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DEL PUNTA: SÌ AL DIALOGO CON GLI ECONOMISTI (MEGLIO ANCORA SE RECIPROCO)

Argomenti a sostegno dell’interesse di giuslavoristi ed economisti a una riflessione comune, orientata in particolare alla preziosa ricerca di soluzioni win-win nei vari campi, in uno spirito di realismo problematico

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Intervento di Riccardo Del Punta, professore di diritto del lavoro nell’Università di Firenze, nel dibattito nato da una lettera di Maria Vittoria Ballestrero [1] del 22 maggio scorso e dalla mia recensione del numero 4/2016 della rivista
Lavoro e Diritto, Perché i giuslavoristi non possono ignorare l’economia del lavoro [2], in risposta a quella lettera – Sono on line su questo sito gli interventi nel dibattito di Bruno Caruso [3]Maria Vittoria Ballestrero,  Antonio Padoa Schioppa, Lorenzo Zoppoli [4], Luisa Corazza [5] e Salvati, Non c’è una sola economia, tanto meno nel campo del lavoro [6]; e ultimamente l’editoriale di risposta della stessa rivista [7] Lavoro e Diritto [7]      .
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Riccardo Del Punta (a sinistra Franco Scarpelli)

Riccardo Del Punta (a sinistra Franco Scarpelli)

Caro Pietro,

aggiungo la mia voce, anche se con qualche ritardo, al dibattito avviato dalla lettera di Maria Vittoria Ballestrero [1] in risposta ad un tuo editoriale [8] sul vessato tema del rapporto tra diritto del lavoro ed economia. Vessato, e un poco esausto, ma non per perdita di rilevanza, bensì, a mio giudizio, per la difficoltà di accedere a livelli di comunicazione orientati all’intesa.

Ma entro senza indugio in medias res: vi sarebbe dunque, al fondo delle incomprensioni, una sorta di equivoco, nel senso che non è che al giuslavorista non vada a genio l’economia, bensì soltanto gli economisti, anzi quelli neo-classici neo-liberali ecc.?

In termini generali (cioè riferiti, in senso generalizzante, alla cultura giuslavoristica, a prescindere dai percorsi dei singoli autori), che sono gli unici che mi premono qui, la distinzione non mi persuade, e non soltanto perché prendersi l’economia senza gli economisti mainstream suona (concordo con te) alquanto singolare (nonché rischioso, perché potremmo essere imitati – e forse già lo siamo stati – da chi volesse fare lo stesso con noi).

Il fatto è che tra i rispettivi mondi permane una significativa distanza, anche se quello che è curioso è che dalla prospettiva dei giuslavoristi essa finisce con l’essere riferita soprattutto al piano dei valori, mentre dalla visuale opposta, decisamente più cool, appare prevalentemente come una differenza di strutture cognitive e metodologiche, pur ridondante sul piano dei reciproci caratteri.

Le prove? Come giuslavorista di lungo corso, non saprei contare le volte in cui ho sentito proclamare la superiorità dei valori sociali rispetto all’“individualismo egoistico” degli economisti, ed enfatizzare la preminenza, nella Carta costituzionale, del “sociale” sull’”economico”, intesi come valori eticamente contrapposti, se non come simboli di civiltà in guerra. O le volte in cui ho sentito esaltare, anche ad alti livelli, l’articolo 1, come se il lavoro piovesse dal cielo, e senza mai, dico mai, dedicare lo straccio di un pensiero a chi si alza ogni mattina creandolo, questo lavoro, id est gli imprenditori, non tutti ricchi di famiglia. O le volte in cui ho avvertito un pudico tenersi a distanza, in nome della non mercificazione del mondo, da tutto ciò che sa di economico, come ad es. il tema dei danni alla persona, che pure riguardano eccome i lavoratori. O le volte in cui ho sentito demonizzare un ingrediente necessario del capitalismo, come il profitto, da ultimo nelle proteste suscitate dal principio assolutamente ragionevole, e per nulla neo-liberista, affermato da Cass. n. 25201/2016 [9] in tema di giustificato motivo oggettivo di licenziamento.

