LA CASA NELLA PINETA RACCONTATA IN DIRETTA

«[…] Credo che il mio essere sempre stato un po’ un irregolare, dovunque io abbia militato […], nasca da questo ammonimento di padre Acchiappati: “vai, vedi, frequenta, e poi, dove troverai maggiore sintonia, lì impegnati; però stai attento, perché ti proporranno di trasformare in chiesa il partito. Tu rifiuta sempre questa pretesa”. […]»

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Trascrizione di due miei interventi nel corso della presentazione de
La casa nella pineta, svoltasi al Centro Culturale Milanese il 10 dicembre 2018 – È online anche l’intervento svolto da Elio Franzini, Rettore dell’Università degli Studi di Milano, nel corso dello stesso incontro -La trascrizione dell’intero incontro sarà presto disponibile sul sito dello stesso Centro Culturale – Tutti gli altri interventi sul libro svolti in altre occasioni,  miei ma soprattutto di altri, recensioni e documenti, sono facilmente reperibili attraverso la pagina al libro stesso dedicata
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Grazie di questo invito e di questa occasione di parlare di una cosa mia, quale è questo libro, e di un’altra cosa mia, che è la vita qui raccontata. È una storia in cui la fede cristiana ha un ruolo centrale, fin dall’inizio. Nel senso che l’inizio di tutto forse si può vedere nella conversione della nonna Paola, la sorella di Iole che negli anni Venti sentì la religione ebraica come un vestito stretto.

Carlo e Paola Pellizzi, sul portico della “casa nella pineta” negli anni ’60

Lei era una Pontecorvo, apparteneva ad una famiglia ebrea poco osservante ma molto permeata della cultura ebraica e lei sentiva questa cultura come angusta. Si è convertita spontaneamente; quando le chiedevamo: «Ma chi è stato il tuo punto di riferimento?» Lei diceva: «Io ci sono arrivata da sola». Da sola anche perché nonno Carlo con cui lei era già sposata era cattolico per origine, perché battezzato ritualmente dalla sua famiglia, ma non lo si poteva dire un fervido credente. Si converte al cristianesimo senza ripudiare l’ebraismo: solo cercando uno spazio maggiore rispetto alle tradizioni. Già negli anni Trenta si lega a una chiesa di frontiera: ha un rapporto strettissimo con don Zeno e partecipa in modo molto intenso alla costruzione di Nomadelfia. La famiglia Pontecorvo è accesamente di sinistra, socialisti nei primi anni del secolo, poi anche comunisti con Bruno, Gillo, i Sereni; ma c’erano anche i Colorni  e lei è sempre stata in rapporto molto stretto con Piero Sraffa, suo cugino primo amatissimo, quasi coetaneo, figlio di una sorella di sua madre. Questo senso, diciamo, della responsabilità sociale è fortemente vivo nella nonna Paola fin dall’inizio; e invece di tradursi in impegno politico si declina in un impegno morale tutto costruito su una motivazione cristiana, evangelica. Poi si lega anche al movimento dei padri operai: è molto amica di padre Gaggero, soffre lo scontro tra lui e il cardinal Siri, poi la sua riduzione allo stato laicale.

Il senso di responsabilità sociale si trasmette a mia madre, che lo traduce anche lei in una forte attenzione ai segni dei tempi, a ciò che accade intorno. Ma non per difendersene, semmai per assecondare un progresso in cui crede fortemente. Questa idea della responsabilità sociale preesiste a don Milani che hanno conosciuto nell’adolescenza come il fidanzato di quella che per me era la zia Carla, sorella di Notti e Schicchi Sborgi, le gemelle. Poi lui la pianta nel 1943 per andare in seminario, ma prima stavano insieme. Era un ragazzo spigliato, simpatico, bello, molto interessante; e però sembrava non avere niente del futuro don Lorenzo Milani. Invece il vero don Lorenzo Milani viene riscoperto prima attraverso il libro Esperienze Pastorali: la zia Carla lo manda alla mamma, lei e mio padre se ne innamorano e ne comprano 250 copie dall’editrice fiorentina; l’editrice avverte lo scrittore dell’acquisto da parte di questa lettrice milanese particolarmente generosa… e così si ristabilisce il contatto.

