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GINO GIUGNI E IL “COLLOCAMENTO IMPOSSIBILE”

Storia di un progetto della Cgil milanese per un migliore funzionamento dell’incontro fra domanda e offerta di lavoro, di un tribunale che considerava la selezione attitudinale come un reato e di un grande giuslavorista che, pur avendo tenuto a battesimo lo Statuto dei Lavoratori, a dieci anni di distanza ne vedeva lucidamente i limiti

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Estratto dagli
atti del convegno su Strumenti per il controllo sindacale sul mercato del lavoro, promosso dalla Camera del Lavoro di Milano il 23 e 24 febbraio 1979 – Segue una mia breve presentazione del contesto nel quale il convegno si svolse e del contenuto dell’estratto, che si articola nella mia relazione introduttiva, negli interventi del professor Gino Giugni e del giudice penale del Lavoro Michele Di Lecce, nelle conclusioni del segretario generale della Camera del Lavoro Lucio De Carlini, e nella scheda contenente il protocollo del progetto di “rito ambrosiano” del collocamento cui il convegno era dedicato – Sulla figura del giuslavorista Gino Giugni v. la sua Intervista [1] pubblicata nel 1993 sulla Rivista italiana di diritto del lavoro, la mia commemorazione sul Corriere della Sera del 6 ottobre 2009, il giorno dopo la sua morte, La lezione di Gino Giugni [1], e nella stessa circostanza in Senato, Gino Giugni: un intellettuale scomodo per tutti [2]; inoltre l’articolo di Franco Debenedetti sul Sole 24 Ore del 7 ottobre 2009, L’eredità di Giugni: dallo Statuto dei Lavoratori al Codice del Lavoro [3]
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[4]Scarica l’estratto degli atti del Convegno, in formato PDF [4]

 

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UNA BREVE PRESENTAZIONE

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La sede della Camera del Lavoro di Milano, in Corso di Porta Vittoria

Nel corso di un riordino di vecchie carte ho ritrovato gli atti di un convegno promosso dalla Camera del Lavoro di Milano quaranta anni fa, il 23 e 24 febbraio 1979, che mi sembra presentino alcuni aspetti di notevole interesse.

Per mettere a fuoco il contesto ricordo che quel convegno costituiva il punto d’arrivo di almeno due anni di un intenso dibattito interno alla Cgil milanese sulla questione del collocamento, innescato da una mia denuncia del gravissimo malfunzionamento di questa funzione pubblica. La regola generale, posta dalla legge n. 264/1949 e rafforzata dagli articoli 33 e 34 dello Statuto dei lavoratori, vietava alle imprese la scelta degli operai e degli impiegati d’ordine da assumere – salvo il caso di “passaggio diretto” da azienda a azienda –, imponendo loro di presentare alle sezioni circoscrizionali del collocamento la “richiesta numerica”, cui doveva seguire la selezione da parte dell’ufficio e l’avvio al lavoro secondo l’ordine di una graduatoria fondata sull’anzianità di iscrizione e sui carichi di famiglia dei disoccupati interessati. Senonché, se si escludono le assunzioni massive degli operai per le catene di montaggio delle grandi imprese metalmeccaniche, quel meccanismo non funzionava: quasi mai un’impresa era disposta ad assumere una persona senza neppure un previo colloquio. Tanto più che i disoccupati con i punteggi più alti nelle graduatorie del collocamento erano, in genere, i meno appetibili sul piano professionale: costituivano quello che veniva chiamato “il tappo” della graduatoria. Le imprese e i loro consulenti cercavano e trovavano, dunque, tutti i possibili sotterfugi per eludere quel meccanismo infernale, per lo più con pagamento di bustarella al collocatore compiacente.