L’approccio in questione, del resto, ha sempre riguardato un arco culturale più ampio del giuslavorismo in senso stretto, nonché fortemente caratterizzante dell’Italian philosophy. Senza spingersi sino al solipsistico inno alla superiorità spirituale dell’ideale anti-capitalistico, che trasuda dalle pagine di Dello spirito libero di Mario Tronti, basterebbe leggere le pagine dedicate dal compianto Stefano Rodotà, nel suo (intenso) Il diritto di avere diritti, alla “nuova antropologia” sottesa all’art. 36, Cost., che pure proclama, in fin dei conti, un diritto economico (un minimo retributivo all’italiana, direbbe un economista). O riflettere su quanto il discorso giuslavoristico sia permeato di “giuspositivismo costituzionale” à la Luigi Ferrajoli.

Avrei anzi la tentazione di spingermi oltre, sino ad ipotizzare un certo remoto fondo crociano che alligna, in generale, nella cultura italiana: ma non ho qui la pistola fumante. Ove mai la rinvenissi, potrei altresì aggiungere che la tendenza a trasporre i temi economico-sociali (“strutturali”) in termini di etica sociale può considerarsi esemplificativa di un tempo in cui le scaturigini marxiste di un ampio filone della cultura di sinistra (che, nelle parole di Maria Vittoria Ballestrero, aveva “avuto l’avventura di imbattersi nel filosofo di Trier”) sono state prima rimosse e poi trasfigurate sul piano delle idealità (il che, tra l’altro, non sarebbe probabilmente piaciuto a Marx, a giudicare da quanto detestava i socialisti dei buoni sentimenti).

A partire da queste ascendenze culturali non sorprende, insomma, che l’homo oeconomicus sia stato vissuto come un corpo estraneo all’homo giuridicus prediletto dal giuslavorismo (per evocare il titolo di un troppo fortunato, a mio parere, libro di Alain Supiot).

Sull’altro versante, tuttavia, non è che le cose vadano meglio. Senza dimenticare, con Michele Salvati [6], che non esiste una sola economia (farò anch’io un esempio più avanti), l’atteggiamento nei nostri confronti della maggior parte degli economisti mainstream (chiedo di nuovo venia per la generalizzazione) propende, nella migliore delle ipotesi, verso l’indifferenza intellettuale.

I giuristi del tipo classico di solito non li “prendono”, e se poi sono giuslavoristi tendono a diffidarne. Non c’è dubbio, ad es., che nell’elaborazione del Jobs Act e in particolare del d.lgs. n. 23/2015, si sia udito anche il grido di battaglia: “riprendiamoci il mercato del lavoro e togliamolo ai giuslavoristi dello Statuto”.

Al massimo questi economisti possono essere interessati a consigli su come scrivere tecnicamente la regola che essi hanno in mente, anche per disinnescare in anticipo quelle diavolerie tecniche con le quali i giuristi, qui intesi soprattutto come giudici, potrebbero boicottare, a freddo, le loro creazioni. Ma queste sono faccende che si possono sbrigare nel tempo di un caffè: già una cena potrebbe risultare troppo impegnativa.

Inoltre, anche in questo compito da portatore qualificato d’acqua, il giurista non deve allargarsi troppo: ad es. se pretende di introdurre troppe varianti nella sua ipotesi di norma, o semplicemente se raccomanda un’attenzione di troppo al linguaggio normativo, può accadergli di essere guardato con un sorrisetto che più o meno significa: come sei pedante. Talvolta l’accusa può essere pure giustificata, ma in altre occasioni può darsi che il giurista sia più addentro di chiunque altro alla benedetta realtà, al punto da fargli suggerire una norma capace di tenere conto di un maggior numero di eventualità, mentre l’economista, da riduzionista qual è, tende alla modellizzazione, che nella migliore delle ipotesi sacrifica le sfumature.

Né vale l’obiezione, che mi è stata fatta da un economista, che vi sono giuristi, quali i giuscommercialisti, con i quali, invece, essi si intendono alla perfezione. In quel caso, infatti, il gioco è di solito più facile, anche perché entrambe le figure remano spesso nella stessa direzione (ma non sempre: la tutela dell’impresa come valore in sé può dirigersi anche contro l’imprenditore come soggetto, che infatti viene sacrificato quando viene eliminato dal mercato espropriandolo dell’impresa).

Inoltre, alcune regolazioni di più recente generazione, come quella anti-trust, sono il diretto portato della riflessione economica, che dunque è logico che continui ad esercitare un influsso dominante anche a livello interpretativo e applicativo.

