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I TRE COLLOQUI SULLA STORIA DEL DIRITTO DEL LAVORO

[1]I tre approfondimenti promossi da Adapt per cercare nelle vicende della nostra materia nel secolo scorso gli insegnamenti utili per interpretare il presente e costruire il futuro delle relazioni industriali nel post-pandemia – Sono disponibili anche i miei appunti preparatori

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Video dei
webinar svoltisi su iniziativa di Adapt nei giorni 27 marzo, 3 e 10 aprile 2020 (il terzo verrà trasmesso il 15 aprile), in forma di intervista a me, condotta di volta in volta da Michele Tiraboschi, Emmanuele Massagli e Francesco Seghezzi – Seguono i miei appunti preparatori per ciascuno dei tre colloqui, che metto online così come li ho buttati giù, senza interventi di editing – In argomento v. anche l’intervista al canale [2]Liberi Oltre [2] nella quale ho anticipato i contenuti del mio libro di cui è prevista l’uscita a maggio, L’intelligenza del lavoro.
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Il primo webinar – 27 marzo 2020
1970-2020: 50 ANNI DI STATUTO DEI LAVORATORI
IL RAPPORTO TRA LEGGE E CONTRATTAZIONE COLLETTIVA
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Il secondo webinar – 3 aprile 2020
70 ANNI DI “DIRITTO SINDACALE TRANSITORIO”
LA CREPA INTERNA DELL’ARTICOLO 39

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Il terzo webinar – 15 APRILE 2020
CONTRATTUALISMO E A-CONTRATTUALISMO
DAL VENTENNIO AI GIORNI NOSTRI

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1. – MEZZO SECOLO DI STATUTO DEI LAVORATORI
IL RAPPORTO TRA LEGGE E CONTRATTAZIONE COLLETTIVA
(appunti preparatori)

 Conoscere la storia del lavoro, almeno quella degli ultimi due secoli, delle norme che via via lo hanno regolato, della ragion d’essere che di volta in volta ha sorretto quelle norme, è indispensabile per capire quello che sta accadendo nella vicenda epocale che stiamo vivendo in queste settimane e ridurre al minimo gli errori nell’indispensabile adattamento delle regole.

Il diritto del lavoro ha da sempre una sua dialettica interna:

Il diritto del lavoro nasce con la prima rivoluzione industriale, cioè in un’epoca nella quale le prime manifatture assistite dalle macchine erano delle “cattedrali nel deserto”. Dove per deserto intendiamo un mondo nel quale la grande maggioranza dei lavoratori manuali erano contadini e braccianti: l’unico modo che avevano per sottrarsi alla condizione di sotto-occupazione tipica del settore agricolo era trasformarsi in operai per le neonate aziende industriali, che però erano poche rispetto all’enorme offerta di lavoro. Gli economisti parlano, a questo proposito di monopsonio strutturale: cioè di un mercato nel quale c’è un solo compratore di fronte a una grande pluralità di aspiranti venditori; in questo caso, un solo industriale di fronte a una grande pluralità di aspiranti operai. In questa situazione per chi vende la propria forza-lavoro non c’è alcuna possibilità di scelta: prendere (ciò che offre l’industriale) o lasciare.

È questo il mercato del lavoro descritto da Marx. Un mercato nel quale – osserva Marx, e aveva ragione – il contratto è soltanto “la foglia di fico che nasconde la vergogna della dittatura del padrone sull’operaio”. In modo più asettico, gli economisti che studiano il fenomeno del monopsonio dicono che in questo mercato le retribuzioni sono schiacciate al di sotto del valore della produttività marginale del lavoro e dunque l’imprenditore gode di una rendita, la rendita monopsonistica appunto. Ecco: il movimento sindacale e il diritto del lavoro nascono per correggere questa distorsione, caratteristica del monopsonio strutturale. Lo strumento principale per operare questa correzione è la fissazione – per legge o per contratto collettivo – di uno standard minimo inderogabile di trattamento. Cioè la sostituzione del contratto con una regola posta dal di fuori.

