LA GIUSTIZIA E L’EFFICIENZA NELLE TUTELE CONTRO I LICENZIAMENTI ILLEGITTIMI

Una analisi dell’apparato sanzionatorio contro il recesso ingiustificato, dopo la riforma del 2012-2015, alla luce dello schema concettuale elaborato oltre quarant’anni fa da Calabresi e Melamed, centrato sulla distinzione tra property rules e liability rules – La scommessa del legislatore sulla cooperazione tra le parti

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Rielaborazione aggiornata della relazione tenuta da Giovanni Armone il 24 maggio 2016 a Roma, nell’ambito del convegno organizzato dall’Ordine degli avvocati di Roma sul tema
Il Licenziamento: profili processuali dalla Riforma Fornero alle tutele crescenti – Giovanni Armone oggi è giudice addetto all’Ufficio Massimario della Corte di Cassazione; quando svolse questa relazione era giudice del Lavoro presso il Tribunale di Roma – In argomento v. anche Il dibattito tra i giuslavoristi sulla job property, articolo col quale il 10 giugno 2019 ho risposto a un commento al mio articolo precedentemente pubblicato sul sito lavoce.info, La Cassazione e il Jobs Act.
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L’obiettivo del presente intervento è quello di analizzare il sistema delle tutele a disposizione del lavoratore illegittimamente licenziato alla luce di uno schema concettuale elaborato, oltre quarant’anni fa, da Calabresi e Melamed in uno studio su proprietà e responsabilità civile: Property rules, Liability rules, Inalienability, one view of the Cathedral [1]. Tale tassonomia, che ha avuto molta fortuna anche di qua dall’oceano, è stata riproposta da autorevoli studiosi del diritto del lavoro nel 2012 [2], allorché il modello della tutela reale, consegnatoci dallo Statuto dei lavoratori e attuato per oltre quarant’anni, è stato messo in discussione e parzialmente abbandonato.

Oggi che, con il d. lgs. 23/2015 e il contratto a tutele crescenti, la tutela reintegratoria ha perso ulteriore terreno, mi è sembrato interessante compiere una verifica più approfondita delle conseguenze che l’utilizzo di una simile terminologia e di simili concetti può avere sulla tenuta complessiva del nuovo sistema di tutele.

1. – Lo schema di Calabresi e Melamed può essere così brutalmente sintetizzato.

Nella valutazione della consistenza e della stessa esistenza di un diritto soggettivo non può prescindersi dall’esame dei rimedi che l’ordinamento giuridico predispone a sua difesa. In una ideale scala gerarchica di crescente efficacia di tali rimedi, possiamo avere le seguenti tre ipotesi:

  • quando l’ordinamento appresta a tutela di una certa situazione giuridica soggettiva (entitlement) un rimedio di tipo economico e così consente a chiunque di violarla anche senza il consenso del suo titolare, salvo versargli una somma di denaro, tale situazione sarà protetta da una (fragile) regola di responsabilità (liability rule);
  • quando il rimedio è tale da impedire la violazione dell’entitlement, se non con il consenso del suo titolare, il diritto sarà protetto da una più forte regola di responsabilità (property rule);
  • qualora infine il rimedio giunga a proteggere il titolare anche dal suo stesso consenso, che sarà per definizione illecito, saremo nel campo di quelli che siamo abituati a definire i diritti indisponibili, protetti da una regola di inalienabilità (inalienability rule).

Questo schema conosce molte sfumature applicative, in dipendenza di molteplici fattori: i presupposti applicativi delle singole regole, la prevedibilità della lesione, l’entità dell’indennizzo economico, l’effettività del sistema giudiziario di protezione. Ne sono state inoltre fornite versioni più aggiornate e sofisticate. Per il momento a noi interessa nella sua versione di base, per sottolineare come la vicenda della tutela del posto di lavoro nel nostro ordinamento costituisca un esempio limpido di come, in uno stesso ordinamento, la consistenza di una certa situazione giuridica soggettiva possa essere diversa, anche radicalmente, in ragione dei rimedi posti a suo presidio.

Una diversità diacronica e sincronica. Dal punto di vista diacronico, si è infatti passati dal sistema di libera recedibilità del codice civile, nel quale peraltro il lavoratore licenziato riceveva l’indennità di anzianità ex art. 2120 c.c. vecchio testo, al sistema di tutela economica contro i licenziamenti ingiustificati della l. 604/1966, per poi passare alla tutela reale dello Statuto, per concludere infine con lo spezzettamento attuale, prima della l. 92/2012, oggi del d. lgs. 23/2015. Nessuno di questi assetti era puro. Anche nella lunga vigenza dello Statuto, infatti, è noto come vi fossero alcune categorie di lavoratori cui si applicava una regola di responsabilità e altri sottoposti al regime della libera recedibilità (si pensi al lavoro domestico). Lo spezzettamento attuale non è dunque un inedito assoluto.