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Se non necessariamente un conflitto, c’è quindi una significativa distanza di origine tra i due mondi, che spiega, tra l’altro, le difficoltà che incontra chi propone di gettare ponti tra essi.

Un ponte che sarà sempre percorso da una parte sola, va peraltro detto a difesa dei giuslavoristi, sinché l’unica prospettiva praticabile di collaborazione sarà quella dell’analisi economica del diritto (EAL). Ciò in quanto, per dirla con Stewart J. Schwab (Law-and-Economics Approaches to Labour and Employment Law, IJCLLIR, vol. 33, March 2017, pp. 121-122), “Economic analysis brings the principles and reasoning of economics to examine the effects of a law or legal doctrine”, e definisce pertanto, come ho prima già rilevato tra il faceto e il serio, una netta gerarchia di ruoli tra l’economista e il giurista.

Di contro, l’espressione Law and Economics, che dai più (anche da te, mi pare) è considerata un sinonimo dell’EAL, può essere invece tenuta distinta da essa. Così ancora Schwab: “Law and Economics, as the name suggest, combines both legal and economic modes of thought, and perhaps even prioritizes law by non-alphabetically listing it first”.

Trovo intrigante questa distinzione, pur riconoscendo che le sue implicazioni sono ancora da esplorare, e che essa mi piace anche perché allevia la personale crisi di identità derivante dall’essere molto interessato all’economia, ma di non sentirmi per nulla, e non soltanto per difetto di competenza, e al di là del fatto che essa possa interessarmi, un cultore dell’EAL.

In ogni caso, è proprio a partire dalla premessa del reciproco ascolto e rispetto, che un approccio meno sbilanciato sull’EAL e più interdisciplinarmente aperto, e se si vuole curioso, permette di coltivare, che è possibile impostare in modo analiticamente corretto, ma non di meno complesso, lo sfaccettato tema dei rapporti tra diritto del lavoro ed economia, sì da mostrare, nelle mie pur non ireniche intenzioni, che economisti e giuristi non possono non dialogare tra loro, se vogliono combinare qualcosa di buono in una serie di campi.

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Al piano più alto, quello delle grandi decisioni di politica del lavoro e del dibattito su di esse (è logico, infatti, che le scelte spettino alla fine alla politica, ma qui stiamo appunto parlando di chi ha titolo e/o forza per influenzarle), il discorso metodologico da fare è (ovviamente a mio giudizio) quello svolto da Bruno Caruso e dallo scrivente per rovesciare lo schema logico proposto per il convegno del trentennale di Lavoro e Diritto e sostenere che il tema della subordinazione o dell’autonomia del diritto del lavoro nei confronti dell’economia è mal posto, nella misura in cui un diritto non deve essere subordinato ad alcun formante, e a maggiore ragione ad uno solo, ma neppure può dirsi autonomo da alcun formante.

Il diritto, insomma, è il terminale finale di istanze di varia natura e provenienza, tra le quali non ci sono soltanto quelle  valoriali, ma ci sono, segnatamente, anche quelle economiche, a meno che si voglia sostenere, ma sarebbe assurdo farlo,  che esse non sono rilevanti, come se la proclamazione del diritto potesse idealisticamente bastare a se stessa.

A propria volta il giurista, come pastore del sistema giuridico e delle sue comunicazioni col sistema sociale, deve farsi garante di tutte queste istanze, senza ambire, se non per gli aspetti tecnici, ad avere alcuna parola ultima sulle leggi da fare (altro e più complesso discorso è quello dell’interpretazione).

Questo ovviamente non esclude che, al pari di qualunque economista sociologo filosofo ecc., il giurista del lavoro  possa dire la sua sulla politica del diritto del lavoro. Anzi, è naturale che lo faccia, tanto più che è, per molti versi, in una posizione ideale per farlo, per la varietà di strumenti e di informazioni che potenzialmente possiede. Ma egli non può pretendere di riservare a sé questa competenza, magari forzando lo strumento dell’interpretazione costituzionale, come se il diritto del lavoro fosse cosa sua.