Il “rito ambrosiano” – Per risolvere questo problema, in attesa di una riforma legislativa di cui si era incominciato a parlare diffusamente ma che non appariva prossima (era stata appena presentata in Parlamento, a seguito di diverse proposte di riforma legislativa della materia, la proposta governativa di un “esperimento-pilota” dai contenuti piuttosto vaghi), a Milano avevamo provato ad applicare una sorta di “rito ambrosiano”: quello, cioè, che consiste nel non aspettare l’autorizzazione da Roma e impegnarsi direttamente a far funzionare le cose bene, applicando il buon senso e rimboccandosi le maniche. Avevamo dunque messo a punto una procedura, che avrebbe dovuto essere decisa, controllata e vigilata dalla Commissione circoscrizionale di collocamento (composta da rappresentanti delle confederazioni sindacali maggiori e delle associazioni imprenditoriali), tutta centrata sulla cura della selezione attitudinale delle persone da avviare, in relazione alle legittime esigenze evidenziate dalle imprese. Un progetto forse ingenuo, visto a quasi mezzo secolo di distanza; ma che testimoniava un impegno straordinario della Cgil milanese per migliorare il funzionamento di questo comparto dell’amministrazione pubblica, nell’interesse congiunto dei lavoratori e delle imprese. Altrettanto inconsueto era, a quel tempo, che su di un progetto riguardante il funzionamento del mercato del lavoro si registrasse una sostanziale convergenza e disponibilità non solo da parte di Cisl e Uil, ma anche da parte di Assolombarda e Unione del Commercio.

Una Cgil “migliorista” – Il progetto, alla cui messa a punto avevo dato un contributo di primo piano nella mia veste di responsabile del coordinamento dei servizi legali della Camera del Lavoro, e che aveva avuto l’onore della pubblicazione sulla Rivista giuridica del lavoro, organo della Cgil nazionale (1979, IV, pp. 73-85), prevedeva innanzitutto la rivitalizzazione della Commissione presso la Sezione circoscrizionale di collocamento, che fino ad allora o non era stata costituita o era rimasta del tutto inattiva. La Commissione stessa avrebbe dovuto quindi governare l’incontro fra domande e offerte di lavoro in modo intelligente, tenendo conto con grande attenzione dei requisiti professionali indicati dalle aziende e – ciò che a molti appariva scandaloso – consentendo un colloquio tra l’impresa e la persona candidata all’avviamento al lavoro, prima dell’avviamento stesso, con possibilità per entrambe le parti di esprimere una propria valutazione circa la bontà dell’abbinamento. Insomma, un progetto forse un po’ utopistico, ma certamente mosso dall’intendimento di sburocratizzare il meccanismo dell’avviamento al lavoro e, soprattutto, dargli una qualche possibilità di funzionare. E poi utopistico neanche tanto, se è vero che, vincendo le immaginabili resistenze dell’apparato pubblico, il nuovo “rito ambrosiano” incominciò a essere effettivamente sperimentata presso la Sezione milanese del collocamento di via Duccio di Boninsegna, non senza qualche risultato apprezzabile. Di quell’esperienza resta traccia nel “protocollo” concordato da Cgil Cisl e Uil in funzione di essa e nei questionari che vennero utilizzati per il rilevamento delle esigenze delle aziende e delle capacità e aspirazioni delle persone interessate all’avviamento (contenuti nell’ultima parte dell’estratto degli atti del convegno, qui disponibile online).

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Lucio De Carlini, segretario generale della Camera del Lavoro di Milano negli anni ’70