Padre Davide Turoldo

Naturalmente aggiungere don Milani su un cristianesimo che era già nutrito di don Zeno, di don Primo Mazzolari, anche della Corsia dei Servi di padre Davide Turoldo, perché i miei genitori frequentavano anche quell’ambiente, in un certo senso era come aggiungere benzina sul fuoco. Tutto questo essendo però, la nonna, il nonno e poi mia madre, legatissimi alla “casa della pineta”, che rappresenta proprio l’essenza del loro essere borghesi: la casa nella pineta era stata ricevuta dal bisnonno Pellizzi come un lascito  cui lui aveva voluto attribuire un significato etico molto positiva. Il bisnonno aveva detto ai figli, lasciando loro questo bene che non era ancora uno status symbol (solo in seguito è diventato un luogo di villeggiatura esclusiva) dicendo: «se dovete vendere, vendete a Pisa» ‒ cioè dove abitavano ‒ «ma non vendete il Forte». Il Forte doveva rimanere il luogo dell’unità della famiglia, dove ci si ritrova, il luogo dell’accoglienza, dove si riunivano anche una quantità di persone che gravitavano intorno alla famiglia. Tra l’altro adesso Donata Ferrari, la mia cuginetta che ha voluto venire qui stasera, e di questo la ringrazio, mi ha dato questo libro di sua madre, la zia Notti, rivisto da lei, in cui si parla di questo stesso modo di intendere la casa: di un essere “borghesi” in un senso positivo, non negativo.

Don Lorenzo Milani

Fra l’appartenenza al ceto borghese e questo senso di responsabilità sociale si determina un attrito, un contrasto, un dramma, una dialettica non risolta. Esplode nel momento clou, che io colloco nel ’62. Io avevo 13 anni; don Milani era passato da noi a pranzo come faceva sempre quando veniva a Milano; dopo pranzo – me lo ricordo come se fosse ieri – noi tutti seduti nel bel salotto luminoso coi libri, bei mobili, lui mi mette la mano sulla spalla e dice: «Pietro, tutto questo – indicando la casa nella pineta, in sostanza, anche se eravamo a Milano – tutto questo per ora non è peccato, ma quando avrai compiuto i ventun anni, se non restituisci tutto, diventa peccato». E questo mi veniva detto davanti ai genitori, che i ventun anni li avevano compiuti da un pezzo, e tra l’altro erano i padroni di casa che lo stavano ospitando: non era proprio gentilissimo da parte sua.

Su questa cosa noi poi rimuginammo molto. Al momento loro, scuri in volto, si presero questa sberla e non successe nulla. Poi, andato via don Milani, io gli dissi: «Ma insomma, come la mettiamo, voi i ventun anni li avete compiuti». Lì io ebbi due risposte diverse, che ho cercato di restituire nel libro, perché corrispondevano a due personalità differenti. Mia madre, più milaniana, disse: «No, ha ragione lui; è così: noi dobbiamo restituire tutto. Non è detto che sia bene farlo così d’impulso, subito, ma abbiamo il dovere di prepararci a restituire. Verrà il momento in cui ci arriverà il segno, e bisogna che in quel momento la coscienza sia pronta a rispondere positivamente». Quindi era un modo per dire: magari non subito, magari non proprio domattina, ma dopodomani questo probabilmente dovrà accadere. Invece mio padre mi disse: «Senti, don Milani è sicuramente un sant’uomo, le sue scelte sono ammirevoli, ed è importantissimo coltivare la sua conoscenza e la sua amicizia; ma le vie del Signore sono infinite: Ci sono i santi come lui, ma ci vogliono anche dei santi avvocati, dei santi medici, dei santi spazzini, dei santi infermieri, dei santi contadini, e anche dei santi che non sono nessuna di tutte queste cose. Ciascuno deve trovare la sua strada per la santità, non c’è solo quella di don Lorenzo». Quindi in un certo senso lui prendeva un pochino le distanze.

