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IL PROBLEMA DELLA SEMPLIFICAZIONE DEL DIRITTO DEL LAVORO

Tre possibili accezioni del termine: facilità di lettura e comprensione del testo legislativo, superamento delle complessità sostanziali della disciplina prive di ragion d’essere, superamento delle pesantezze nel processo di interpretazione e applicazione della norma

Saggio destinato al Liber Amicorum per il settantesimo anniversario di Giuseppe Santoro-Passarelli, anticipato sulla rivista Lavoro Diritti Europa, maggio 2018 – Il 22 marzo il saggio è stato presentato dal sito Adapt con un articolo di Michele Tiraboschi e mio [1] – Tutti i documenti e interventi pubblicati su questo sito concernenti il progetto del Codice semplificato del lavoro sono raccolti nel portale Il Codice semplificato del lavoro [2]     .
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Sommario
1. Tre accezioni possibili del termine “semplificazione”.
2. Alcuni esempi: la semplificazione e la complicazione del diritto del lavoro nel corso della XVII legislatura. A) Semplicità e complessità in senso formale.
3. Segue – B) Semplicità e complessità in senso sostanziale.
4. Segue – C) La semplificazione del processo di applicazione della norma.
5. Considerazioni conclusive e segnalazione di un possibile antidoto contro la complessità sostanziale o procedurale della norma, nonché la sua volatilità, già previsto ma ancora scarsamente utilizzato

 

  1. Tre accezioni possibili del termine “semplificazione”

In tutti i campi è diffusa l’aspirazione a una semplificazione della disciplina legislativa; nel campo del lavoro questa aspirazione è sentita forse più che altrove. Non sempre, però, è chiaro che cosa si intenda per “semplificazione”. Anche perché il termine può essere usato, in riferimento alle leggi e al loro contenuto, per indicare almeno tre cose assai diverse tra loro.

La semplificazione auspicata può essere, in primo luogo, formale: consistere cioè nell’operazione necessaria per ottenere una maggiore facilità di lettura del dettato normativo, a parità del suo contenuto dispositivo pratico. È la semplificazione a cui si riferisce il Decalogue for Smart Regulation [3] emanato a Stoccolma nel novembre 2009 dal Gruppo di studio di alto livello istituito a questo scopo dalla Commissione Europea. Questa si può ottenere con una maggiore chiarezza del testo, una sua minore prolissità e una riduzione del numero delle fonti di disciplina di una stessa materia: per esempio mediante il loro accorpamento in un testo unico.

Cosa assai diversa è la semplificazione intesa in senso sostanziale: cioè come maggiore semplicità del contenuto dispositivo, ovvero degli effetti pratici della norma: per esempio una riduzione dei passaggi burocratici o degli adempimenti richiesti al soggetto interessato, o una minore differenziazione delle fattispecie con conseguente riduzione del numero dei casi cui corrispondono discipline in tutto o in parte differenti, e abbattimento degli attriti operativi che ne derivano, cioè di quelli che gli economisti chiamano “costi di transazione”.

Una terza accezione del termine semplificazione riguarda gli il processo di applicazione della norma, in sede giudiziale o amministrativa: più precisamente, consiste nella formulazione della norma stessa in modo tale che la sua applicazione non richieda l’intervento di un organo amministrativo o giudiziario deputato alla sua interpretazione, oppure che si riducano gli spazi entro i quali la discrezionalità dell’organo deve essere esercitata, riducendosi così l’incertezza dei soggetti interessati circa l’esito dell’eventuale giudizio. La teoria dell’autoselezione delle parti litiganti spiega perché il ridursi dell’alea del giudizio – ovvero ciò che comunemente viene auspicato come “maggiore certezza del diritto” – abbia l’effetto di ridurre il numero dei casi di ricorso al giudice, cioè la quantità del contenzioso.

