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LUISA CORAZZA: IL DIALOGO CON L’ECONOMIA AIUTA IL LAVORO DEI GIUSLAVORISTI

“Il diritto del lavoro dell’ultimo ventennio è stato assai intriso di Ichinomics, come, per contro, si può dire che l’economia sia stata intrisa di pensiero giuslavoristico” – “Il mainstream economico attuale non mina affatto, ma semmai conferma i valori fondanti del diritto del lavoro”

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Intervento di Luisa Corazza, professoressa di diritto del lavoro nell’Università del Molise, nel dibattito nato dal mio editoriale telegrafico sul
Diritto del lavoro come variabile indipendente [1], dal primo commento di Maria Vittoria Ballestrero [2] e dalla mia replica Perché i giuslavoristi non possono ignorare l’economia del lavoro [3]; sono on line anche gli altri interventi nello stesso dibattito, di Bruno Caruso [4], ancora di Maria Vittoria Ballestrero, di Antonio Padoa Schioppa e di Lorenzo Zoppoli [5]     .
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La professoressa Luisa Corazza

La professoressa Luisa Corazza

Ho seguito con grande interesse il dibattito avviato da Pietro Ichino e Maria Vittoria Ballestrero. La discussione sul rapporto tra diritto del lavoro ed economia entra, a mio avviso, nel cuore del discorso giuslavoristico di questi ultimi anni, perché attiene alla cultura giuridica che ha accompagnato, e condizionato, l’evoluzione recente della materia. Le questioni poste dai colleghi possono essere riassunte nei quesiti che seguono: a) il diritto del lavoro può fare a meno di confrontarsi con l’economia?; b) Con quali teorie economiche confrontarsi?; c) come usare l’economia nel diritto del lavoro?. L’intervento che segue proverà a riflettere intorno a questi tre quesiti, senza alcuna pretesa di suggerire risposte, ma con l’intento di contribuire, se possibile, alla complessità del discorso.

a) Pietro Ichino e Maria Vittoria Ballestrero sembrano convergere su un punto: l’evoluzione del diritto del lavoro negli ultimi anni è stata ampiamente condizionata dall’economia. Le recenti riforme – basta citare, anche per il suo forte valore simbolico, la progressiva disintegrazione delle tutele contro il licenziamento illegittimo – non cadono dal cielo, ma da un’idea, tutta economica, che individua nel cambiamento delle regole del mercato del lavoro (verso una maggiore flessibilità delle stesse) le precondizioni per un aumento dell’occupazione o, per dirla à la Ichino, per un maggiore turn over tra insider e outsider.

Che l’economia, o, piuttosto, l’importazione di alcune teorie economiche, abbia avuto un impatto sul diritto del lavoro e sulla sua evoluzione non è dunque discutibile. Il che consente di sgombrare il campo dalla presunta autosufficienza del diritto del lavoro rispetto all’apporto che, in una prospettiva interdisciplinare, possa provenire da materie “altre”, come l’economia, la sociologia, il ragionamento filosofico e finanche le sollecitazioni etico-religiose (non a caso Maria Vittoria Ballestrero cita le recenti parole di Papa Francesco). Né vale in proposito lo schernirsi di Ballestrero dietro il velo del giuspositivismo, visto il sostanziale radicamento del suo discorso nell’alveo nel costituzionalismo moderno, il quale scaturisce, come è noto, proprio dalla coscienza della complessità delle scienze sociali e della necessità di una loro reciproca interazione.

Ciò su cui le posizioni di Maria Vittoria Ballestrero e Pietro Ichino divergono radicalmente è piuttosto la valutazione sui risultati delle riforme, perché la prima lamenta proprio quegli esiti che il secondo ha concorso a realizzare, a partire dagli anni ottanta, con la sua – per la verità sempre coerente – attività di accademico, giornalista e uomo politico. Nessuno può negare che, almeno dalla riforma Biagi in poi, le idee diffuse in Italia da Pietro Ichino siano state ispiratrici di molte riforme del mercato del lavoro.