E comunque, se per path-dependency culturale egli sarà portato a vedere soltanto un aspetto del problema, a scapito di  altri, pazienza. Sarà compito del policy-maker tenerlo ai margini ove reputi che questo aspetto non possa essere quello prioritario in un certo momento storico. E se questo sospingerà lo stesso policy-maker tra le braccia dell’economista, il giuslavorista potrà dolersene soltanto con se stesso.

D’altronde, gli stessi limiti debbono valere, specularmente, per l’economista, la cui analisi lo trasporta inevitabilmente sul piano della selezione dei fini, oltre che su quello dei mezzi. Tu stesso osservi [2] che l’economista può anche orientare le proprie proposte secondo la “funzione di benessere sociale”, ad es. concepita in senso rawlsiano. Nessun problema, perché il piano dei fini in una società democratica è un condominio aperto e affollato, i cui abitanti possono anche, di tanto in tanto, trovarsi d’accordo, e pure risparmiando sull’amministratore.

Fatto sta, però, che di solito gli economisti del lavoro, sia che si pongano nella prospettiva macroeconomica (tipicamente affrontando, ad es., la questione dell’impatto dell’EPL sull’occupazione), sia che prediligano indagini microeconomiche, si pongono classici obiettivi di efficienza quantitativa, del resto al centro del loro tradizionale expertise (da cui le critiche di coloro che propongono di valorizzare la dimensione anche qualitativa del benessere: su tutti, Amartya Sen), e che possono anche essere funzionali, peraltro – non sarò certo io a negarlo -,  al bene della società.

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Eppure, entrambe le professioni avrebbero da guadagnare da un dialogo aperto, anche se non destinato a sfociare in  un reciproco abbraccio. A mio avviso, in particolare, il tratto di mare decisivo (e per questo da esplorare di più e meglio di quanto di solito si faccia), nel quale le due discipline si passano accanto senza toccarsi, è quello della scelta.

L’economia è per buona parte una teoria della scelta razionale, fondata su determinati assunti di comportamento, per lo più ispirati al modello della massimizzazione dell’utilità. È la scienza dei trade-off, che presuppone o mostra come gli agenti debbano costantemente scegliere tra beni scarsi o comunque non ottenibili simultaneamente: tu non puoi andare al mare e in montagna nello stesso tempo. Quello che viene poi studiato, anche se a partire da un modello limite (quello del mercato concorrenziale perfetto) tuttora capace di esercitare una discreta suggestione, è come queste scelte vengono effettuate nel contesto di mercati per lo più imperfetti, caratterizzati da carenze di informazione  ed  eventualmente di razionalità degli agenti.

Di contro, nel discorso di un diritto del lavoro come quello italiano, che nella sua maturità si è posto come integralmente protettivo e tutorio, attorno al principio di inderogabilità unilaterale, la dimensione della scelta razionale, comunque  definita, non è mai stata neppure focalizzata. A impedirlo, l’assunto della strutturale disparità di potere tra il lavoratore e la controparte. Ma, per quanto la fotografia di partenza fosse rispondente alla realtà, e continui in molti casi ad esserlo, ne è derivata un’ipostatizzazione concettuale che ha comportato la totale obliterazione del tema dell’autonomia individuale del lavoratore, anche soltanto come obiettivo da perseguire in prospettiva.

Una rimozione che, per giunta, dal piano del rapporto di lavoro si è propagata a quella delle valutazioni di politica del diritto, qui saldandosi con quel ferrajolismo che nella sua visione irenica e deresponsabilizzante si spinge sino ad escludere che possano darsi conflitti tra diritti costituzionali fondamentali, sì da escludere che si debba mai scegliere tra essi (ma v., su questo, la critica di Giampiero Pino).

Con ciò, ribadisco, non intendo sostenere che dobbiamo ripiegare su un’integrale mercatizzazione e che non debbano esservi beni che, per dirla con Michael J. Sandel, non debbano poter essere scambiati sul mercato, checché ne pensi l’economista. Ma da questo a ritenere, all’estremo opposto, che il compito del diritto del lavoro sia soltanto quello di frapporre valori non negoziabili ai meccanismi di mercato, ne corre di strada.