 

  1. Alcuni esempi: la semplificazione e la complicazione del diritto del lavoro nel corso della XVII legislatura. A) Semplicità e complessità in senso formale

Il primo disegno di legge (11 novembre 2009 n. 1873) contenente il Codice semplificato del lavoro

Nell’ultimo decennio ho dedicato la maggior parte delle mie energie al progetto del Codice semplificato del lavoro [2], che si è concretato nel corso della XVI legislatura nei disegni di legge n. 1872 [4] e 1873 [5], presentati entrambi nel 2009, e nel corso della XVII nei disegni di legge n. 986 [6] e 1006 [7], presentati nel 2013, costituenti un aggiornamento e perfezionamento dei primi due. A queste due edizioni se ne è poi aggiunta una terza [8], nel 2014, frutto di una revisione complessiva e messa a punto dell’intero progetto a opera di un gruppo di lavoro organizzato dal centro di studi Adapt, coordinato da Michele Tiraboschi e da me. Questo progetto si proponeva l’obiettivo di semplificare l’ordinamento del lavoro in ciascuna delle tre accezioni sopra individuate.

Scopo del progetto era, in primo luogo, mostrare come un forte snellimento testuale della disciplina legislativa italiana del rapporto di lavoro sia non soltanto possibile, ma anche conciliabile con la sostanziale conservazione delle linee essenziali del suo attuale contenuto dispositivo. In gran parte del Codice semplificato, infatti, l’operazione di riscrittura era mirata esclusivamente a una codificazione ordinata e concisa del diritto vigente, con eliminazione delle ridondanze e delle ripetizioni, ma senza mutamento rilevante del contenuto sostanziale della disciplina della materia. Nella relazione introduttiva ai disegni di legge n. 1873/2009 e 1006/2013 – quelli riferiti al rapporto di lavoro individuale – osservavo come la legislazione in materia di lavoro in vigore fosse invece caratterizzata dal sovrapporsi di norme sulla stessa materia emanate in tempi diversi, senza che il legislatore avesse avuto cura di abrogare quelle più vecchie o di operare il necessario riordino testuale; e come in generale lo stile dei testi legislativi fosse caratterizzato da una verbosa prolissità e ripetitività, tipica di un certo linguaggio burocratico-legislativo, che ne rende la lettura più difficile. Osservavo inoltre che negli uffici legislativi dei ministeri chi scrive le leggi non è responsabilizzato circa il “costo di transazione” nascente dalla difficoltà di lettura delle stesse per il grande pubblico e per gli stessi addetti ai lavori.

Per questo primo aspetto la mia battaglia, nel corso dell’ultima legislatura, ha prodotto qualche risultato che mi sembra non irrilevante: il decreto legislativo n. 81 [9] (cosiddetto “riordino contrattuale”), emanato in adempimento della delega conferita al Governo con la legge n. 183/2014, è stato redatto con un criterio di riscrittura ordinata delle discipline di ciascuna materia accumulatesi nel tempo e abrogazione esplicita delle fonti precedenti. Altri decreti legislativi attuativi della stessa legge delega n. 183/2014, la cui redazione è avvenuta nel corso dello stesso anno, sono stati invece scritti – da estensori diversi – ancora alla vecchia maniera, risultando in larga parte illeggibili per i non addetti ai lavori: tra questi ultimi spicca, per questo aspetto negativo, il n. 151/2015 [10] soprattutto nella parte relativa al collocamento obbligatorio dei disabili.