Neppure si tratta di una condizione sconosciuta ad altri diritti soggettivi, anche tra i più solidi, che sono contemporaneamente protetti da regole di proprietà e regole di responsabilità: si pensi al diritto di proprietà, per il quale sono previste in astratto regole di proprietà (la rivendica ex art. 948 c.c. e la tutela inibitoria ex art. 949 c.c.), in concreto non sempre facili da attivare a proposito di determinati beni e/o determinati eventi lesivi. Qualcuno potrebbe seriamente pensare che il diritto di proprietà sulle automobili sia protetto, nella circolazione stradale, da una regola di proprietà?

La prima conclusione che se ne può trarre è che il concetto di diritto soggettivo è ormai sostanzialmente inutilizzabile come categoria unitaria.

2. – Ma fin qui la riflessione avrebbe un carattere poco più che descrittivo. Chi invoca la difesa dei diritti dei lavoratori non rimpiange certo la morte di una categoria, ma l’abbassamento delle tutele. Secondo questa prospettiva, dire che si è passati da una regola di proprietà a una regola di responsabilità, perdipiù inadeguata, equivale a un beffardo eufemismo, che non sposta i termini del problema.

Sennonché, la riflessione di Calabresi e Melamed ha uno scopo ben preciso, che è quello di saggiare i criteri in base ai quali un ordinamento procede alla distribuzione degli entitlements e dei rimedi. Proteggere una determinata situazione giuridica soggettiva con una regola di proprietà o con una regola di responsabilità non è necessariamente e solo questione di preferenza ideologica, ma di efficienza. Un’efficienza paretiana, naturalmente, in cui le ragioni di entrambe le parti del potenziale conflitto sono tenute in considerazione, al fine del raggiungimento dell’ottimo, ma pur sempre di efficienza. Si chiedono infatti i due autori nelle prime pagine del loro saggio: “Why cannot a society simply decide on the basis of the already mentioned criteria who should receive any given entitlement, and then let its transfer occur only through a voluntary negotiation? Why, in other words, cannot society limit itself to the property rule? To do this it would need only to protect and enforce the initial entitlements from all attacks, perhaps through criminal sanctions, and to enforce voluntary contracts for their transfer. Why do we need liability rules at all?”.

La risposta dei due autori statunitensi, in linea con la prospettiva dell’analisi economica del diritto, è che gli ordinamenti giuridici non si accontentano di regole di proprietà, perché vi sono ipotesi in cui tali forme di protezione degli entitlements sono troppo costose in termini di costi transattivi: “la property rule è da preferire quando questi sono bassi, ad esempio quando le parti coinvolte nella transazione sono poche, facilmente identificabili e disponibili a trattare. In presenza di monopolio bilaterale, comportamenti strategici e/o asimmetrie informative tra le parti (e di altri tipi di costi transattivi), è invece preferibile l’applicazione di una liability rule” [3].

Tornando all’esempio della circolazione stradale, i costi transattivi in tale ambito sono altissimi. Se considerassimo infatti decisivo il consenso dei proprietari delle automobili e proteggessimo ciascuno di essi con una regola di proprietà, ciascuno di essi, prima di uscire in macchina, dovrebbe contattare ciascuno degli altri per sapere se, a quell’ora, ha intenzione di uscire e fare un certo percorso. Una sorta di pool-sharing al contrario, assurdo e paralizzante.

A proposito del posto di lavoro, la ricostruzione del diritto su di esso in termini di diritto sociale, che è stata alla base della tutela reintegratoria e dell’art. 18, ha impedito di scrutinare se, anche in tale contesto, vi siano costi transattivi e di che tipo. Oggi che questa regola è cambiata, possiamo più liberamente valutare se la relazione tra datore di lavoro e lavoratore abbia costi transattivi e di che tipo.

Il fulcro della teoria di Calabresi e Melamed è il consenso del titolare del diritto: insufficiente, nelle regole di inalienabilità, necessario, nelle regole di proprietà, irrilevante, nelle regole di responsabilità. Non vi è dubbio allora che il passaggio da una regola di proprietà a una regola di responsabilità significhi mortificare la volontà del titolare dell’entitlement, che ne può essere espropriato anche senza il suo consenso, dietro pagamento di una somma di denaro. A proposito del rapporto di lavoro, con una regola di responsabilità il vero diritto soggettivo lo possiede il datore di lavoro, che può disporre del posto di lavoro ed espropriarne il lavoratore. Se però allarghiamo lo sguardo e riflettiamo sul fatto che, nell’applicazione del criterio di efficienza e nella considerazione dei costi transattivi, vanno tenute in considerazione tutte le scelte che le parti sono indotte a compiere in presenza dell’una o dell’altra regola, e dunque la volontà anche di chi si contrappone al titolare dell’entitlement, la prospettiva in parte muta.

