LAVORO (ARTICOLI 2118-2120). GLI REPLICO SUL METODO E SUL MERITO, CHIEDENDOGLI COME, A SUO AVVISO, E’ POSSIBILE SUPERARE IN MODO DIVERSO L’ATTUALE DUALISMO TRA PROTETTI E NON PROTETTI

Lo scritto qui riprodotto di Luigi Mariucci, ordinario di diritto del lavoro nell’Università Ca’ Foscari di Venezia, è pervenuto il 20 novembre 2009 – Seguono una mia replica, una controreplica del 27 novembre 2009 e una mia ultima breve risposta

L’idea che muove il progetto di semplificazione del diritto del lavoro di Pietro Ichino non è solo giusta. E’ sacrosanta. Da tempo anch’io vado sostenendo che la inutile e defatigante complicazione delle norme giuslavoristiche è direttamente funzionale alla perdita di rilevanza della disciplina. Questo riguarda non solo la moltiplicazione degli interventi di legge, ormai adottati attraverso la tecnica sciagurata delle leggi-delega a cui succedono decreti legislativi successivamente modificabili. Ma il modo stesso con cui si formano, per successiva “stratificazione”, come osservò Gino Giugni, gli stessi disposti normativi. Basti pensare a quello straordinario ossimoro costituito dall’art.1 del dlgs n.368 del 2001 sul lavoro a termine che, a seguito delle varie novazioni, dice ormai tutto e il contrario di tutto. In tal modo la norma giuslavoristica diventa, data la sua incertezza strutturale, persino dannosa per gli operatori economici.
Sostituire a norme inutilmente complesse e contradditorie norme certe e chiare è quindi essenziale. Del resto, non aveva detto Saint-Just alla convenzione francese del 1789 che “chi dà al popolo molte leggi è un tiranno”?
L’intenzione di Ichino è quindi giusta. Nel merito della proposta tuttavia segnalo, tra le altre, tre questioni di fondo. La prima osservazione è che non si può, per semplificare, modificare, talora persino radicalmente. In questo senso trovo in particolare non condivisibile, perché confusa e davvero malfatta, la nuova dizione dell’art. 2094 del c.c., riferita al lavoratore subordinato e quindi alla cruciale definizione del campo di applicazione del diritto del lavoro. In secondo luogo dissento dalla riformulazione degli artt. 2118-2119 del codice civile, che consistono in una sostanziale liberalizzazione dei licenziamenti: scelta a mio giudizio improvvida sia sul piano delle politiche nazionali del lavoro, che su quello della visione globale dei temi del lavoro, dato che tale scelta appare ancillare al pensiero liberista proprio quando tale pensiero deve essere messo in discussione, anzitutto sul piano culturale, a seguito della crisi in atto a scala globale. In terzo luogo non condivido l’idea che lo Statuto dei lavoratori, che a mio giudizio costituisce una normativa di fondo, sostanzialmente costituzionalizzata nella sua struttura, sia assorbito, fino a dissolversi, in  una legge ordinaria.
Molte altre sono le osservazioni di merito che vorrei fare sulla proposta. Ma qui è bene tenersi all’essenziale. Ne aggiungo una, di tipo esclusivamente politico. Pietro Ichino non è più un semplice professore di diritto del lavoro, un libero battitore, per così dire. E’ un senatore del PD che, in quanto tale, ha accettato una disciplina di gruppo e di partito. Non mi pare questo il momento di esercitarsi in proposte solipsistiche, che si aggiungono alle tante già fatte, specie considerando il confuso contesto politico in atto e l’inesistenza di ogni seria interlocuzione, sui temi del lavoro, con il governo in carica, i cui responsabili sembrano più interessati a produrre spot giornalieri e a distribuire propaganda che a seri confronti di merito con l’opposizione. Penso che tutte le energie del PD e, se possibile, della intera opposizione di centrosinistra debbano convergere nel formulare proposte univoche e soprattutto nel presentare una piattaforma cogente sulla questione più urgente: le  misure straordinarie da adottare, in termini di sostegno al reddito ma non solo, per affrontare la drammatica crisi occupazionale in atto.