Un difetto di ridondanza e di scarsa chiarezza del testo legislativo è, a mio modo di vedere, ravvisabile anche negli articoli 15 e seguenti della legge n. 81/2017, dedicati al cosiddetto “lavoro agile”. Mi riferisco, in primo luogo, alla definizione della fattispecie contenuta nel primo comma dell’articolo 15, inutilmente suddivisa in due periodi che dicono la stessa cosa. Una formulazione ridondante, anzi dannosamente prolissa, è quella contenuta nei commi 2, 3 e 4 dello stesso articolo 15, che ribadiscono l’applicabilità al “lavoro agile” della disciplina generale del rapporto di lavoro subordinato, anche nel settore pubblico. Sarebbero state sufficienti tre righe che dicessero: “alla parte della prestazione lavorativa dedotta nel contratto di lavoro subordinato, ma svolta al di fuori del perimetro aziendale e senza vincoli circa la sua collocazione temporale, nonché ai corrispondenti obblighi del datore, si applica per intero la disciplina generale del rapporto di lavoro subordinato”. E questo avrebbe consentito di eliminare anche almeno quattro degli articoli successivi contenuti nella nuova legge, i quali non fanno altro che dettare con parole diverse e molto più numerose alcune disposizioni già contenute nell’ordinamento previgente; col rischio, oltretutto, che dalla formulazione letterale diversa dalle norme previgenti possa inferirsi una sia pur marginale modifica della volontà del legislatore. E qui siamo già nel campo del difetto di semplicità in senso sostanziale (v. in proposito § 3).

Nel perseguire la semplicità della formulazione del testo legislativo occorre tuttavia evitare il rischio di trasferire nei regolamenti ministeriali le complicazioni che si eliminano nella norma primaria: si cadrebbe altrimenti dalla padella nella brace. Qui il discorso sulla semplificazione intesa nella prima accezione proposta si intreccia con quello sulla semplificazione intesa nella terza accezione: lo riprendo dunque nel § 4, a questa dedicato.

 

  1. Segue – B) Semplicità e complessità in senso sostanziale

La complessità del contenuto sostanziale della norma, soprattutto quando la materia disciplinata è politicamente “calda” perché costituita da rapporti di lavoro, in molti casi è causata direttamente dalla necessità di trovare un compromesso politico tra istanze diverse. Accade spesso che i parlamentari interessati presentino emendamenti rispondenti agli interessi di questa o quella categoria di imprese o di lavoratori, e che la soluzione politica venga raggiunta attraverso una sommatoria delle istanze diverse. Ma ancor più spesso accade che la difficoltà dell’accordo politico tra parti portatrici di interessi divergenti venga superata con una formulazione della norma che fa riferimento contestualmente a due principi diversi, o comunque lascia spazio a più interpretazioni: in questo modo ciascuna parte politica può presentare ai propri elettori la norma dandone la lettura più conforme ai loro interessi, ma in realtà la disposizione affida al giudice una funzione di arbitraggio, ovvero di “riempimento della clausola” in riferimento al caso concreto. Con conseguente incertezza del contenuto pratico della disposizione stessa (torneremo sul punto nel § 4).

Un possibile aspetto di complessità sostanziale del dettato legislativo è costituito anche dalla sua suscettibilità di mutare rapidamente, anche più volte in un breve lasso di tempo: una norma può essere scritta nel modo più chiaro, ma se il suo contenuto cambia ogni anno, o addirittura – come pure è accaduto recentemente – più volte in uno stesso anno, questa sua volatilità costituisce un fattore di complicazione sul piano cognitivo, ma anche una fonte di costi economici e di costi di transazione di per sé evitabili. Il legislatore dovrebbe dunque porre maggiore attenzione e impegno a non cadere nella tentazione di correggere il contenuto delle leggi a ogni stormir di fronda. In questo ordine di idee si potrebbe pensare a qualche norma di self-restraint, inserita nei regolamenti parlamentari, che contribuisca al rallentamento del ritmo di cambiamento delle normative; oppure a una norma costituzionale che affidi al Capo dello Stato il compito di vegliare contro l’eccessiva volatilità delle norme, contro il fatto che esse appaiano come scritte su tabelloni rotanti del tipo di quelli funzionanti negli nelle stazioni ferroviarie e negli aeroporti per annunciare gli arrivi e le partenze.

Ma semplificazione in senso sostanziale significa anche impegno del legislatore per semplificare la vita ai cittadini, e agli operatori economici in particolare, quindi per evitare gli adempimenti burocratici inutili e per regolare i loro rapporti in modo da ridurre il più possibile i costi di transazione.