Il reato di selezione attitudinale – Su questo progetto, però, le tensioni erano forti. Innanzitutto in seno alla stessa Cgil: non solo dagli uffici romani di Corso d’Italia erano in molti a guardare ad esso con grande diffidenza, a cominciare dal responsabile dell’Ufficio Legale Marco Vais, ma su di esso vi erano stati dei commenti polemici anche da parte della Cgil torinese e di alcuni dirigenti sindacali della stessa struttura milanese. Per di più, proprio presso la Pretura penale di Milano era stata costituita da qualche anno una sezione specializzata per i reati in materia di lavoro, all’avanguardia nella prevenzione e repressione dei reati in materia di igiene e sicurezza nelle aziende, ma anche molto severa nella punizione degli illeciti che riusciva a scovare nel funzionamento del mercato del lavoro: un magistrato appartenente a quella sezione specializzata, Luigi Stortoni, era intervenuto sulla Rivista giuridica del lavoro (Prime osservazioni sulla proposta della Camera del lavoro di Milano  sin tema di collocamento (profili penalistici), 1979, IV, pp. 87-89) sostenendo l’incompatibilità del progetto con la legge vigente, con una argomentazione sconcertante: “la legge che regola la materia e lo stesso Statuto (art. 33) si ispirano al più totale automatismo non nominativo… L’art. 15 della legge del 1949 vincola la decisione dell’avviamento al lavoro a criteri ‘di bisogno’ espressamente e tassativamente indicati dalla norma stessa. […] L’avviamento è quindi… automatico, e tra i criteri indicati per la formazione delle graduatorie nessuno richiama o lascia spazio per valutazioni inerenti al miglior abbinamento azienda-lavoratore”; donde, secondo il magistrato, “l’illegittimità del provvedimento di avviamento al lavoro per eccesso di potere rispetto ai parametri di cui all’art. 15 della legge” quando l’avviamento stesso fosse avvenuto in base a selezione attitudinale dei lavoratori iscritti nella lista di collocamento, con configurabilità del reato di abuso innominato di ufficio (mi proposi allora di confutare questa tesi sconcertante sulla stessa Rivista con il mio scritto Sulla selezione attitudinale nel collocamento pubblico [7] (1979, IV, pp. 343-358).

Fatto sta che Lucio De Carlini, segretario generale della Cgil milanese, e Carletto Gerli, membro anch’egli della segreteria provinciale con competenza specifica per questa materia, decisero di organizzare un convegno con lo scopo di far passare la linea della gestione intelligente del collocamento pubblico secondo il nuovo “rito ambrosiano” che avevamo inventato.

La tecnica del sandwich – Secondo una tecnica tipica del funzionamento della Cgil a quell’epoca (ma forse non del tutto tramontata) la relazione introduttiva più controversa sul piano politico-sindacale, ovvero quella nella quale si esponevano le ragioni e i contenuti del progetto operativo, affidata a me (è riportata nella prima parte dell’estratto degli atti del convegno, qui disponibile online), venne collocata a mo’ di sandwich tra una noiosissima relazione sulle tendenze del mercato del lavoro lombardo, affidata al capo dell’Ufficio Studi camerale, e una non molto più stimolante sui problemi della formazione, affidata al capo dell’ECAP, Ente confederale per l’addestramento professionale. Poi era prevista una tavola rotonda, alla quale dovevano partecipare, insieme a un segretario nazionale della Cgil e un parlamentare, soprattutto un autorevole giuslavorista in sintonia con l’iniziativa e un magistrato della Sezione Penale del Lavoro della Pretura dal quale ci si potesse attendere qualche apertura significativa. A me venne affidato il compito di individuare e invitare questi due.

In quel periodo, il professore di diritto del lavoro più autorevole, appartenente all’ala sinistra dell’Accademia ma ciononostante disponibile a dare una benedizione alla nostra iniziativa, era Gino Giugni. Lo avevo conosciuto personalmente cinque anni prima nel modo rocambolesco che ho raccontato altrove [8], e forse proprio quell’episodio aveva generato in lui una qualche simpatia nei miei confronti. Fatto sta che, essendo io andato apposta a Roma per spiegargli le ragioni e i contenuti dell’iniziativa, lui accettò di parteciparvi. Quanto al magistrato, la prima scelta non poteva non cadere su Michele Di Lecce, presidente della Sezione Penale, col quale ero in rapporto di buona amicizia.