Galileo Chini, La pineta

Dopodiché accadde che l’anno della morte di don Milani, mia madre ebbe quella “chiamata” che aveva previsto: accadde che entrò in vigore la legge sull’adozione speciale, quella che doveva svuotare gli orfanotrofi. Non era stato predisposto niente perché i tribunali dei minorenni potessero fare l’enorme quantità di lavoro che la legge attribuiva loro; il presidente di allora del tribunale dei minorenni di Milano lanciò un appello, disse: «Una legge bellissima, ma che non produrrà niente perché non è stato fatto niente per farla funzionare». E lì mia madre, con tutto il suo gruppo di Rinascita Cristiana, disse: «Lo facciamo noi». Ci misero i soldi e ci misero il loro lavoro a tempo pieno. Lei era avvocato, avrebbe potuto continuare a lavorare in Studio con mio padre, invece si dedicò anima e corpo a quell’impresa. Coinvolse le amiche del suo gruppo di Rinascita Cristiana – tutte signore della borghesia milanese – , che erano Ida Borletti, Elena Pirelli, Lisi Vallardi, Giannetta Lazzati, Pia Majno, e così via. Fecero quello che diventò poi il Centro Ausiliario Minorile, un punto di riferimento in tutta Italia e anche fuori, e che è operante tuttora. Non solo, mia madre ci si buttò a testa bassa anche nel senso che quando c’era un bambino che non si riusciva a piazzare, se lo portava a casa. La pineta del Forte ha sempre visto pullulare i bimbi, soprattutto quelli con qualche handicap fisico o sociale, per i quali era difficile trovare una sistemazione, oppure perché un po’ grandicelli, quelli che avevano già sette-otto anni o addirittura non erano più adottabili con l’adozione speciale, ed erano quelli i più difficili da sistemare. La mamma, quando non si sapeva cosa fare, se li prendeva. Li abbiamo avuti per casa tante tante volte; soprattutto d’estate, perché era questo il momento più difficile per chi si occupava di loro al tribunale dei minorenni.

Fu il momento in cui mia madre decise che era quello il modo in cui avrebbe restituito; e mio padre la assecondò totalmente. Però, per dirvi quanto in realtà il dramma fosse sempre vivo e quanto l’animo di ciascuno di noi è complesso e non riducibile a schemi, accadde anche, a metà degli Anni Settanta, che il comune del Forte, dovendo rispettare certi standard di verde pubblico imposti da non so quale nuova legge, avendo lì questa nostra bellissima pineta che non era stata lottizzata, era ancora pressoché intatta, pensò bene di espropriarcene metà. A quel punto mio padre ebbe buon gioco a dire: «Ragazzi, dicevate che bisogna restituire, che quando arriva il momento si deve essere pronti a restituire; ecco, il momento è arrivato. La storia va in questa direzione e siamo tutti contenti che il Comune ci aiuti ad assolvere questo nostro dovere». Chi invece fece il ricorso al TAR contro il provvedimento fu mia madre: perché era troppo legata a questa eredità e all’imperativo del bisnonno con cui le era stata trasmessa, per rinunciarvi senza combattere. È un fatto, comunque, che il dramma di cui parlavo all’inizio è sempre stato vivo.