Un esempio positivo di semplificazione in questa accezione sostanziale, nel corso della XVII legislatura, è costituito – a mio modo di vedere – dalla nuova disciplina dei licenziamenti emanata in attuazione della delega contenuta nella legge n. 183/2014. Il decreto legislativo n. 23/2015 [11] può ovviamente essere criticato per il modello adottato, ma istituisce un apparato sanzionatorio molto chiaro e semplice nella sua struttura, con la prospettiva di una sua applicabilità universale, indipendentemente dalla qualità del datore di lavoro e delle dimensioni dell’azienda.

A questo proposito non concordo con la critica mossa dagli oppositori della riforma, che hanno ravvisato nel nuovo apparato sanzionatorio contro il licenziamento ingiustificato una riduzione eccessiva della protezione della stabilità del rapporti di lavoro a tempo indeterminato: le statistiche disponibili mostrano come il tasso dei licenziamenti rispetto al numero dei posti di lavoro a tempo indeterminato sia rimasto invariato fra prima e dopo la riforma della materia del 2012, sia fra prima e dopo la riforma del 2015.

Neppure concordo con la tesi degli oppositori che imputano alla riforma di aver dato luogo a quattro regimi diversi a seconda della data di intimazione del licenziamento; a me sembra che nel settore privato i regimi siano soltanto due, neppure molto distanti tra loro, e destinati a ravvicinarsi tra loro sempre di più: quello applicabile ai rapporti costituiti prima del 7 marzo 2015 (compresi quelli costituiti prima della legge n. 92/2012), e il regime applicabile ai rapporti costituiti dal 7 marzo 2015 in poi. D’altra parte, la differenza di disciplina applicabile in ragione del tempo in cui il rapporto si è costituito è cosa normale in tutti i casi nei quali la nuova disciplina di un rapporto di durata si applica soltanto ai nuovi rapporti e non ai vecchi: in ciò non vedo una indebita complicazione. E anche se vogliamo considerarla come tale, si tratta di una “complicazione” destinata a estinguersi gradualmente nel tempo, via via che i vecchi rapporti di lavoro verranno sostituiti dai nuovi.

Viceversa, la nuova legge ha fortemente armonizzato tra loro le discipline applicabili alle imprese di piccole dimensioni, rispetto a quella applicabile alle imprese maggiori: si può dire, dunque, che si va gradualmente verso una disciplina unica della materia, nel settore privato.

Quanto alla scelta compiuta con il decreto n. 75/2017 di istituire un apparato sanzionatorio speciale per il licenziamento illegittimo nel settore dell’impiego pubblico, diverso da quello applicabile al rapporto di lavoro privatistico, considero questo un errore sostanziale e ne ho spiegato altrove i motivi [12]; ma non annovererei questo errore tra le “complicazioni” della legislazione del lavoro.

