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CREDERE IN QUALCHE COSA CHE NON È DATO MA VA COSTRUITO

“[…] La casa nella pineta è il libro della Milano città operaia e al tempo stesso città borghese […] di una borghesia radicata in un cattolicesimo manzoniano, poco esibito, poco bigotto, anche al suo interno dialogico: quello […] dove stavano insieme due persone diversissime come don Giussani e Padre Turoldo […]”

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Trascrizione dell’intervento di Elio Franzini, Rettore dell’Università degli Studi di Milano, nel corso della presentazione de
La casa nella pineta promossa a Milano dal Centro Culturale Milanese l’11 dicembre 2018 – È online anche l’intervento svolto da me nella stessa occasione [1] – Tutte le recensioni e gli interventi sullo stesso libro sono facilmente accessibili attraverso la pagina web ad esso dedicata [2]
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Elio Franzini, Rettore dell’Università degli Studi di Milano

Grazie, in primo luogo, per questo invito. Io di mestiere in realtà faccio il professore di Estetica. In quanto tale, esercito una professione critica. Il libro di Pietro Ichino è aperto da un albero genealogico, da genealogie bellissime, in cui si vedono dei nomi che hanno fatto la storia di questo Paese, come Sraffa e Pontecorvo, cioè nomi di grandi, che hanno inciso anche dall’interno parte della mia disciplina. Ma al di là degli alberi genealogici di questa borghesia milanese di cui vorrei dire qualcosa, in quanto esercito una professione critica, il libro di Pietro Ichino è un bel libro, scritto bene, dove si intreccia la storia, o meglio si intrecciano i livelli della storia, in modo estremamente intelligente e mai forzato. Non è facile, letterariamente parlando, mischiare la storia personale a quella nazionale, alla grande storia, e anche a quelle dimensioni ideologiche che vi incidono all’interno. Mischiare i piani è sempre molto difficile, in particolare se, come Pietro Ichino, si è stati protagonisti dal puntodi vista soggettivo di questa grande storia, al tempo stesso rimanendo sempre legati a questa casa della pineta o a quell’altra, la “casa due” della pineta, che si trova di Courmayeur.

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don Giovanni Barbareschi

Vi sono evidentemente dei differenti modi per leggere questo libro e credo che, essendo milanese e appartenendo anche io a quei differenti livelli della borghesia milanese – Milano è stata città operaia e città borghese fin dalle origini e quindi, esattamente, come esistevano differenti livelli di lavoratori, esistevano, e parlo al passato, differenti livelli di borghesia; non erano tutte uguali: c’erano quelle di antiche o nuove generazioni – appartenendo anche io, figlio di professionista medico, a quella stessa borghesia, credo sia difficile non avere in alcuni passi di questo libro un movimento empatico, quasi una sorta di riconoscimento antropologico. Si riconoscono i nomi, le persone – cosa strana quando si parla di un libro -si vedono i nomi concretizzati in persone. Due citati: don Giovanni Barbareschi, seppure riportato, perché siamo tutti manzoniani, e anche un passo bellissimo in cui ho rivisto la professoressa di filosofia Rosanna Ferrari Coppi denunciare una ragazzina perché stava, mano nella mano, con un fidanzatino, in un’epoca meravigliosa in cui stava scoppiando il Sessantotto. Quello che pochi mesi dopo sarebbe stato non solo lecito, ma sarebbe stato un atto di pura innocenza, diventava un atto quasi peccaminoso. Ma me la vedo qui, come se fosse presente tra noi, telefonare alla madre per denunciare questa straordinaria offesa alla morale.

Quindi, questo libro genera empatia, perché vi è il riconoscimento delle persone. E genera empatia anche un altro elemento: un protagonista non tanto criptico, fondamentale di questo libro: don Milani. Era diventato – lo dico per i più giovani o chi viene da Varese – una icona della borghesia milanese. Proprio per la Lettera a una professoressa uscito nel 1967, se non ricordo male, un libro di una violenza, che sia chiaro, inaudita: letto oggi, pare come un testo estremamente forte ed estremamente aggressivo, ma che mio padre, medico appunto, medico cattolico, anzi dirigente dell’associazione dei medici cattolici, mi portò in casa.

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L’aula della Scuola di Barbiana

Nel 1967 avevo undici anni, credo che prima ancora di andare al liceo lo avessi già letto e facevo delle litigate con un altro esponente di una Milano culturale, di una borghesia diversa: il mio professore di italiano, Quirino Principe. Secondo lui uno dei mali dell’Italia era la Lettera a una professoressa perché la cultura che propugnava era comunque alta e non riconosceva quei livelli culturali che sussistevano anche nella realtà delle campagne, in quella che in apparenza era ignoranza.