Si può dire, dunque, che il diritto del lavoro nasce proprio come negazione del contratto: nasce per sostituire all’accordo tra padrone e operaio uno standard fissato altrove. Consiste dunque, all’origine, essenzialmente in una negazione, o comunque forte svalutazione, di quella che i giuristi chiamano l’autonomia negoziale individuale, del singolo lavoratore. In questo senso si può dire che il diritto del lavoro nasce in opposizione al diritto civile: più precisamente opposizione al contratto, che del diritto civile è forse l’istituto più importante.

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Il grande civilista Renato Scognamiglio (1992) disse però che, mentre “il diritto civile nasce dalla libertà, il diritto del lavoro cammina verso la libertà”. L’ordinamento dunque non si rassegna alla capite deminutio delle persone che lavorano: coltiva l’obbiettivo di superarla. Sì, perché poi, nel corso del Novecento, le cose si evolvono. L’industria, il commercio e i servizi prendono il sopravvento sull’agricoltura anche come numero di occupati. Le aziende manifatturiere e del terziario si moltiplicano fino a diventare milioni. In questo nuovo contesto, di mercato del lavoro maturo, la debolezza del lavoratore non nasce più da una situazione di monopsonio strutturale, l’impresa che può valorizzare il suo lavoro non è più una “cattedrale nel deserto”. La sua debolezza nasce dal fatto che non sa quale impresa potrebbe essere interessata al suo lavoro (difetto di informazione), non ha a disposizione il servizio di formazione mirata che consenta di adattare le sue capacità a ciò che l’impresa precisamente chiede (difetto di formazione efficace), e ha difficoltà a spostarsi là dove c’è l’impresa che potrebbe meglio valorizzare il suo lavoro. Gli economisti indicano questa come una situazione di monopsonio dinamico: un mercato nel quale il venditore (il lavoratore) non ha scelta per difetto di informazione, di formazione e di mobilità.

Cambia la struttura del mercato del lavoro, cambia il fattore da cui dipende la debolezza del lavoratore e dunque la rendita monopsonistica dell’imprenditore. E in qualche misura si assiste anche a una evoluzione degli strumenti che l’ordinamento mette in campo per correggere questa distorsione. È molto significativo, a questo proposito, che il primo strumento di politica del lavoro di cui si dota l’ordinamento europeo, che nasce nella seconda metà del Novecento, in questo nuovo contesto, sia il Fondo Sociale Europeo, destinato a promuovere e finanziare i servizi di informazione, formazione e assistenza alla mobilità dei lavoratori, cioè i servizi utili per correggere i fattori di debolezza dei lavoratori tipici del monopsonio dinamico.

Nel mercato del lavoro la domanda e l’offerta di lavoro sono sempre più personalizzate, individualizzate.

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Da un lato,dunque,  la norma inderogabile, che nega o quanto meno comprime l’autonomia negoziale del lavoratore; dall’altro i servizi volti a allargare le sue possibilità di scelta. Sembrerebbero due logiche tra loro incompatibili. Ma non lo sono: le due tecniche di protezione possono benissimo convivere, possono coniugarsi in vari modi. È certo, tuttavia, che la parola d’ordine in cui si riassumono le politiche del lavoro fatte favorite dall’ordinamento europeo, quella della promozione della employability, prefigura un mondo in cui non è soltanto l’imprenditore a selezionare e scegliere i propri collaboratori, ma sono anche questi ultimi a scegliere, tra le imprese, quelle che ritengono più idonee a valorizzare il loro lavoro. Se si entra in questo ordine di idee, il mercato del lavoro diventa anche, per così dire, un “mercato dell’intrapresa”.

