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DOPO LA SENTENZA DELLA CASSAZIONE SUL JOBS ACT

Le sentenze anomale che reintegravano nel posto di lavoro ladri e rapinatori hanno costituito un motivo non secondario della riforma dei licenziamenti del 2012-2015; ma l’intendimento principale del legislatore è stato quello di allineare per questo aspetto l’ordinamento italiano a quello degli altri Paesi europei

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Messaggio pervenuto il 26 maggio 2019,  a seguito del mio commento alla sentenza della Corte di Cassazione n. 12174/2019,
La Cassazione e il Jobs Act [1], pubblicato sul sito lavoce.info il 24 maggio.
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Buongiorno prof. Ichino. In riferimento dell’articolo sulla sua ultima Newsletter dove parla di una “fronda giudiziale” contraria al Jobs Act, non ritiene che questo derivi da una riforma carente e deficitaria della parte che fa da contrappeso alla perdita del posto del lavoro, cioè un’efficiente servizio di politiche attive del lavoro con servizi di ricollocamento efficaci? I giudici, che vedono da vicino gli effetti di questa legge perché la applicano, si rendono conto dell’iniquità che ha creato.
[2]Perché Lei non scrive mai di questa “grande opera incompiuta” del Jobs Act, ovvero dell’assenza di servizi attivi di ricollocamento? Perché non scrive di come lo Stato lasci solo il lavoratore licenziato (dal governo Renzi in poi, perché nemmeno i successivi hanno cambiato le cose)?
Questa gravissima carenza del Jobs Act rende profondamente ingiusta questa legge che, di fatto, ha solo dato la possibilità indiscriminata ai datori di lavoro di licenziare anche senza un motivo ben preciso.
Di contro il lavoratore licenziato:
a) deve dimostrare il licenziamento ingiusto
b) solamente se riesce nel punto precedente e vince il ricorso in tribunale potrà avere la possibilità di avere (forse) un magro risarcimento, dopo diversi anni, che verrà speso totalmente in avvocati;
c) deve trovarsi, da solo, un nuovo posto di lavoro ed eventualmente riqualificarsi interamente a sue spese.
[3]Da qui il crollo dei ricorsi (al pari del crollo dei consensi del partito che ha emanato la legge!), non perché il Jobs Act ha funzionato, ma perché ha azzerato ogni possibilità di rivalsa del lavoratore.
Cordiali saluti,
Riccardo Bronzi

LA MIA RISPOSTA

Sul primo punto (il sostegno al lavoratore che perde il posto), richiamo innanzitutto un dato che viene quasi sempre taciuto da parte dei critici del Jobs Act: tra il 2012 e il 2015 il trattamento di disoccupazione è stato reso universale e portato dal 60% dell’ultima retribuzione, con durata massima di otto mesi, al 75% dell’ultima retribuzione, con una durata massima di 24 mesi: è vero che si tratta di un sostegno di natura soltanto economica, ma è un sostegno di entità rilevante, del tutto in linea con le misure omologhe operanti nei maggiori Paesi nostri partner europei.
Quanto, invece, alla mancata implementazione della parte della riforma relativa ai servizi di assistenza intensiva assicurati ai lavoratori nel mercato del lavoro, nel corso della passata legislatura ho presentato sul punto ben quattro interrogazioni e una interpellanza al ministro del Lavoro, formulate in termini di severità progressivamente crescente (cosa assai inconsueta da parte di un parlamentare appartenente alla maggioranza che sostiene il Governo):
– l’interrogazione presentata l’8 aprile 2014 al ministro del Lavoro [4] dai capigruppo di maggioranza della Commissione Lavoro per chiedergli conto della mancata emanazione entro il termine previsto dalla legge di stabilità del regolamento del Fondo per le politiche attive e per l’avvio della sperimentazione regionale del contratto di ricollocazione;
– l’interrogazione presentata il 25 giugno 2014 al ministro del Lavoro [5] dai capigruppo di maggioranza della Commissione Lavoro, che rinnova la richiesta oggetto dell’interrogazione dell’8 aprile;
– l’interrogazione al ministro del Lavoro e delle Politiche sociali [6]  presentata in Senato da tutti i capigruppo di maggioranza della Commissione Lavoro e altri senatori il 16 settembre 2015, sul perdurante ritardo nell’emanazione del regolamento del Fondo per le Politiche attive del Lavoro, necessario per il decollo della sperimentazione regionale del contratto di ricollocazione;
– la quarta interrogazione sul regolamento per il fondo politiche attive [7] presentata (sempre con la mia prima firma);

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L’ex-ministro del lavoro Giuliano Poletti

–  l’interpellanza presentata il 3 novembre 2015 [9], seguita da una risposta inadeguata del Governo e dalla mia replica fortemente critica, senza peli sulla lingua (il tutto tratto dai verbali dell’attività del Senato): Centri per l’impiego: una risposta del ministro insoddisfacente [10].