Non dimentichiamo che la riflessione di Calabresi e Melamed è incentrata su quel fondamentale entitlement che va sotto il nome di proprietà e sui rapporti tra proprietà e responsabilità civile, nei quali il potenziale danneggiante, cioè colui che, in presenza di una regola di responsabilità, è autorizzato a espropriare il proprietario del bene dietro pagamento di un risarcimento economico, non svolge solitamente alcun ruolo al momento in cui quella situazione giuridica viene attribuita. Nel caso del posto di lavoro, siamo in presenza di un diritto alla cui attribuzione il potenziale danneggiante ha contribuito. Il lavoratore acquista il posto di lavoro a titolo derivativo dallo stesso soggetto che ha anche il potere di sottrarglielo. Non per caso si parla di datore di lavoro, per sottolineare come l’imprenditore non trovi nel diritto del lavoratore un limite che precede l’instaurazione del rapporto.

3. – Si tratta di un fenomeno che produce due effetti sui quali bisogna porre attenzione.

3.1.  – Il primo è che la tutela apprestata dall’ordinamento si dirige solo contro i licenziamenti lato sensu illegittimi. Ne consegue che, mentre è relativamente facile costruire una property rule intorno ad es. al diritto di proprietà fondiaria, dove ogni invasione del diritto è illegittima di per sé, anche in assenza di colpa o dolo, molto meno lo è con il diritto al lavoro, dove il divieto di perpetuità dei vincoli obbligatori, di napoleonica memoria, continua a spiegare almeno in parte i suoi effetti. Se ne ricorrono le condizioni stabilite dalla legge, il datore di lavoro può recedere senza pagare nulla, e poteva farlo anche nella vigenza dello Statuto.

3.2. – Il secondo effetto è che anche il consenso, o meglio la volontà, del datore di lavoro acquista il suo peso. Se infatti la tutela obbligatoria mortifica la volontà del lavoratore, è anche vero che la tutela reale mortifica la volontà del datore di lavoro, in quanto gli impedisce, all’atto della costituzione del rapporto, di dettare le sue condizioni.

Non solo: la teoria dell’informazione applicata ai contratti ha dimostrato che sono molto frequenti le ipotesi in cui una delle parti del contratto si comporta in modo opportunistico dopo la conclusione del contratto (cd azzardo morale) e che il terreno per questi comportamenti opportunistici è tanto più fertile quanto più bassi sono i livelli di osservabilità e verificabilità dei comportamenti. Se il lavoratore lavora poco e gli strumenti giudiziari sono insufficienti a riscontrare tale scarso rendimento, l’azzardo morale sarà altissimo e ovviamente il datore di lavoro ne pagherà costi elevati.

Siamo di fronte dunque a un classico esempio di monopolio bilaterale, in cui un monopolista e un monopsonista si fronteggiano e in cui ognuno dei due sa di poter influire sull’altro e di dover a sua volte subire l’influsso della decisione della controparte. E in una relazione così caratterizzata l’opportunismo di uno dei membri scatenerà l’opportunismo dell’altro. Quale sarà la prevedibile reazione del datore di lavoro a fronte dell’introduzione di una regola di proprietà, cioè di una regola che aumenta notevolmente i costi transattivi a suo carico, anche in considerazione della scarsa prevedibilità delle decisioni giudiziali? Quella di ridurli altrove, secondo un meccanismo che gli economisti chiamano di “selezione avversa”, e dunque intervenendo dove la sua volontà può farsi sentire, in modo più o meno elusivo: non assumendo e/o tenendo basse le retribuzioni: “il rischio di subire dei costi connessi all’opportunismo della controparte può indurre le parti a non entrare affatto in relazione” [4].

Il rischio di opportunismo è talmente alto che si assiste alla scomparsa o alla riduzione del mercato. Quindi, nelle ipotesi in cui la titolarità dell’entitlement è concessa da colui che lo può violare, ogni rafforzamento della protezione a valle di quell’entitlement determina un rischio di suo indebolimento a monte.