Contestava insomma la famosa frase di don Milani “la scuola è meglio della merda”. Contestava proprio questo: a suo parere un modello culturale illuministico, quindi molto borghese, che riconosceva una superiorità della classe borghese sulle altre. Naturalmente, Principe lo diceva da un punto di vista reazionario e non certo rivoluzionario, questo è assolutamente chiaro. Bene, don Milani fu sicuramente un momento importante, un momento di riconoscimento di una classe sociale, direi molto milanese, in quanto vuole essere vicina a chi è lontano, mantenendo però uno sguardo critico e una sorta di autonomia intellettuale. In fin dei conti don Milani rimane l’immagine del grande borghese che vuole andare verso un mondo che non è il suo per portarlo verso il suo stesso mondo.

Don Milani ha generato in me quello stesso elemento che ha generato in Pietro Ichino e che freudianamente possiamo chiamare senza tante storie “senso di colpa”. Ora, spesse volte gli psicanalisti giustamente ci dicono che il senso di colpa a volte deriva da effettive colpe e quindi è giusto averlo, altre volte è totalmente immotivato. Uno degli elementi chiave di questo libro è il senso di colpa generato in un incolpevole fanciullo, da don Milani con l’idea della “restituzione”, ecco: questo libro è una forma di restituzione. Dopodiché, inconsapevolmente forse don Milani, inconsapevolmente in Pietro Ichino forse, l’economia più avanzata oggi ci dice che quello che deve fare la ricchezza è quello di restituire, condividere, mirare a un bene comune a cui sicuramente il capitalismo italiano degli anni Sessanta non pensava. Era un capitalismo sicuramente per certi versi arretrato e che non guardava alla dimensione della restituzione: pensava a quella fase, peraltro comprensibilissima, della accumulazione. Se leggiamo la storia dell’industria italiana vediamo varie fasi: forse don Milani quando parlava di restituzione, aveva in mente inconsapevolmente, un modello di economia che mirava a forme di condivisione più avanzate di quello che la sua stessa epoca era in grado di generare.

[6]Ecco, quindi il borghese è affascinato. Però, in quegli stessi mesi, con grande terrore di molti borghesi milanesi – in quegli stessi mesi o in quelli successivi e poi nel ’68, ’69, ’70, per così dire sempre peggio – nelle strade milanesi si urlava uno slogan che non dobbiamo dimenticare: “fascisti, borghesi, ancora pochi mesi”, in cui la borghesia, quella stessa borghesia che si era auto rappresentata come illuminata e che aveva ritenuto se stessa quale protagonista di un possibile riscatto sociale, veniva non soltanto accomunata ai fascisti, quindi a quello che la borghesia in particolare milanese, riteneva assolutamente altro da sé, ma – si diceva – che le sarebbero rimasti pochi mesi. Qualcuno ci credeva per altro. Fu il grande periodo dei capitali in Svizzera, delle case acquistate a Lugano: tempo ormai assolutamente dimenticato.

A questo punto il borghese si trova a dover restituire e a porsi in un certo qual modo contro la propria appartenenza, senza tuttavia riuscire a distaccarsene. Questo è un altro elemento che ho visto nel libro di Pietro Ichino, che sceglie a un certo punto di non lavorare con il padre, amato evidentemente, amatissimo, padre guida e padre modello, come sanno esserlo i padri borghesi milanesi. Ma il figlio non vuole esserne la copia, intende essere qualche cosa di nuovo. Qui nasce l’anima della borghesia milanese che si rinnova, che in un certo qual modo aderisce all’altro da sé, cioè a quell’elemento, che a Milano tra l’altro, malgrado questa città fosse molto legata alla dimensione del proletario e del lavoratore non è mai stato preponderante, cioè al partito comunista. Partito comunista che a Milano fu sempre, elemento che pochi sanno, molto migliorista, ancor prima che vi fosse il migliorismo.

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Giorgio Napolitano con Enrico Berlinguer negli anni ’70

Ricordo che nell’Università Statale in un mitico comizio, il Sessantotto fu ucciso dall’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, tenutosi nel parcheggio dell’Università Statale, in cui dettò la linea: il PC milanese non avrebbe appoggiato il Sessantotto. E quando gli studenti cercavano di interrompere le lezioni di alcuni professori comunisti, come Gennaro Barbarisi, vennero gli operai della Ferro Tubi Innocenti che come in un film di Bud Spencer, davano loro letteralmente i pugni in testa. Quindi un Partito Comunista assolutamente particolare, come lo è naturalmente Pietro Ichino al suo interno.