Ho inoltre denunciato il difetto di implementazione di questa parte della riforma in vari luoghi e a più riprese. Per citare solo alcune di queste mie prese di posizione,  tra i molti altri miei scritti in argomento degli ultimi anni segnalo in particolare l’ultimo:
Ricollocazione: l’ANPAL mostri di essere cosa diversa dalla burocrazia ministeriale [11], editoriale telegrafico per la Nwsl n. 425, 20 febbraio 2017; in precedenza:
– Perché il ministero ostacola la sperimentazione delle politiche attive? [12], editoriale telegrafico per la Nwsl n. 324, 15 dicembre 2014;
L’intervista al quotidiano Libero del 19 settembre 2014 [13], a cura di Alessandro Giorgiutti;
Lavoro: per prima cosa stanare i gattopardi [14], editoriale telegrafico dell’8 settembre 2014, sul blocco della sperimentazione regionale del contratto di ricollocazione causato dal ritardo grave e del tutto ingiustificato dell’emanazione del regolamento ministeriale previsto dall’articolo 1 , comma 215, della legge di stabilità 2014.

Detto tutto questo a difesa del mio personale operato, penso comunque che non possa essere la mancata implementazione della parte della riforma relativa ai servizi per l’impiego una giustificazione per sentenze come quelle che ho citato nel mio articolo della settimana scorsa [1] a cui R.B. si riferisce, che hanno reintegrato nel posto di lavoro il commesso ladro abituale, o il pompiere rapinatore, oppure il dirigente di agenzia bancaria che inviava i dipendenti a fare le commissioni nel proprio interesse in orario di lavoro. In casi come questi (dei quali sono pieni i repertori di giurisprudenza), che rilievo può avere la mancata implementazione dell’assegno di ricollocazione? 

Osservo, infine, che la ricostruzione della nuova disciplina dei licenziamenti contenuta nel d.lgs. n. 23/2015, proposta nella lettera di R.B. è inesatta: a) la nuova disciplina dettata dalle leggi del 2012 e del 2015 non incide neppure marginalmente sulla disciplina sostanziale della giustificazione del licenziamento, né sul relativo onere della prova, bensì soltanto sulla sanzione applicabile nel caso in cui il giudice – sulla base della vecchia disciplina, rimasta inalterata – ravvisi un difetto di giustificazione; l’onere della prova circa la sussistenza del giustificato motivo grava sempre esclusivamente sul datore di lavoro; b) l’indennizzo previsto dal d.lgs. n. 23/2015 per il caso di licenziamento ritenuto ingiustificato dal giudice si collocava ai livelli massimi nel panorama europeo [15]; dopo gli interventi del legislatore e della Corte costituzionale del 2018 l’indennizzo torna a collocarsi di gran lunga al di sopra rispetto a tutti quelli degli altri Paesi europei. Sul punto c), come ho detto sopra, R.B. ha ragione: siamo ancora poco più che all’anno zero.     (p.i.)

REPLICA E CONTROREPLICA

Egregio professor Ichino, grazie della risposta. E’ chiaro che le mie obiezioni non si riferiscono a  casi come quelli da Lei citati [1] che, seppur reali, sfociano nel grottesco, ma a casi dove invece il lavoratore ha ragione (e ne esistono decisamente di più!). In questi casi l’onere della prova dell’ingiusto licenziamento è a carico del lavoratore; quindi il lavoratore – licenziato – deve affrontare ed anticipare interamente le spese legali, perché l’indennizzo non è automatico ma scaturisce esclusivamente da una sentenza a favore. E’ naturale quindi che il lavoratore spesso rinunci a far valere le proprie ragioni di fronte ad un esito incerto che, nel migliore dei casi, ripaga le spese legali. E’ comprensibile che nei casi di palese e ingiustificato licenziamento ci siano giudici che cerchino, in qualche modo, di limitare le ingiustizie che questa legge ha creato, sapendo che il destino di tale lavoratore è quello della ricerca di un nuovo impiego in perfetta solitudine, perché il servizio pubblico non è stato strutturato per ricollocarlo. […]
Riccardo Bronzi

Ribadisco che le cose non stanno così: l’onere della prova circa la sussistenza del giustificato motivo o giusta causa del licenziamento grava sempre sul datore di lavoro. E proprio la difficoltà di assolvere questo onere, soprattutto quando il motivo del licenziamento è di natura economica od organizzativa, spinge quasi sempre il datore di lavoro a offrire subito al lavoratore l’indennizzo previsto dalla legge, che in questo caso gode anche di una robusta agevolazione fiscale. Questo è il motivo della forte riduzioe del contenzioso giudiziale registratasi fra il 2012 e il 2018. L’onere della prova è ripartito tra prestatore e datore di lavoro soltanto quando il primo sostiene che il vero motivo del licenziamento sia la discriminazione o la rappresaglia; ma la stessa regola valeva anche prima del 2012.     (p.i.)

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