Ma, sempre se si entra in questo ordine di idee, il lavoratore non è più un soggetto capite deminutus. È uno che in qualche misura una capacità e un potere effettivo di scelta ce l’ha. E ha anche un progetto suo personale circa il lavoro che intende svolgere, il come, dove e quando svolgerlo, l’intreccio fra tempo di vita e tempo di lavoro. Un soggetto, dunque, al quale occorre restituire, almeno in qualche misura, una autonomia negoziale. Auto-nomia: potere di darsi la norma, la legge, mediante l’accordo negoziale con la controparte.

Così, il diritto del lavoro dei tempi più recenti si riavvicina al diritto civile: riconosce al lavoratore spazi sempre più ampi di autonomia negoziale, per esempio in materia di collocazione ed estensione temporale della prestazione, di mansioni, di come svolgerle (smart working), di distribuzione del compenso tra retribuzione diretta e differita, e così via.

La storia del diritto del lavoro è una storia di avvicinamenti e allontanamenti dal diritto civile: un percorso non lineare, tortuoso. Però l’importante – mi sembra – è capire che là dove il lavoratore riesce a esercitare realmente una libertà di scelta, quindi una propria autonomia negoziale, si realizza il successo di un percorso storico volto alla sua emancipazione. Se e nella misura in cui quella libertà è effettiva, il ritorno del diritto del lavoro nell’alveo del diritto civile non va visto come una sconfitta, ma come il coronamento di un processo secolare di liberazione.

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Qui si apre anche il discorso sulla dialettica tra contrattualisti e acontrattualisti, e di quella tra concezione privatistica e concezione pubblicistica del diritto del lavoro, che entrambe hanno avuto un’importanza centrale nell’evoluzione della materia.

Discorso su queste due dialettiche. La linea di sviluppo Barassi-Santoro Passarelli-Mengoni-Mancini-Giugni, con la svolta contrattualista della Cassazione nella seconda metà degli anni ’80 (la vicenda dei pony-express) e la linea Paolo Greco-Pugliatti-Scognamiglio-Romagnoli ’67 che dominerà nella dottrina degli anni ’70 (Mazzotta Mazziotti Mariucci). La vicenda del riconoscimento del part-time nel 1984, col voto contrario del Pci e l’opposizione della Cgil.

L’oscillazione ricorrente del diritto del lavoro tra contrattualismo e a-contrattualismo, ma anche tra diritto civile e diritto pubblico.

Fino al riconoscimento esplicito e allargamento dell’autonomia individuale tra la fine degli anni ’80 e il primo decennio degli anni 2000.

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Il problema è che la globalizzazione torna a generare uno squilibrio forte tra domanda e offerta di lavoro, soprattutto (ma non soltanto) nelle fasce professionali più basse, mettendo in concorrenza i lavoratori italiani con quelli dei Paesi in via di sviluppo.

C’è, però, un altro aspetto della globalizzazione che non viene diffusamente percepito: essa non rende più mobili solo le merci, i servizi e i lavoratori, ma anche gli imprenditori. Essa potrebbe dunque offrire ai lavoratori anche una forte compensazione per il loro indebolimento causato dall’aumento della concorrenza sul lato dell’offerta di manodopera, col mettere gli imprenditori italiani, qui in Italia, in concorrenza sul lato della domanda di manodopera con il meglio dell’imprenditoria mondiale. Sarebbe interesse dei lavoratori aumentare questa concorrenza sul lato della domanda di lavoro. Invece ha prevalso troppo spesso la diffidenza nei confronti delle imprese multinazionali e la difesa dell’“italianità” delle imprese, da destra e da sinistra, che ha allontanato o scoraggiato gli imprenditori stranieri.

La necessità di rendere il più possibile attrattivo il Paese per le imprese straniere migliori. Il sindacato come intelligenza collettiva che deve guidare i lavoratori nella valutazione dei piani industriali e degli imprenditori che li portano, poi, in caso di valutazione positiva, nella negoziazione a 360° della scommessa comune.