Gillo Pontecorvo

Per quel che riguarda me – scusate, io sto parlando forse un po’ troppo, ancora solo qualche minuto – io avevo intanto questi genitori che in qualche modo ci coinvolgevano, fin da piccolissimi, in una osservazione del mondo circostante e dei fatti geopolitici, cosa di cui io mi sono reso conto proprio scrivendo questo libro. Uno dei primi episodi che mi coinvolse molto intensamente, da cui mi sentii preso e appassionato, fu nel ’56 con la crisi di Suez per un verso, e subito dopo con la crisi ungherese, l’occupazione di Budapest da parte dei carri armati russi. In casa nostra, naturalmente c’era la riunione del Gruppo del Gallo, la riunione del Gruppo di Adesso, poi venivano a cena Antonio Giolitti, Gillo Pontecorvo, Ferdinando Vegas e tanti altri, tutte persone con le quali c’era un gran discutere di queste cose, con grande passione. Mi ricordo quanto queste vicende mi appassionarono. Però mi sono reso conto solo adesso che nel ’56, quando mi ci appassionavo, avevo sette anni. La controprova del mio un po’ anomalo coinvolgimento infantile sul piano politico è che la mia maestra alle elementari mi chiamava «Il nostro reporter», perché io arrivavo in classe e parlavo, magari a vanvera, ma cercavo di informare gli altri che sembrava non si fossero accorti che stava scoppiando la guerra mondiale, che i russi erano lì con i carrarmati: loro neanche lo sapevano e io protestavo per il fatto che non se ne parlasse. Tutto ciò per dire che ho avuto un’educazione con un contenuto di impegno politico molto intenso, molto forte. Non nel senso di un impegno di partito: i miei genitori votavano sinistra-DC o partito socialista, ma non sono mai stati iscritti né all’una né all’altro.

La scuola di Barbiana

Poi è arrivato don Milani: nel ’59 lui è giunto in casa con i suoi primi sei allievi che abbiamo ospitato per una settimana. Venni tenuto a casa da scuola per quella settimana e feci la visita della Pirelli, della Siemens, della Scala, con quei sei ragazzi miei coetanei e il loro maestro che io invidiavo loro, don Milani; e ascoltai con grande attenzione ogni suo commento. È lì che mi sono innamorato di lui: don Milani con noi non era affatto urticante e aspro com’era con gli adulti; con noi era dolcissimo, tenerissimo. Poi mi invitò spesso a Barbiana, mi diceva sempre: «Vieni! Vieni!».Quando ero lì però faceva di tutto perché io non brillassi troppo, perché doveva coltivare il complesso di superiorità dei suoi ragazzi nei miei confronti: in questo io gli servivo come strumento. Fondamentalmente io ho un ricordo di lui come di persona piacevolissima, che mi piaceva sentir parlare, da cui non mi sentivo per niente giudicato, anche se quel momento drammatico del comandamento di restituire tutto potrebbe dare questa impressione. Mi sentivo giudicato, convinto, preso da questo suo precetto.