Il diritto del lavoro dell’ultimo ventennio è stato dunque assai intriso di Ichinomics, come, per contro, si può dire che l’economia sia stata intrisa di pensiero giuslavoristico. Invero, l’idea che la crescita economica (e, di conseguenza, l’aumento dell’occupazione) dipenda dalle regole del mercato del lavoro, e, in particolare, dalla dose di flessibilità in esso iniettato, ha condizionato in modo decisivo la politica economica nostrana (basti in proposito ricordare il titolo della legge Fornero “Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita”). Il che è andato a scapito dell’intervento su altri elementi – altrettanto, se non più, funzionali alla crescita – quali la produttività, l’innovazione e le politiche industriali. Più che troppa economia nel diritto del lavoro vi è stata, forse, troppa forma mentis giuslavoristica nella politica economica nazionale, o, meglio, un sovraccarico di aspettative rispetto agli effetti che un intervento sulle regole del mercato del lavoro avrebbe potuto produrre sulle dinamiche di sviluppo dell’economia italiana (e che spiega la polemica che si consuma pressoché trimestralmente intorno alle statistiche sull’occupazione in Italia).

b) E qui arriviamo al secondo snodo centrale del dialogo tra Maria Vittoria Ballestrero e Pietro Ichino: quello dell’ideologia sottesa all’economia che il giurista si appresta ad utilizzare per le sue verifiche.

Che l’economia non costituisca un blocco unico di idee è talmente ovvio, che non vale la pena spendervi attorno troppe parole. Ma bisogna dare atto a Ballestrero che la sua critica non  è rivolta alla presunta unicità del pensiero economico, quanto, piuttosto, al fatto che le tesi economiche che hanno ispirato le riforme del lavoro negli ultimi anni sono quelle riferibili alla corrente neoclassica, madre nobile, come è noto, delle ideologie neoliberiste.

Che questi siano stati gli orientamenti di fondo cui anche Ichino si è ispirato è pure un dato noto. Ciò che invece può essere utile ricordare è che la corrente dell’economia neoclassica – mainstream indiscusso fino alla prima decade degli anni duemila – sembra ora avere perso terreno proprio nel dibattito tra gli economisti. A metterla in discussione sono stati studiosi di calibro, molti dei quali insigniti anche del Premio Nobel, a testimonianza di come non si tratti di teorie minoritarie, ma di correnti di pensiero ormai pienamente riconosciute nella comunità scientifica. Tra le pieghe dei Nobel degli ultimi anni è possibile cogliere, infatti, una crescente sensibilità per gli effetti sociali delle teorie economiche, sintomo di un sostanziale superamento – o quanto meno della messa in discussione – dell’idea che il prevalere delle regole del libero mercato costituisca la chiave di volta del benessere collettivo. L’elenco è lungo, e include Amartya Sen (1998); Joseph Stiglitz (2001); Daniel Kahneman (2002); Paul Krugman (2008); Elinor Ostrom (2009); Oliver Williamsom (2009); Peter Diamond, Dale Mortensen, Christopher Pissarides (2009); Angus Deaton (2015).

Ma vi è di più. A partire dalla crisi del 2007, è proprio dal dibattito economico che viene l’impulso per un ripensamento radicale del rapporto tra crescita e tutela del lavoro. Gli studi sull’evoluzione del capitale condotti da Thomas Piketty in questi ultimi dieci anni segnalano come la crescita è inibita dalle diseguaglianze e suggeriscono una correzione di rotta rispetto alla prospettiva neoliberista (è anche utile citare, anche perché commissionato dal conservatore Sarkozy, il noto rapporto “Measurement of Economic Performance and Social Progress”, coordinato nel 2009 da tre economisti “alfieri” della ricerca sulle disegueglianze, Stiglitz, Sen e Fitoussi). Ancora, è da Mario Draghi che è provenuto, meno di un paio di mesi fa, un monito che mette in guardia dai rischi della depressione dei salari, ritenuta responsabile di rallentare la ripresa. E non si tratta di segnali di allarme confinati al contesto europeo (che, si sa, è storicamente influenzato dalla matrice dell’economia sociale di mercato), vista la serrata critica alle derive del “Supercapitalismo” che ci ha proposto – sempre in questi ultimi dieci anni – Robert Reich, ministro del lavoro nell’era Clinton.

Sembra dunque che proprio dall’economia provenga l’invito a liberarsi, in una logica autopoietica, da una visione mercantilistica della regolazione dei rapporti di produzione, per spingere, al contrario, verso politiche in grado di favorire una migliore redistribuzione del reddito, da cui è possibile inferire effetti positivi per la crescita. Abbiamo dunque bisogno di più economia,  per avere più diritto del lavoro. L’importante è “usare” l’economia giusta.

c) E qui veniamo al terzo ed ultimo snodo che ha impegnato la dialettica tra Pietro Ichino e Maria Vittoria Ballestrero: quale uso dell’economia è consentito al giurista del lavoro?

