LICENZIAMENTI: lL CROLLO DEL CONTENZIOSO GIUDIZIALE

DAL 2012 LE CAUSE DI LAVORO SI SONO RIDOTTE DI UN TERZO, QUELLE IN MATERIA DI RECESSO DEL DATORE O DI CONTRATTI A TERMINE SI SONO RIDOTTE DI OLTRE DUE TERZI – IL SIGNIFICATO DI QUESTO FENOMENO, FINO A IERI IGNOTO NELLE SUE ENORMI DIMENSIONI ALLA STESSA AMMINISTRAZIONE DELLA GIUSTIZIA

Testo integrale dell’articolo pubblicato, con due piccoli tagli per motivi di spazio, sul Corriere della Sera del 18 febbraio 2017 – I dati (parziali, riferiti al solo settore privato) contenuti nelle due tabelle che seguono sono tratti da una serie completa fornita dal ministero della Giustizia       .
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I dati che emergono dal censimento permanente dei procedimenti giudiziari in materia di lavoro sono impressionanti. È già di per sé notevolissima la riduzione del numero complessivo delle liti davanti alle sezioni specializzate, nel settore privato: dal 2012 al 2016 sono diminuite di un terzo. Ma ancora più drastica è la riduzione in atto, nello stesso settore, delle liti in materia di licenziamenti e di contratti a termine: nello stesso quinquennio il numero di questi procedimenti giudiziali si è ridotto del 69 per cento.

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Il calo dei procedimenti ISCRITTI A RUOLO anno per anno (settore privato)

Le tabelle da cui questo articolo è corredato sono tratte da una serie completa dei dati relativi alle cause in materia di lavoro privato e pubblico che è stato possibile ottenere alla fonte, cioè dal ministero della Giustizia, con grande difficoltà. La prima cosa che dobbiamo chiederci è: perché tutta questa difficoltà? La legge stessa n. 92 del 2012, la cosiddetta legge Fornero, che ha innescato questo processo virtuoso di allineamento del tasso italiano di contenzioso in materia di lavoro ai livelli degli altri maggiori Paesi europei, prevede espressamente il monitoraggio degli effetti prodotti, in funzione di una valutazione pragmatica e rigorosa dell’impatto della nuova normativa. Ma, se anche la legge non lo prevedesse, quale mai potrebbe essere un motivo serio per non pubblicare e aggiornare permanentemente l’intera serie di questi dati fin dall’inizio del secolo – e non solo quella successiva al 2011 – in modo che chiunque possa studiarli e discuterne?

L’altra cosa, non meno importante, su cui dobbiamo interrogarci è il significato di questo fenomeno, che i tecnici indicano con l’espressione “deflazione del contenzioso” e che si manifesta in queste dimensioni soltanto nel settore del lavoro privato (nel settore pubblico il contenzioso, sempre di competenza dei giudici del lavoro, nello stesso quinquennio si è ridotto soltanto del 13 per cento, a fronte di una riduzione anche della platea interessata). Per individuare con precisione la causa del fenomeno occorrerà esaminare pure i dati relativi agli anni precedenti al 2012, ancora non disponibili. Sulla riduzione dei procedimenti in materia di licenziamenti è comunque ragionevole ipotizzare che abbia fortemente influito la nuova disciplina contenuta nella stessa legge del 2012 sopra citata: essa, infatti, ha ridotto la “posta in gioco”, limitando drasticamente la discrezionalità del giudice nel disporre la reintegrazione nel posto di lavoro e ponendo dei limiti precisi, da 12 a 24 mensilità, al risarcimento ottenibile dal lavoratore nel caso di sentenza favorevole, che invece prima era illimitato e poteva raggiungere cifre colossali nel caso in cui il procedimento si fosse protratto per molti anni. Ridurre la posta in gioco significa ridurre l’alea del giudizio, quindi rendere più facile la conciliazione tra le parti, che evita la lite giudiziale. Corrispondentemente, infatti, fin dal 2013 si era avuta notizia di un brusco aumento delle conciliazioni, soprattutto in materia di licenziamento per motivo “oggettivo”, cioè economico od organizzativo.

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Il calo dei procedimenti DEFINITI dai giudici del lavoro anno per anno (settore privato)

Non mancherà, prevedibilmente, chi indicherà in questo calo dell’attività di avvocati, giudici e cancellerie una conferma di quello “smantellamento delle protezioni”, che dalla legge Treu del 1997 in poi viene immancabilmente denunciato a ogni nuova legge in materia di lavoro. In realtà non vi è alcuna evidenza che la legge del 2012 abbia causato un aumento dei licenziamenti in rapporto alle assunzioni. Per converso, nell’ultimo biennio si è assistito a un netto aumento del numero degli occupati: 700.000 in più, dei quali due terzi a tempo indeterminato. E il numero complessivo delle cessazioni del rapporto, che all’inizio del quinquennio era superiore a quello delle assunzioni, da due anni è inferiore.

Ciò che stiamo smantellando è solo la peculiarità negativa del nostro Paese, per cui fino a qualche anno fa ogni licenziamento generava quasi automaticamente una controversia giudiziale. L’unica categoria che ne traeva sicuramente un cospicuo beneficio era il ceto forense. Ora il drastico calo del tasso del contenzioso in questa materia mostra che sta cambiando davvero la cultura del lavoro e industriale nel nostro Paese. Anche la cultura giuslavoristica: la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 25201 di due mesi or sono, ha riconosciuto che non necessariamente il licenziamento deve costituire l’extrema ratio di un’impresa sull’orlo del fallimento: l’aggiustamento degli organici è legittimo non solo quando l’impresa è già in crisi, ma anche per prevenire la crisi rafforzando la competitività dell’azienda.

Alla produttività del lavoro, quindi anche alla sua retribuzione, fa bene il fatto che sia più fluido e meno costoso lo spostamento delle persone dalle imprese marginali a quelle più forti, più capaci di valorizzarlo. Come è sempre stato negli ultimi due secoli di progresso tecnologico via via più rapido, anche nell’era della globalizzazione – che non si arresterà certo per ordine di Trump – è un’illusione quella di difendere la sicurezza e il benessere dei lavoratori col tenerli aggrappati con le unghie, coi denti e con le carte bollate alle vecchie strutture produttive: la difesa di gran lunga più efficace consiste nell’assisterli e sostenerli economicamente nel passaggio dalle vecchie alle nuove.

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