REPLICA SUL METODO E SULLE QUESTIONI DI MERITO
1. Sulla questione politica e la disciplina di partito – Rispondo subito alla questione che Luigi Mariucci pone per ultima: i tre disegni di legge qui in discussione (n. 1481, n. 1872 e n. 1873/2009), come tutti gli altri che portano la mia prima firma, sono stati presentati con l’autorizzazione della Presidenza del Gruppo. Gli ultimi due recano anche le firme di due Vicepresidenti del Senato (Emma Bonino e Vannino Chiti) e di altri trenta senatori, tutti appartenenti allo stesso nostro Gruppo (ed equamente ripartiti tra i sostenitori di tutte le mozioni congressuali), cui se ne aggiungerà probabilmente un’altra quindicina prima che le bozze corrette vengano restituite.
Ma quello che più conta è che tra le proposte sulla flexsecurity contenute in questi disegni di legge e le scelte di politica del lavoro del PD non c’è proprio alcuna contraddizione:
   – nel manifesto
Per dare valore al lavoro [1] col quale il Partito si è presentato agli elettori nel marzo dello scorso anno – sottoscritto da tutti i candidati alla Camera e al Senato più direttamente impegnati sul  fronte delle politiche del lavoro, da Cesare Damiano a Tiziano Treu, da Paolo Nerozzi a Pierpaolo Baretta, da Achille Passoni ad Adriano Musi – si legge testualmente che il Partito si impegna “a combattere la precarietà del lavoro in tutte le sue forme, contrastare l’ingiustizia dell’esclusione di milioni di lavoratori dalla protezione della sicurezza del lavoro e del reddito, assumendo come modello quello della migliore flexicurity europea; questo significa coniugare il massimo possibile di flessibilità e adattabilità delle strutture produttive con la libertà delle scelte di vita e con il massimo possibile di eguaglianza di opportunità, di sicurezza e benessere per tutti i lavoratori, nessuno escluso”;
   –  questa scelta programmatica, sulla quale il Pd ha ottenuto più del 33 per cento dei voti nelle elezioni del 14 aprile 2008, non soltanto non  è mai stata contraddetta in seguito, ma al contrario è stata confermata nella sua sostanza da numerose prese di posizione di esponenti di vertice del Partito (tutte reperibili agevolmente attraverso il Portale della Semplificazione e della Flexsecurity [2]): da Walter Veltroni a Enrico Letta, da Enrico Morando a Massimo D’Alema, da Sergio Chiamparino a Ignazio Marino, da Giuliano Amato all’attuale Segretario Pierluigi Bersani, il quale, in un incontro svoltosi il 14 maggio scorso a Roma proprio sul mio ddl n. 1481 ha detto che si può discutere delle singole soluzioni tecniche ivi proposte, ma “la direzione in cui occorre muoversi è quella”;
   – ciò non significa che questa scelta programmatica non possa tradursi anche in proposte diverse rispetto a quella di cui stiamo discutendo: in un Partito che rappresenta un terzo degli italiani e che si è lasciato alle spalle il metodo del “centralismo democratico” non ci sarebbe nulla di strano nel fatto che si confrontassero anche proposte diverse di attuazione di una stessa scelta programmatica fondamentale, quale quella del modello della “migliore
flexsecurity europea”; senonché finora quella di cui stiamo discutendo, in seno al PD, è l’unica proposta disponibile su questo terreno specifico. Forse questo non accade per caso. E’ molto difficile superare il dualismo del nostro mercato del lavoro senza porre mano, per i rapporti di lavoro futuri, a una profonda riforma di tutto il nostro diritto del lavoro, ivi compreso lo Statuto dei Lavoratori del 1970: ma questo è proprio quanto Luigi Mariucci – al pari di molti altri, nel PD ma anche nello schieramento di centrodestra, a cominciare dai ministri Tremonti e Sacconi – ritiene non si debba fare. La verità è che la scelta programmatica fondamentale del PD, sopra citata, non è attuabile se non attraverso una profonda riforma anche della materia disciplinata dallo Statuto dei Lavoratori. 