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Un esempio, invece, di complicazione sostanziale che sarebbe stata agevolmente evitabile, nel corso della XVII legislatura, è costituito dalla già citata legge n. 81/2017, nella parte che aggiunge una disciplina speciale del “lavoro agile”, in materia di forma della pattuizione e di protezione della sicurezza del lavoro. Qui torna a manifestarsi una tendenza all’ipertrofia del testo legislativo e all’intrusività del suo contenuto dispositivo, che hanno l’effetto di complicare inutilmente la vita ai soggetti interessati. Per esempio: non si vede il motivo per cui, a norma dell’articolo 18, l’atto scritto con cui viene pattuito il “lavoro agile” debba necessariamente disciplinare anche “l’esercizio del potere di controllo” del datore di lavoro sulla prestazione, nonché individuare eventuali comportamenti particolari tenuti dal lavoratore fuori dei locali aziendali che possano costituire mancanze disciplinari (col rischio che la mancata previsione nella pattuizione individuale possa essere assunto come motivo di nullità dell’eventuale provvedimento disciplinare, pur nel caso di scorrettezza evidente). In materia di igiene e prevenzione degli infortuni, l’articolo 19 impone all’imprenditore l’obbligo di consegnare “al lavoratore e al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, con cadenza almeno annuale, un’informativa scritta nella quale sono individuati i rischi generali e i rischi specifici connessi alla particolare modalità di esecuzione del rapporto di lavoro”: un adempimento burocratico di cui è difficile apprezzare l’utilità pratica, mentre ne sono facilmente individuabili le difficoltà di attuazione, poiché – se si escludono i rischi elettivi – è  davvero difficile individuare nel “lavoro agile” dei rischi aggiuntivi rispetto a quelli cui il lavoratore è esposto quando svolge la prestazione nei locali dell’azienda, già come tali individuati nella valutazione dei rischi periodicamente compiuta in riferimento all’intera azienda. L’articolo 20, infine, impone all’imprenditore di comunicare l’accordo individuale sul lavoro agile alla sezione circoscrizionale per l’impiego, come se si trattasse di una nuova assunzione: un altro adempimento burocratico, che comporta un sia pur piccolo costo aggiuntivo per l’impresa, a quanto mi consta non imposto alle imprese operanti negli altri Paesi europei.

 

  1. Segue – C) La semplificazione del processo di applicazione della norma

La semplificazione intesa nella terza accezione individuata all’inizio è quella che si concreta nella eliminazione – dove ciò è possibile e opportuno – della necessità che l’individuazione del contenuto pratico della norma caso per caso richieda l’intervento di un organo amministrativo o giudiziario, oppure nella riduzione della discrezionalità dell’organo medesimo, con conseguente riduzione dell’imprevedibilità del contenuto pratico della disposizione.

Su questo terreno, va innanzitutto osservato come non sia vera semplificazione quella che consiste nel ridurre il volume del testo legislativo affidando ai regolamenti ministeriali il compito di disciplinare la materia, se questo si traduce in un puro e semplice trasferimento della complessità del testo normativo, quindi della difficoltà di lettura, dalla sede primaria a quella secondaria.

Non è vera semplificazione neppure la sostituzione della tecnica legislativa “casistica”, consistente in una regolazione della materia precisa, puntuale e dettagliata, con la tecnica della “clausola generale”, che consiste nel dettare soltanto una direttiva generica (la “buona fede”, la “correttezza”, la “giusta causa o giustificato motivo”), la quale affida all’interprete il compito di creare la “norma del caso concreto” attingendo ai principi generali dell’ordinamento: col che il contenuto dispositivo pratico della norma, in riferimento al caso concreto, resta in qualche misura indeterminato e scarsamente prevedibile.

In alcune materie, beninteso, la tecnica della clausola generale è la sola utilizzabile; per esempio, sarebbe palesemente impossibile fare a meno della generica nozione di “buona fede” o di quella di “diligenza del buon padre di famiglia” nella definizione generale del modo in cui deve essere compiuta la prestazione contrattuale. In altre materie, però, si possono prospettare delle tecniche alternative, che si conciliano meglio con la determinatezza del contenuto dispositivo pratico della norma, quindi con l’esigenza di semplicità della sua interpretazione e applicazione.

È mia opinione, argomentata altrove (Il contratto di lavoro, vol. III, 2003, § 516), che in tutti i casi in cui la norma abbia per oggetto scelte gestionali dell’imprenditore, quali soprattutto il licenziamento e il trasferimento, e la ratio legis consista nel bilanciamento dell’interesse economico dell’imprenditore con l’interesse del lavoratore dipendente, la tecnica legislativa al tempo stesso più rispettosa del principio costituzionale dell’insindacabilità delle scelte imprenditoriali e più coerente con il principio della semplificazione (che implica la maggiore possibile predeterminabilità del contenuto pratico della disposizione) sia quella che subordina l’esercizio della facoltà dell’imprenditore al pagamento di un indennizzo predeterminato. In questo modo il ruolo del giudice viene limitato all’accertamento dei motivi illeciti, ove denunciati dal lavoratore, mentre la funzione di “filtro” delle scelte imprenditoriali è svolta esclusivamente dall’indennizzo imposto per legge.