4. – Le strade che in astratto un ordinamento può percorrere sono dunque molteplici:

a) comprimere del tutto la volontà dell’imprenditore e prevedere massima rigidità in uscita (property rule) e massimo controllo sull’accesso al posto di lavoro (tendenzialmente un generalizzato obbligo di assunzione); questa strada, che pure è stata parzialmente perseguita in Italia al momento dell’allargamento delle assunzioni obbligatorie dei disabili, è difficilmente compatibile, almeno nel lungo periodo e a 360°, con l’economia di mercato.

b) comprimere la volontà dell’imprenditore al momento del recesso (property rule) ma non al momento dell’accesso al posto di lavoro; è la strada seguita dal 1970 in poi, con il rischio di retroazione che abbiamo visto.

c) garantire all’imprenditore massima libertà sia in entrata che in uscita (liability rule);

d) lasciare libero l’accesso al posto di lavoro e prevedere una tutela differenziata contro i licenziamenti, che tenga conto dei comportamenti strategici dell’imprenditore non fondati su ragioni economiche o fondati su ragioni economiche troppo avide (mix di tutela reale e obbligatoria).

L’assetto delle tutele all’indomani della legge Fornero e del d. lgs. 23/2015 è quello sub d). In fondo lo è sempre stato, se ricordiamo che anche nella vigenza dell’originario art. 18 vi erano lavoratori esclusi dalla tutela reale o addirittura lasciati nell’area della libera recedibilità, ma oggi la frastagliatura è più netta e variegata.

La scommessa è dunque quella di incentivare la cooperazione tra imprenditore e lavoratore, sul presupposto che una regola di responsabilità più ampia che in passato scoraggerà il lavoratore da comportamenti opportunistici di azzardo morale e al tempo stesso incoraggerà l’imprenditore ad assumere maggiormente.

Fa parte di questa scommessa anche la predeterminazione rigida e crescente dell’indennizzo, due mensilità per ogni anno di lavoro, con un minimo garantito di quattro mensilità. Il lavoratore sarà incentivato a lavorare meglio, perché sa che meglio lavora e più è indennizzato contro i rischi di una defezione illegittima da parte dell’imprenditore.

Quali sono i difetti di una regola di responsabilità così concepita?

Da parte di molti studiosi si è sottolineata, a tacer d’altro, l’inadeguatezza dell’indennizzo, che non sarebbe in linea con le disposizioni delle Carte dei diritti. Ad es. la Carta sociale Europea, che all’art. 24 attribuisce al lavoratore un duplice diritto: a) il diritto dei lavoratori di non essere licenziati senza un valido motivo legato alle loro attitudini o alla loro condotta o basato sulla necessità di funzionamento dell’impresa, dello stabilimento o del servizio; b) il diritto dei lavoratori licenziati senza un valido motivo, ad un congruo indennizzo o altra adeguata riparazione.

Si può essere o meno d’accordo con questa impostazione, ma quel che mi preme sottolineare è che la predeterminazione dell’indennizzo, se può certamente aiutare il datore di lavoratore nel calcolare preventivamente i costi del licenziamento, al tempo non elimina i comportamenti opportunistici e di azzardo morale del lavoratore, il quale può barattare l’indennizzo, sia pure limitato, con una riduzione dell’impegno e del rendimento, non facilmente osservabili e sanzionabili. L’effetto shirking o scansafatiche rischia non di diminuire ma di aumentare. Se poi l’effetto del jobs act sarà effettivamente quello di rilanciare il mercato del lavoro, questo comportamento del lavoratore non sarà particolarmente rischioso per lui, in quanto le sue probabilità di rioccupazione potrebbero non essere scarse come in un mercato del lavoro bloccato dall’art. 18 (assenza di effetti reputazionali).

Quel che dunque l’imprenditore dovrebbe fare, la vera sfida del diritto del lavoro di oggi, consiste nell’evitare che il lavoratore preferisca scatenare rapidamente una crisi di cooperazione, nella quale egli può ancora lucrare sulla non facile osservabilità e verificabilità del suo scarso rendimento: più che un aumento della tutela in caso di licenziamento, sarebbe auspicabile un aumento della retribuzione.

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[1] Calabresi, Guido and Melamed, A. Douglas, Property Rules, Liability Rules, and Inalienability: One View of the Cathedral (1972). Faculty Scholarship Series. Paper 1983.

[2] P. Ichino, La riforma dei licenziamenti e i diritti fondamentali dei lavoratori, in Risistemare il diritto del lavoro, liber amicorum Marcello Pedrazzoli, a cura di L. Nogler e L. Corazza, Milano, 2012, p. 802 ss.

[3] A. Nicita, R. Pardolesi, M. Rizzolli, Le Opzioni Nel Mercato delle Regole, in http://www.side-isle.it/wp/05/nicita-pardolesi-rizzolli.pdf , p. 9.

[4] A. Nicita – V. Scoppa, Economia dei contratti, Roma, 2015, p. 22.

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