Su di una cosa, comunque, Luigi Mariucci ha ragione: il PD sta tardando troppo ad assumere una posizione ufficiale forte e netta su questo capitolo programmatico. Per questo nella seduta di martedì prossimo della nuova Direzione del Partito rinnoverò la proposta che si attivi un gruppo di lavoro composto da esponenti del mondo sindacale e del mondo imprenditoriale, per una vera e propria “concertazione” su ciascuno dei punti critici della riforma necessaria. Il disegno di legge n. 1873 è ancora in bozze, suscettibile di tutte le modifiche che da questo processo di elaborazione ulteriore potranno emergere come opportune, purché ovviamente coerenti con l’impegno che abbiamo assunto davanti agli elettori.
2. Sulle tre questioni di merito. – Le prime due questioni poste da L.M., quella della definizione della nozione di “dipendenza” e quella della scelta del modello di protezione della stabilità del lavoro, sono tra loro strettamente collegate: occorre infatti elaborare una protezione della stabilità realisticamente suscettibile di applicarsi a tutta l’area del lavoro in posizione di dipendenza economica, superando il regime di feroce
apartheid tra protetti e non  protetti che oggi caratterizza il nostro “diritto vivente” e il nostro tessuto produttivo. E’ la questione che la stessa Cgil ha posto nel suo ultimo congresso, quattro anni fa.
   2.1. Definizione della “dipendenza economica”. La soluzione proposta nel progetto di cui stiamo discutendo è il frutto di anni di elaborazione e di discussioni politico-sindacali; ma non ha certo la pretesa di essere l’unica possibile. L’idea, mutuata dalla scienza economica, è che la “dipendenza” nasca dal carattere continuativo del rapporto di collaborazione e dalla posizione di “monocommittenza”, che comporta per il lavoratore la concentrazione del rischio su di un unico rapporto di collaborazione e la specializzazione progressiva in relazione a esigenze peculiari di un solo committente. Si potrà ovviamente discutere del criterio di individuazione: se la soglia della “monocommittenza” debba essere collocata ai due terzi di reddito tratto dallo stesso rapporto, oppure ai tre quarti o ai quattro quinti; ma non mi risulta che fino a oggi, nel dibattito
de iure condendo, sia stata proposta alcuna definizione giuridica strutturalmente diversa da questa. Se Luigi Mariucci ha da proporne una migliore, questa sarà ovviamente la benvenuta; ma per essere migliore essa deve essere più efficace rispetto all’obbiettivo fondamentale: quello di far cessare il regime di apartheid.
   2.2. Protezione della stabilità dei lavoratori dipendenti. Mi sembra che Luigi Mariucci cada in un errore di prospettiva abbastanza evidente quando qualifica il modello proposto nei disegni di legge n. 1481 [3] e n. 1873 [4] come frutto di un’opzione “liberista”. E’ vero il contrario: con l’adozione di questo modello l’ordinamento italiano continuerebbe a collocarsi tra quelli più fortemente protettivi d’Europa, sia sul piano del controllo dei licenziamenti disciplinari, sia su quello della tutela antidiscriminatoria (v. articolo 2118, comma 8 [4]), sia infine per quel che riguarda il filtro del
severance cost cui verrebbero assoggettati i licenziamenti per motivi economici od organizzativi (su questo punto ha ragione la Confindustria quando protesta che sarebbe il severance cost più alto d’Europa; è però anche vero che quel costo sarebbe destinato a diminuire col ridursi dei tempi di ricollocazione dei lavoratori: donde un potente incentivo al miglioramento dei servizi nel mercato del lavoro). Con una differenza, comunque, rispetto al regime attuale: nel nuovo regime non sarebbe più possibile eludere la protezione coll’assumere il lavoratore come collaboratore autonomo o coll’imporgli l’apertura della partita Iva.