Per questo aspetto considero la nuova disciplina generale dei licenziamenti risultante dalla riforma progressiva, incominciata nel 2012 con la legge Fornero e portata a compimento nel 2015, secondo uno schema simile a quello proposto nel progetto del Codice semplificato di cui ho fatto cenno all’inizio, come un modello particolarmente interessante di riduzione della discrezionalità dell’organo giudiziale, quindi di predeterminabilità della regola applicabile al caso concreto.

La nuova norma, in realtà, lascia in vita la clausola generale del “giustificato motivo”, sia sul versante dei motivi economici sia su quello dei motivi disciplinari del recesso del datore; tuttavia, sostituendo la sanzione della reintegrazione con quella dell’indennizzo predeterminato, realizza una combinazione tra tecnica della clausola generale e clausola del “costo-filtro” delle scelte gestionali, che di fatto limita notevolmente l’area di indeterminatezza e imprevedibilità della norma del caso concreto.

Qui, come è ovvio, è ampiamente discutibile la scelta compiuta dal legislatore circa l’entità dell’indennizzo previsto per il licenziamento nel caso del difetto di prova circa il giustificato motivo: se la si ritiene insufficiente, nulla vieta di aumentarla; ma costituisce una semplificazione sostanziale di grande rilievo proprio la riduzione dell’area dell’imprevedibilità dell’esito dell’applicazione della disposizione. Una scelta la cui efficacia è dimostrata dall’andamento del contenzioso giudiziale in materia di licenziamenti, che dal 2012 ha fatto registrare una clamorosa riduzione di due terzi [13] (se si fa riferimento ai casi di lite, considerando il c.d. “rito Fornero” come parte del procedimento di primo grado). Questa riduzione del contenzioso contribuisce a superare una anomalia che ha lungamente caratterizzato, certo non positivamente, il nostro Paese rispetto ai suoi maggiori partner europei. Si può dissentire dal contenuto della disciplina vigente, considerando – in contrasto con il dato statistico menzionato sopra – che essa offra ai lavoratori dipendenti un grado di sicurezza insufficiente: in questo caso, la soluzione proposta dovrebbe consistere nell’aumento dell’indennizzo previsto dalla legge. Ma se il tasso dei licenziamenti rimane invariato e il numero delle liti giudiziali diminuisce, ciò significa che il contenuto della disciplina non peggiora complessivamente le condizioni dei lavoratori in termini di sicurezza, ma è più chiaro e univoco di quanto fosse in precedenza, generando un minor numero di controversie giudiziali: per questo aspetto, a rimetterci è soltanto la categoria degli avvocati.

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Diverso dal caso in cui la norma legislativa demanda la regolazione specifica a un organo amministrativo o giudiziario è il caso in cui la norma stessa demanda questa funzione alla contrattazione collettiva, di livello nazionale e/o aziendale. Certo, anche la necessità di un accordo in sede collettiva costituisce di per sé una complicazione; però questa si giustifica in tutti i casi in cui la scelta imprenditoriale assoggettata a questa regola “cogestionale” incida su di un diritto soggettivo del lavoratore, qual è per esempio il diritto alla riservatezza personale (artt. 4 e 6 St. lav.).

 

  1. Considerazioni conclusive e segnalazione di un antidoto contro la complessità sostanziale o procedurale della norma, nonché la sua volatilità, già esistente ma ancora scarsamente utilizzato

La semplificazione intesa nella prima accezione proposta, cioè come più facile leggibilità e comprensibilità del testo legislativo, costituisce un bene in sé che dovrebbe essere perseguito con attenzione molto maggiore dal legislatore. Con l’avvertenza, però, che non è vera semplificazione il trasferire la complessità nella regolazione secondaria; e che è semplificazione solo nella prima accezione del termine, ma non nella terza, l’utilizzo della clausola generale, che affida all’interprete il compito di determinare la norma del caso concreto. In altre parole, la semplicità del testo legislativo non deve essere perseguita al costo di una rinuncia alla semplicità del processo applicativo della norma.