Padre Giuseppe Acchiappati

Però la mia guida spirituale non fu don Milani, bensì padre Acchiappati, che era un sacerdote straordinario. Ricordo i due cardini del suo catechismo: il primo era non nominare il nome di Dio invano: da qui, la sua allergia nei confronti della pretesa di sacralizzare cose di questo mondo, in primis la Democrazia Cristiana che lo metteva a disagio proprio per l’attributo di “cristiana” che lui considerava una violazione del secondo comandamento. Più in generale lui tendeva a dire: «Non cercate nel Vangelo la soluzione del problema. Nel Vangelo devi cercare un’altra cosa». Qui si trova il secondo cardine del suo catechismo, cioè la fede. Lui diceva: «Guarda che la fede non è credere in una verità che ti viene detta, fidarsi che è vera; la fede si basa su qualche cosa che tu devi avere sperimentato profondamente dentro di te». Lui mi leggeva dei brani del Vangelo e poi anche di altri testi. Del Vangelo soprattutto mi ricordo la sua lettura dell’episodio dei discepoli presso Emmaus, i quali ascoltando qualcuno che non sapevano neanche chi fosse sentivano ardere nel petto qualcosa. Non credevano più a niente, non sapevano, erano disorientati, però sentivano ardere qualche cosa nel petto. Lui diceva: «Tu questo ardere nel tuo petto lo senti o non lo senti?». «La consapevolezza che il darsi per gli altri è il senso della vita: se tu lo sperimenti, ti accorgi che la vita senza quello non ha un senso. Ti accorgi che è quello che ti mette in contatto con ciò che possiamo conoscere di Dio su questa terra. O tu lo percepisci, lo avverti, e allora ci credi, oppure non lo avverti, e allora ti manca la fede». Questo mi istillò: l’idea che sì, Dio è nell’aldilà, dobbiamo cercare di parlarne il meno possibile perché lo conosciamo pochissimo, non ne sappiamo quasi niente, ma Gesù Cristo è venuto su questa Terra proprio per farci vedere dov’è il senso della nostra vita: e lì sta la fede cristiana. Quindi è in gran parte una distruzione di idoli, è il rifiutare la sacralizzazione di cose di questo mondo, e coltivare quello che Gesù ha incarnato.

Quando io gli chiesi: «Ma tu dove mi proponi, dove mi dai indicazione di collocare il mio impegno politico?» – perché arrivato ai quindici-sedici anni, volevo cominciare a fare politica da adulto -, lui disse: «Guardati intorno, frequenta le ACLI, i giovani socialisti, la FGC, le associazioni scolastiche,  vedi, frequenta, e poi, dove troverai maggiore sintonia, lì impegnati. Però stai attento, perché ti proporranno di sacralizzare, ti proporranno di trasformare in religione, in Chiesa, quello che è il loro modo di intendere la politica. Tu sii sempre critico nei confronti di questa pretesa». Mi diede da leggere Uscita di sicurezza di Silone, che è proprio la vicenda di una persona che lascia la Chiesa Cattolica, entra nel PC, si trova preso in un’altra chiesa, e poi lascia anche quella.

Credo che il mio essere sempre stato un po’ un irregolare, dovunque io abbia militato da lì in poi, nasca da questo ammonimento di padre Acchiappati. Sono stato un irregolare nel Movimento Studentesco, da cui sono stato buttato fuori in modo piuttosto drastico a un certo punto:  ci fu proprio una mozione approvata in assemblea contro una mia idea che l’università dovesse essere collegata al tessuto produttivo, cosa che era vista come una  forma di subordinazione agli interessi del capitale. Sono stato un irregolare anche nel movimento operaio, nel movimento sindacale, nel PC: Non sono mai stato in  sintonia senza riserve con le organizzazioni in cui ho lavorato, militato. Però non ho neanche trovato ambienti ostili al mio presentarmi come cristiano, o perlomeno aspirante tale. Il PC di allora era molto aperto da questo punto di vista: a parte che poi il sociologo Arnaldo Nesti sosteneva che due terzi dei comunisti andassero a messa regolarmente. Non mi sono mai sentito emarginato per il mio esplicitare la mia fede cristiana, né nel PC né nella CGIL. È vero che il PC milanese non era quello torinese, non era quello pugliese; la CGIL milanese era quella di Lucio de Carlini, culturalmente molto aperta. Non ho avuto difficoltà, anzi per certi aspetti ho trovato persino dell’interesse, nei confronti del mio coltivare la ricerca del senso della vita, in un mondo che tendenzialmente era più propenso a occuparsi dell’hic et nunc piuttosto che del senso ultimo. Quindi quando in molti mi chiedono: «Ma come mai ti sei ritrovato lì? Che cosa è accaduto?», rispondo che ho avuto problemi grossi con queste organizzazioni ma non mi sono sentito a disagio, non mi sono sentito chiedere niente che io vivessi come una abiura, o mettere in ombra cose, che invece io consideravo come essenziali per dare un senso alla mia vita, e delle quali, pure, ho sempre parlato abbastanza apertamente.