Anche qui, ovviamente, ogni proposta alternativa, sia riguardo al modello di protezione sia riguardo alla tecnica normativa, è la benvenuta; a condizione che il regime proposto sia davvero suscettibile di applicarsi in tutta l’area del lavoro sostanzialmente dipendente. C’è la proposta di Tito Boeri e Pietro Garibaldi; dove però, a mio modo di vedere, fa difetto un passaggio essenziale: la ridefinizione della fattispecie di riferimento, ovvero della “dipendenza”. Altre non ne sono ancora state avanzate: non mi pare che gli avversari del modello flexsecurity finora abbiano brillato per fecondità progettuale.
   2.3. Il tabù della pretesa intoccabilità dello Statuto dei Lavoratori. Si può (e in qualche misura anche si deve) modificare la nostra Costituzione; come può Luigi Mariucci pensare che sia immodificabile una legge nata quarant’anni fa, in riferimento a un tessuto produttivo profondamente diverso da quello attuale, quando ancora non esistevano non soltanto i personal computer, l’automazione e Internet, ma neppure il telefax e le fotocopiatrici? Come possiamo dimenticare che il ritmo di obsolescenza delle tecniche applicate e il
turn over delle imprese si misurava allora in decenni, mentre oggi si misura in anni e qualche volta in mesi?
Sta di fatto, comunque, che quella legge che tanti oggi, a sinistra come a destra, vorrebbero imbalsamare è già stata abbondantemente incisa da modifiche e abrogazioni, sia nella parte relativa alla disciplina dei rapporti individuali (del sistema del collocamento pubblico disciplinato dagli articoli 33 e 34 dello Statuto non è rimasta pietra su pietra) sia nella parte relativa alla disciplina dei rapporti sindacali, radicalmente modificata – articoli 19 e 26 – dal referendum del 1995, e con il consenso di due terzi dei votanti. Di quale “intoccabilità” stiamo parlando?
Ma, soprattutto, di quale diritto del lavoro stiamo parlando? Davvero Mariucci non si accorge che in Italia ormai la famigerata apertura della partita Iva viene imposta a tutti, dal giornalista al fattorino, dal magazziniere al correttore di bozze della casa editrice, dal venditore all’autista, dal carpentiere al telefonista? Non si accorge che quel diritto del lavoro che lui e io insegniamo ha prodotto sicurezza e benessere soltanto per gli appartenenti alla mia e sua generazione, ma per le nuove generazioni è diventato un miraggio? Non si accorge che insegnare quel vecchio diritto del lavoro ai ventenni è insegnar loro qualche cosa che li riguarda direttamente sempre meno?            (p.i.)

LA CONTROREPLICA DI LUIGI MARIUCCI: “QUESTE SONO DISCUSSIONI ACCADEMICHE, PERCHE’ SIAMO ALL’OPPOSIZIONE E NON ESISTE POSSIBILITA’ DI ACCORDO CON QUESTA MAGGIORANZA”

Alle mie obiezioni sul suo disegno di legge in tema di semplificazione del diritto del lavoro Ichino replica con un insieme di domande. Come vorrei io che fosse definito il concetto di “dipendenza economica” da sostituire all’attuale definizione di lavoro subordinato di cui all’art. 2094 del c.c., come definirei  la nuova disciplina dei licenziamenti in rapporto al nuovo concetto di “dipendenza economica”, e così via. Alle domande di Ichino potrei dare la mia puntuale risposta. Su ognuno di questi temi avrei anch’io il mio compitino da svolgere. Ma non credo che sia questa la cosa che interessa al momento. Tutte le nostre proposte, per quanto belle, sono velleitarie. Penso che consistano in esercitazioni a futura memoria, quando il centrosinistra chissà come e chissà quando tornerà al governo. Non mi sembra infatti che vi siano spazi per politiche bipartisan sui temi del lavoro. Ciò significa che tutta la nostra discussione si svolge dentro al PD, per cercare di definire le proposte che il PD eventualmente potrà agire in una futura occasione. Nel frattempo succedono varie cose. Il governo di centrodestra ha approvato al Senato un disegno di legge, collegato alla finanziaria, che tra le altre cose reintroduce lo staff leasing, limita i poteri di intervento del giudice del lavoro, introduce l’arbitrato sui licenziamenti. Ho visto che il sen.Tiziano Treu ha fatto una dichiarazione fortemente critica al Senato. Che pensa di questo il sen. Ichino? E più in generale: cosa pensano i parlamentari del PD sul fatto che il ministro Sacconi dichiara in lungo e in largo che i finanziamenti agli ammortizzatori sociali, anche in deroga, sono più che sufficienti ad affrontare la crisi in corso mentre da più parti, nei territori, si segnala il contrario? Che si dice sul fatto che il governo nel disegno di legge collegato alla finanziaria ripropone la delega sulla riforma degli ammortizzatori sociali senza in alcun modo specificare in qual senso tale riforma dovrebbe essere attuata.  Su questi temi, per così dire volgari, vorrei che il sen. Pietro Ichino si pronunciasse, scendendo, se può, dalle nuvole dei suoi pure apprezzabili progetti di megariforma del diritto del lavoro al terreno concreto delle cose.