La semplificazione del contenuto dispositivo della norma (seconda accezione proposta), invece, non è sempre un bene in sé: se la realtà economico-sociale è complessa e diversificata, può essere necessario che per certi aspetti anche la regolazione dei rapporti giuridici lo sia, per evitare di trattare in modo eguale situazioni diseguali. Occorre però distinguere la complessità normativa mirata a tenere conto della complessità sociale, dalla quella che è invece è soltanto il frutto del disordine e della sciatteria dell’attività legislativa. Imporre un adempimento burocratico inutile o evitabile non ha mai portato alcun beneficio ai più deboli o ai diseredati.

Quanto alla “certezza del diritto” essa è un bene – e come tale va perseguita con molto maggiore impegno di quanto oggi non si faccia – se intesa come chiarezza e non ambiguità del testo legislativo, come sua stabilità nel tempo o quanto meno “non volatilità”, e come riduzione al minimo necessario delle materie soggette a clausole generali che delegano all’interprete la creazione della norma del caso concreto. Detto questo, però, non possiamo dimenticare che il fenomeno della globalizzazione, in virtù del quale ogni evento, a qualsiasi latitudine e longitudine esso accada, influisce in qualche misura su quel che accade in qualsiasi altra parte del mondo, complicandosi così tutti i processi e aumentando enormemente l’imprevedibilità dei loro esiti. Anche il diritto ne è investito; con effetti inevitabilmente negativi per la sua stabilità nel tempo, semplicità di contenuto, certezza e prevedibilità.

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Per finire va menzionato un antidoto possibile che l’ordinamento pone a disposizione del sistema delle relazioni industriali [14], contro la complessità sostanziale o procedurale della disciplina legislativa dei rapporti di lavoro e gli effetti negativi della sua volatilità, oggi accentuata dalla grave crisi della politica nazionale: la possibilità di sostituire la disciplina stessa, semplificandola e ponendola al riparo dai sussulti conseguenti all’instabilità delle maggioranze parlamentari, mediante la possibilità di sostituire la disciplina stessa, semplificandola, mediante appositi accordi collettivi aziendali o territoriali, prevista dall’articolo 8 del d.-l. n. 138/2011, convertito nella legge n. 148/2011 e confermata, in riferimento alle materie specifiche regolate dal d.lgs. n. 81/2015, dall’articolo 51 dello stesso decreto, che ha sancito in via generale lo svincolo dell’autonomia collettiva decentrata dalla necessità della clausola di rinvio contenuta nel contratto nazionale. Si tratta, in realtà, di una possibilità più limitata di quanto appaia dalla formulazione molto ampia della norma del 2011: ne restano infatti escluse tutte le disposizioni legislative costituenti attuazione di una norma costituzionale e quelle riguardanti i rapporti assicurativi e previdenziali. Questa possibilità di autoregolazione in deroga rispetto alla legge ben potrebbe, però, essere utilizzata da imprese e sindacati maggioritari per neutralizzare le complicazioni indebite, ivi comprese quelle derivanti dal mutamento troppo frequente della normativa vigente, per esempio in materie come il contratto a termine, il lavoro a tempo parziale, l’apprendistato, il lavoro intermittente, il lavoro temporaneo tramite agenzia. Sarebbe questo un modo per riaffermare, nel nostro sistema delle relazioni industriali, quel primato della contrattazione collettiva come metodo per la regolazione dei rapporti di lavoro, che dalla metà degli anni ’60 è andato in larga parte perduto, non sempre con vantaggio per la protezione effettiva dei lavoratori e della qualità del lavoro.

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