 

LORENZA VIOLINI

Sembra che il dialogo si ravvivi con questo tuo intervento. Allora c’è questa spiritualità – si vede anche dal libro – però certamente il libro tratta più la famiglia, la politica, il lavoro – una vicenda personale dove la fede si vede ma appunto, come forse giustamente ricordava padre Acchiappati, dobbiamo cercare di capire se entra davvero nell’esistenza. Io ho fatto una storia un po’ strana, perché ho fatto due anni alla Statale e ho conosciuto quanto raccontava Elio Franzini, poi sono andata a Siena dove mi sono laureata. Lì ho conosciuto il PC, quello vero: l’ho visto abbastanza in faccia. Quindi si capisce che il cattolicesimo milanese a Milano era molto particolare, forse anche per le grandi figure che lo hanno connotato, soprattutto per la grande figura di Paolo VI. Sicuramente è stata una realtà che aveva delle sue caratteristiche, un DNA molto particolare, di cui – adesso più o meno siamo un po’ tutti di questa generazione – di cui tutti siamo stati in un modo diverso nutriti. Poi ciascuno ha fatto le sue scelte.

Mi ricordo quando discutevo col collega e amico Casuscelli e ci dicevamo: «Basta parlare sempre con quelli che ci danno ragione, cominciamo a parlare tra di noi che siamo su posizioni opposte»: questo ravviva, rinfocola, rende curiosi, intelligenti, fa crescere. Ecco, fa crescere: il cristianesimo milanese forse è davvero qualcosa che fa crescere e fa crescere tutti, non necessariamente quelli che vanno o non vanno in chiesa. Mi sembra quindi che venga fuori un quadro di Milano che è interessante, che è vivo, che è multiforme, ma anche unitario. Qui è bello poter capire che c’è un filo unitario. In fondo, quando si fa un centro culturale, in fondo si vuole fare un po’ questo: tenere insieme la varietà dell’esperienza umana, culturale, filosofica, religiosa per offrire un quid pluris, alla vita della gente.

 

PIERO ICHINO

Io vorrei aggiungere un’altra cosa che secondo me ha un peso, e aggiunge un dato sulla figura di don Milani, che è poco conosciuto. La mia nonna Paola, che anche lei ci faceva il suo catechismo, anche se era un catechismo molto sui generis, una tra le cose su cui batteva sempre era questa, che voi avete scelto di mettere come titolo di questo nostro incontro: “tu non puoi sapere se quello che ti accade è per il tuo bene o per il tuo male. Tu magari speravi che le cose andassero in un modo e invece sono andate in un altro; speravi di ottenere quella ammissione a quella scuola e invece non sei stato ammesso; speravi che ti andasse bene quel rapporto con quella persona e invece ne sei stato deluso. Non puoi sapere se quanto ti è accaduto è per il tuo male, o pensare che sia per il tuo male solo perché speravi che non accadesse: perché qualsiasi cosa ti accada, c’è dentro molto che tu non conosci. E qui veniva la seconda parte della sua predicazione: se quel qualcosa che ti è accaduto è per il tuo bene o per il tuo male, in fin dei conti dipende da te. Perché sei tu che devi scavare nella nuova situazione in cui ti trovi e guardare al bene che c’è dentro. Perché del bene lo troverai sempre”. Lei arrivava a dire “la fede è questo”, cioè la fede è vedere l’infinità di bene che c’è in qualsiasi aspetto della vita. Se poi tu ti sei fatto un progetto, ma gli eventi ti hanno impedito di andare dove volevi, questa infinità di bene la trovi da un’altra parte ma devi saperla trovare.