27 novembre 2009

UN’ULTIMA RISPOSTA

In estrema sintesi:
   – il fatto di essere all’opposizione non ci esime affatto dall’elaborare programmi credibili; non si tratta di un “compitino da svolgere”, ma del primo dovere di un grande partito all’opposizione che intende prepararsi a tornare al governo;
   – quindi Luigi Mariucci farebbe bene a rispondere alle mie domande: altrimenti le sue critiche alle soluzioni proposte nei miei disegni di legge perdono gran parte del loro significato;
   – d’altra parte è stata la Cgil, nel suo ultimo congresso, quattro anni fa, a far propria l’idea di assumere la “dipendenza economica” come nuovo criterio per la delimitazione del campo di applicazione del diritto del lavoro; se dunque Luigi Mariucci, membro della Consulta Giuridica della Cgil, dissente dalla definizione che ne ho proposto nel mio progetto, egli non può esimersi dal dire quale sia secondo lui una definizione migliore e quale debba essere la disciplina applicabile;
   – in particolare, per quel che riguarda la disciplina dei licenziamenti: dobbiamo pur dire quale protezione, in questa materia, riteniamo suscettibile di applicarsi uniformemente in tutta l’area del lavoro economicamente dipendente; gli rinnovo dunque la domanda in proposito;
    – dalle “nuvole” si scende traducendo le proprie idee in progetti operativi, accettando di sporcarsi le mani con l’olio degli ingranaggi; io lo sto facendo, invito l’amico e collega a fare altrettanto;
   – quanto alle mie opinioni sul disegno di legge n. 1167 discusso e approvato dal Senato negli ultimi giorni, le ho espresse – molto chiaramente, spero – durante le quattro sessioni in cui la discussione in Aula si è articolata: i relativi resoconti stenografici integrali sono già disponibili nel sito
web del Senato stesso e una selezione dei miei interventi [5] è disponibile su questo sito;
   – su di uno solo dei punti indicati da Luigi Mariucci non sono intervenuto in Senato, per accordo interno al Gruppo: la reintroduzione nel nostro ordinamento, operata con il disegno di legge n. 1167, dello
staff leasing. Preciso in proposito che
 . non ho firmato l’emendamento contrario presentato da alcuni (pochi) senatori del Gruppo Pd: lo ho disapprovato per gli stessi motivi per cui disapprovai l’abrogazione dello
staff leasing (peraltro non prevista dall’accordo tripartito del 23 luglio precedente) da parte della maggioranza di centrosinistra nel dicembre 2007;
 . ho comunque votato contro l’articolo in questione del disegno di legge perché conteneva molte altre cose davvero sbagliate;
 . questo non mi impedisce di continuare a pensare e dire apertamente che lo
staff leasing non costituisce affatto una forma di lavoro precario (il rapporto di lavoro è a tempo indeterminato con applicazione dell’articolo 18 St. lav.!); e che in un certo numero di casi può costituire uno strumento molto efficace di conciliazione tra le esigenze di flessibilità delle imprese e l’esigenza di stabilità e sicurezza dei lavoratori.      (p.i.)