I due interventi di Michele Di Lecce e i due di Gino Giugni nella tavola rotonda, registrati e trascritti, costituiscono la seconda parte dell’estratto degli atti del convegno qui disponibile online.

Il divieto del colloquio preventivo tra impresa e lavoratore – Gli interventi del magistrato si segnalano innanzitutto per la difesa del monopolio pubblico del servizio di collocamento, per un generico apprezzamento del progetto della Camera del Lavoro, dettato più da cortesia nei confronti dei padroni di casa che da una piena condivisione dei suoi obiettivi, e per la drastica negazione della legittimità di quel progetto, nella parte in cui esso prevedeva – nientemeno – la possibilità di un colloquio tra l’impresa e il lavoratore prima dell’avviamento: “Non vedrei […] compatibile con la normativa oggi vigente un altro caratterizzante momento della proposta, quello della introduzione di un colloquio tra il lavoratore e il datore di lavoro prima dell’assunzione” (p. 106). Oggi l’idea che a un’impresa possa imporsi l’assunzione di una persona alla cieca, senza neppure un colloquio preliminare, apparirebbe folle; ma la norma che ha regolato la materia fino al 1991 era interpretata dai giudici nel senso che questo colloquio fosse drasticamente vietato. Forse ancora più impressionante, però, è la recisione con la quale il magistrato, a conclusione del proprio secondo intervento, si spinge a escludere la legittimità costituzionale di una riforma che affidi l’incontro tra domanda e offerta di lavoro a una pattuizione tra le persone interessate (pp. 124-125)!

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Gino Giugni

Dare voce agli interessi concreti dei soggetti interessati – Proprio l’intreccio con gli interventi severamente conservatori del magistrato sottolinea la grande apertura, invece, dei due interventi di Gino Giugni (pp. 11-117 e 129-133), che in quella fase iniziale del dibattito sulla riforma del sistema dei servizi per l’impiego costituiscono forse le espressioni più ampie del suo pensiero su questa materia. In polemica cortese ma esplicita con Michele Di Lecce, l’ex-capo dell’ufficio legislativo del ministro Brodolini spiega quanto sia insensato pensare che sia possibile far funzionare un servizio per l’incontro fra domanda e offerta di lavoro senza dare voce agli interessi concreti dei soggetti interessati su entrambi i lati e senza proporsi di soddisfarli in modo puntuale. Sottolinea che il carattere pubblico della funzione implica soltanto che essa debba essere svolta in modo trasparente e imparziale, ma non che essa possa essere svolta soltanto da un organo burocratico dell’amministrazione statale. E si interroga sul “mistero” del totale disimpegno – una vera e propria fuga – del sindacato confederale su questo terreno.

Su quest’ultimo punto, poco tempo dopo ebbi con lui uno scambio di idee molto interessante, dal quale nacque il mio tentativo di dare una risposta a quell’interrogativo in apertura del libro Il collocamento impossibile [10] (1982). Sull’argomento saremmo poi tornati a parlare dieci anni dopo, nell’Intervista [7] destinata a uscire sulla Rivista italiana di diritto del lavoro (1992, I, pp. 411-456).

P.S. – L’iniziativa dalla quale nasce il convegno del 23 e 24 febbraio 1979 della Camera del Lavoro di Milano era destinata a incidere profondamente sulla parte successiva della mia vita: fu infatti soprattutto il mio impegno intenso su quel terreno che indusse i segretari della Cgil milanese Lucio De Carlini e Carletto Gerli a propormi al Pci per l’elezione alla Camera dei Deputati nella primavera successiva. Vicenda, quest’ultima, che ho raccontato compiutamente ne La casa nella pineta [11] (2018). Sta di fatto, però, che con la mia elezione a deputato e il conseguente abbandono da parte mia del Coordinamento dei Servizi Legali della Camera del Lavoro milanese, anche il progetto di “collocamento secondo un rito ambrosiano” finì coll’essere abbandonato.

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