L’aula della Scuola di Barbiana

Ce la proponeva proprio come filosofia di vita e noi l’abbiamo vista incarnata in un modo molto impressionante nella vicenda di don Lorenzo, che abbiamo conosciuto subito dopo l’esilio a Barbiana. La prima volta che andammo lì era una cosa spaventosa: immaginatevi di fare un’ora di strada sterrata micidiale, poi una mezz’ora di mulattiera e arrivare in un posto dove non c’è niente. Non c’era la luce elettrica, non c’era il gas, non c’erano nemmeno i parrocchiani: era una Pieve in mezzo al bosco, senza un popolo. Lui è stato esiliato lì. Chiunque avrebbe potuto pensare che dicesse: «Speriamo che tutto questo duri il meno possibile, di scontare questa pena e tornare nel tempo più breve possibile nel mondo civile». Invece ci raccontò – già nel ’57, quando non era ancora successo nulla a Barbiana, o perlomeno stava solo cominciando ad accadere qualcosa – che lui due mesi dopo essere arrivato lì acquistò 4 metri quadri nel cimitero per farci la sua tomba dicendo: «Questa non è una parentesi della mia vita, qui è il senso della mia vita». Capite che dirlo prima che accadesse tutto quanto, non era facile. A noi sembrava un po’ una scelta da eremita: certo uno può avere la vocazione all’eremitaggio e quindi prendere una decisione del genere. Però non era questo! Lui ha scavato in quella situazione in cui si è trovato, che doveva essere una pena e invece ne ha fatto il proprio trionfo; ma se l’è costruito tutto lui. È stato lui a trovare il bene che c’era lì dentro. E per noi questa cosa era l’inverarsi del precetto della nonna: vederlo anno per anno nel suo avvenire concreto.

Dopodiché abbiamo visto anche lei negli ultimi anni della sua vita, fortemente menomata perché un incidente le aveva tolto l’uso di un braccio e aveva diversi mali  che la tormentavano, con cui doveva fare i conti, l’abbiamo vista – dicevo – vivere queste menomazioni cercando di vederne gli aspetti positivi e di trovare il bene in quella nuova situazione. Diceva appunto: «La fede è questo»: perché la fede è vedere il bene della vita in qualsiasi situazione, non sotto determinate condizioni. Anche la nonna, parallelamente a quel che diceva padre Acchiappati, affermava che: «Se sei cristiano, non è perché credi in questa o quella verità metafisica, ma perché questa cosa la sperimenti, la vivi: se non la vivi non ci credi, se ci credi è perché la vivi, perché la tocchi con mano». Capite che dal punto di vista del tentativo di essere cristiani, questa era una cosa molto impegnativa; però anche molto concreta.

Certo, la vita riserva anche eventi in cui è davvero difficile trovare l’aspetto positivo; però, anche vivendo ora un evento di questo genere, non ho motivo di cambiare idea. Sperimento che è così: non si può credere questa cosa se non si è sperimentata; magari anche con molta fatica. In questi mesi sto vivendo un’esperienza molto dura da questo punto di vista: mia moglie ha una malattia, una paralisi progressiva, che la limita in modo sempre più grave e mortificante. Però, anche se può apparire impossibile trovare del bene in una vicenda come questa, invece misteriosamente del bene c’è anche qui.  Si scopre che la vita ha delle sue complessità nascoste che vengono fuori se le si cercano. Scopriamo, per esempio, il piacere nuovo dell’abbracciarsi stretti perché le mie gambe devono diventare le sue: assume un significato nuovo, molto più serio di prima, l’essere una sola carne. Siamo costretti a rallentare, a prenderci molti più spazi per noi, a guardare il mondo con occhi molto diversi da prima. Non è il credere in una verità metafisica, ma il godere di un dono che è qui, oggi; percepire un senso della vita che la salva dall’essere travolta dal tempo; la colloca in una eternità che non è fuori del tempo, non è domani, non è dopo la morte per ancora un milione di anni: è qui, ora, in questo momento. Nel bene, e purtroppo anche nel male che facciamo e che viviamo.

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