Per cui, a meno che non pensiamo che il lavoratore subordinato resterà tale per l’eternità, con le stesse modalità e nella stessa misura proprie dell’organizzazione fordista del lavoro, riportare nel nostro cono visivo la dimensione della scelta,   e confrontarci con gli economisti sulle trappole che essa comporta, non potrebbe essere che fruttuoso. Ciò tanto più in considerazione, da un lato, della crescente diffusione di norme di tipo incentivante per i datori di lavoro, e, dall’altro, della riapertura di alcuni spazi normativi per la contrattazione individuale, quando non per vere e proprie scelte dei lavoratori tra più possibili utilità, come nel welfare aziendale.

Alla rimozione ora discussa corrisponde, con puntuale specularità, quella dell’economista per il tema del potere. È vero che tramite l’analisi e lo studio delle asimmetrie informative egli può giungere a conclusioni atte a giustificare, anche in termini di efficienza, la presenza di normative correttive e non rinegoziabili, del classico tipo giuslavoristico. Permane tuttavia uno iato, che mi sembra dipendere proprio dal difficile inserimento del fattore potere (anche, ma non solo, per difficoltà di misurazione, che peraltro valgono anche per le informazioni) negli schemi di analisi degli economisti mainstream.

Ma quanto profondo, ed incolmabile, è questo iato, insomma il divario concettuale e pratico tra l’asimmetria di informazione e l’asimmetria di potere? La questione non può che restare aperta.

La musica cambia totalmente, tra l’altro (è una di quelle altre economie, di cui all’intervento di Salvati [6]), per gli economisti di scuola neo-istituzionale, la rilevanza della quale per il diritto del lavoro è stata sottolineata, anche di recente, da Simon Deakin. Proprio ragionando in questa diversa prospettiva, debitamente integrata con la stakeholder theory, Lorenzo Sacconi ha svolto, la si condivida o no, un’interessante critica del “contratto a tutele crescenti”, incentrata sul pericolo dell’abuso di autorità.

Resta infine il grande tema, che non posso affrontare qui avendo già preso troppo spazio, delle valutazioni di impatto, dove l’utilità del dialogo interdisciplinare (anzitutto per i giuristi) sembrerebbe evidente, e anche sdrammatizzata, proprio perché non si parla di fondamenti ma di effetti: anche se va detto che i fondamenti tendono a riemergere quando si discute della rilevazione dei nessi di causalità, che quasi mai trova rispondenza in vere “evidenze empiriche”.

E tuttavia, anche guardando al controverso tema dei licenziamenti, il giuslavorista interessato a questo tipo di apporti (come lo scrivente, ai fini della preparazione di un paper presentato alla III Conferenza del Labour Law Research Network, svoltasi nel giugno scorso a Toronto) non ha difficoltà a reperire un’abbondanza di contributi seriamente empirici, in diversi dei quali, a dispetto della loro provenienza dal mondo anglo-americano, vengono asseriti effetti positivi (ad es. sulla produttività e sull’innovazione) di ben calibrate discipline limitative del licenziamento.

Credo che queste considerazioni bastino a dare l’idea del perché i percorsi degli economisti e dei giuslavoristi divergono: anzitutto per ragioni di strumenti e metodologie, prima che di culture ed eventualmente di propensioni politiche, che pure possono essere un corollario delle prime. Ma su questo piano – che involge, in ultima analisi, le rispettive categorie e modalità di pensiero e di ricerca – il confronto non può che essere stimolante, anche ove abbia a concludersi  con la registrazione di un dissenso o persino di un’incompatibilità.

Non è un caso che la migliore dottrina internazionale, anche quando difende le principali acquisizioni del diritto del lavoro, accetti senza problemi di confrontarsi con la critica economica (ad es. G. Davidov). Né mi pare una coincidenza che gruppi di autorevoli giuslavoristi, dal Regno Unito (ad es. S. Deakin) all’Australia (ad es. R. Mitchell), si stiano impegnando nell’elaborazione di nuovi indici di misurazione della normativa protettiva, presumo anche per non dover sottostare a indici approssimativi e insoddisfacenti, come quello di rigidità dell’OECD: sarà pure molto anglo-sassone, ma agli anglo-sassoni non fa difetto il senso pratico.

Ce n’è abbastanza, a mio giudizio, per dare conto dell’interesse di una riflessione comune, orientata in particolare alla preziosa ricerca di soluzioni win-win nei vari campi, in uno spirito di realismo problematico (per fare mia l’espressione di Bruno Caruso), per nulla dimentico della tradizione ma per nulla condizionato da essa.

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