Ballestrero critica Ichino perché esce dal selciato del giurista, sostenendo che, in sostanza, “ognuno deve fare il suo mestiere”; dal canto suo, Ichino critica i giuristi che si “improvvisano” economisti, squalificando senza conoscerla l’analisi economica del diritto.

La questione è, ovviamente, assai complessa, perché attiene all’essenza del metodo giuridico, nonché ai limiti della fruizione degli apporti interdisciplinari da parte del giurista del lavoro. Si tratta, però, di una questione con cui i giuslavoristi si misurano da tempo, tanto da ritenersi insita nello stesso DNA della materia (almeno nella misura in cui si voglia riconoscere che il contributo metodologico di Gino Giugni riveste un valore fondativo, o ri-fondativo, per il diritto del lavoro).

Si tratta, peraltro, di una questione alla quale è difficile dare un’unica risposta, perché vi sono diversi modi di “utilizzare” l’economia nell’analisi giuridica del lavoro: vi è l’uso di riscontri empirici, mediante dati statistici, per misurare il successo di determinate riforme rispetto agli scopi prefissati; vi è l’applicazione dei c.d. modelli economici (secondo la strada che ha preferito Pietro Ichino in questi decenni) per dimostrare quali effetti derivano da determinate regole giuridiche, e segnalare eventuali eterogenesi dei fini; vi è l’apporto, essenzialmente culturale, dato dal leggere le norme nella loro evoluzione storico-politica, la quale include, ovviamente, anche le scelte di politica economica sottese alle riforme; vi, è infine, la necessità di comprendere qual è la  funzione economica che le regole giuridiche svolgono, funzione che rimanda, in ultimo, al modello di società che si è inteso costruire.

Dal confronto con tutti questi elementi il giurista del lavoro può senza dubbio arricchirsi, e non solo al fine di migliorare la comprensione del “problema” oggetto delle proprie analisi, ma anche per rafforzare la tenuta delle proprie proposte, siano esse costruite sul terreno dell’interpretazione o della politica del diritto. In questi termini, il giuslavorista non ruba il mestiere a nessuno, ma si pone piuttosto in condizione di avviare un dialogo con i cultori di altre materie, gli operatori del diritto e finanche i decisori politici, più consapevole del proprio ruolo.

Tuttavia, la questione centrale resta quella sollevata da Ballestrero: l’apporto dell’economia al diritto del lavoro finisce per intaccarne il sistema di valori? Ora, chiarito nei punti a) e b) che questo tipo di preoccupazione è storicamente determinata dall’influenza che alcune teorie economiche hanno avuto sulle riforme in atto, il pensiero economico più attuale è in grado di rassicurarci in proposito. Esso sembra suggerire, invero, proprio quella direzione di marcia che ritroviamo alla base nostra Costituzione economica: tensione verso l’eguaglianza sostanziale, promozione del diritto al lavoro, tutela del lavoro in tutte le sue forme, sottrazione del costo del lavoro dalle dinamiche della concorrenza. Leggere l’odierno dibattito economico con in mano la Costituzione italiana offre in effetti la piacevole sensazione di essere, per una volta, in linea con i tempi. Sono altre, piuttosto, le derive che minano dalle fondamenta i principi del lavoro, se solo si pensa ai cardini su cui si è retta la costruzione dell’Unione europea e che sono tornati – dopo una breve parentesi di speranza per un’Europa più “sociale” – a condizionare in modo implacabile le linee di azione delle sue istituzioni  (a partire dalla Corte di giustizia, sempre più inchinata al dogma del mercato unico).

Ma, allora, più che avanzare chiusure aprioristiche nei confronti del rapporto tra diritto del lavoro ed economia, affidandosi in toto al richiamo alla dignità umana, o, rileggere, all’opposto, la Costituzione alla luce di un’analisi economica del diritto di stampo neoclassico, servirebbe superare queste contrapposizioni, per la verità tutte domestiche, e ragionare su come opporre un fronte comune al declino del pensiero giuslavoristico. Avvalendoci, perché no, anche dell’apporto dell’economia.

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