Ho letto la sua storia da filosofo, lo confesso, ma con estrema curiosità, perché ho visto in lui, non so se è d’accordo, quasi l’immagine concretizzata di una persona che ha letto Gramsci e in un certo qual modo diventata un intellettuale organico: organico non al Partito, a una realtà specifica, ma alla società. Non è distaccato dalla società e fa il pittore, l’artista, il filosofo e così si mantiene distaccato. Ma è l’intellettuale che in un certo qual modo si fonde all’interno della società e porta, come forse faceva don Milani, questo seme di organicità all’interno di un mondo disorganico. Quindi l’intellettuale, l’intellettuale comunista che vuole cambiare la società, disegna un quadro unitario per rivoltarla dall’interno, facendosi in tal modo quasi portatore di un credo e di un dettato nuovo.

L’immagine che ci dà Pietro Ichino non è quella particolare borghesia milanese che si sta instaurando in questi anni, poi chiamata “radical chic”, che appoggiava il Sessantotto rimanendo nelle bellissime case di via Fatebenefratelli o della zona Brera, ospitava le persone – diciamo così – che puzzavano di terrorismo o di fiancheggiamento del terrorismo, e dicevano quello slogan, che io ho sempre trovato uno dei più aberranti negli anni di Piombo: “Né con lo Stato né con le BR” paragonando le strutture dello Stato e chi comunque difendeva la legalità e un ordine costituzionale, con chi voleva stravolgerlo e ucciderlo. Ecco, non è questo intellettuale borghese che si pone su un piano di totale distacco cinico dalla realtà che non conosce. No, è l’intellettuale che si sporca le mani, entra all’interno di un agone che non è il suo, nelle lotte di partito, in un quadro che ha fatto la storia del nostro Paese. E a mio parere, ha fatto anche la storia minore del nostro Paese, perché ha saputo mettere in gioco le proprie stesse contraddizioni. Ha potuto continuare a vivere nella casa della pineta sapendo però prendere le necessarie distanze dalle case all’interno della pineta.

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Padre Davide Turoldo

Quindi è su questi piani – e chiudo – che io ho letto il libro di Pietro Ichino. C’è una dimensione pubblica, una dimensione di intellettuale organico ma anche qualche cosa di più: una borghesia milanese profondamente legata a una tradizione e a una cultura cattolica, cosa che non si trova nelle altre città italiane. Qui la borghesia è radicata ad un cattolicesimo manzoniano, cioè a un cattolicesimo molto poco esibito, molto poco bigotto. Strano e anche al suo interno dialogico: quello stesso cattolicesimo che in un certo modo il cardinale Montini ha bene incarnato, rimanendo al tempo stesso estremamente progressista ed estremamente reazionario, riuscendo a far convivere nel medesimo contesto ecclesiale don Giussani e padre Davide Turoldo, due cattolicesimi assolutamente sociali, due persone che interpretavano la propria appartenenza all’interno della società in modo completamente diverso, cosa che sarebbe stato impossibile, credo, in qualsiasi altra città italiana. In fin dei conti Montini appoggia anche, o perlomeno tollera, don Milani: ha un atteggiamento molto consapevole delle differenti anime che vivono all’interno del cattolicesimo italiano e creano una realtà spirituale paradossalmente tutta borghese, tutta legata alle controverse realtà milanesi.

Allora, accanto a questa dimensione di lotte sociali, di lotte operaie e politiche, accanto a questo aspetto intimo, privato, familiare, vi è una profonda dimensione spirituale in questo libro, che forse ne riverbera un intenso fascino – così l’ho letto io – perché la dimensione spirituale corre attraverso tutte le pagine e ci restituisce una figura di borghese, intellettuale, professore, politico, che è anche però, tra virgolette, “uomo di fede”. Non sto parlando tanto di fede in un determinato orizzonte di carattere religioso. La fede significa – e in questo tempo ritengo sia importante – la capacità di credere in qualcosa che rimane e che non è transeunte. Il destino non è qualcosa che ci capita addosso, ma ci viene disegnato e si radica in radici profonde – non a caso si apre con un albero genealogico – che per dare frutti, devono anche essere in grado di creare qualche cosa di nuovo.

Due elementi mi sono sembrati molto simbolici: che questo libro, proprio per la sua dimensione spirituale, è attraversato da un sentimento molto bello che io chiamo nostalgia. Nostalgia per una realtà che non c’è più. La nostalgia in senso proprio è il dolore del ritorno, cioè la capacità di avere consapevolezza che questo mondo non torna più, questo mondo dove c’era fede, si aveva profonda credenza nel nostro futuro, in un mondo che si poteva costruire. Credo che questa profonda nostalgia sia un altro filo conduttore e d’altra parte questo libro è elogio delle radici. La casa nella pineta è l’elogio delle radici. Ma c’è anche un altro elemento molto simbolico. Il libro si conclude: evidentemente è la storia di una vita, quella del padre. Il padre è in ciascuno di noi, come presenza fisica, e quando non c’è più, resta come dimensione archetipa.

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