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Ora, però, la globalizzazione sembra avere subito una pesantissima battuta d’arresto. Dobbiamo mettere in conto un ritorno alle frontiere chiuse. Per di più in un contesto di gravissima recessione

Qui discorso sul probabile ritorno a situazioni di squilibrio grave tra domanda e offerta. Quindi necessità che il pendolo torni verso la tecnica dello standard inderogabile e della limitazione dell’autonomia individuale. Ma non bisogna perdere di vista l’obiettivo di tornare a un mercato del lavoro nel quale ciascun lavoratore possa scegliere.

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In questa stagione segnata profondamente dalla pandemia da Coronavirus, alcuni germi di novità, embrioni di un mondo del lavoro nuovo, possono vedersi in questi fenomeni che si verificano sempre più diffusamente in questi giorni:

 

2. MEZZO SECOLO DI “DIRITTO SINDACALE TRANSITORIO”
LA CREPA INTERNA DELL’ARTICOLO 39
(appunti preparatori)

Erano previsti per queste settimane/mesi diversi convegni dedicato allo Statuto dei Lavoratori, a cinquant’anni dalla approvazione. Tutti questi momenti sono stati ovviamente annullati. Adapt ci offre invece un’occasione di riflettere insieme sullo Statuto, che non viene travolta dalla pandemia. Dobbiamo dunque chiederci che cosa ha significato quella legge per il diritto del lavoro italiano e quali sono i suoi principali limiti cinque decadi dopo.

La vicenda dello Statuto dei Lavoratori, per molti aspetti straordinaria, può essere osservata da molti punti di vista.

Un aspetto della vicenda poco conosciuto è quello della dialettica – che percorse tutto il decennio degli anni ’60 – tra i fautori dell’intervento legislativo (soprattutto il Psi, che ne aveva fatto una bandiera, una ragion d’essere della propria partecipazione al governo con la DC) e i contrari: tra questi soprattutto la Cisl, il cui motto era “il nostro Statuto è il contratto!”. La Cisl si era già opposta con forza all’emanazione della legge del 1966 sui licenziamenti individuali: l’accordo interconfederale del 1965 era nato proprio con l’intendimento, comune anche a Confindustria, di evitare l’intervento legislativo (poi la legge n. 604/66 avrebbe ricalcato in tutto e per tutto quell’accordo). Negli interventi del suo segretario Bruno Storti, e del deputato Amos Zanibelli alla Camera, veniva denunciato il rischio di una “istituzionalizzazione del sindacato” e di una “espropriazione [ai danni del sistema delle relazioni industriali] della regolazione dei rapporti di lavoro”; si paventava

A parte quella forzatura, lo Statuto dei lavoratori nacque, come già la legge del ’66 sui licenziamenti, in aderenza abbastanza stretta ai contenuti dei rinnovi contrattuali del ’69-70. E – nonostante che fosse stato qualificato come “legge mal fatta” – era un testo legislativo esemplare per chiarezza e semplicità: 41 articoli brevi, immediatamente leggibili e comprensibili da chiunque. Tant’è vero che venne diffuso in milioni di copie in ogni angolo del Paese, e nel giro di due o tre mesi milioni di lavoratori e imprenditori furono in grado di capire la nuova disciplina delle mansioni, delle visite mediche, dei controlli a distanza, dei trasferimenti, dei permessi sindacali, delle assemblee in azienda e così via.

Era, da questo punto di vista, un testo legislativo perfettamente in linea con le altre grandi leggi in materia di lavoro degli anni precedenti: quelle sul divieto di interposizione, sui contratti a termine, sui licenziamenti. Fu dalla seconda metà degli anni ’70 in poi che le preoccupazioni della Cisl incominciarono a rivelarsi fondate: incominciò la produzione legislativa di tipo alluvionale, legata alle circostanze contingenti, destinata a risolvere casi aziendali particolari, soggetta a continui rimaneggiamenti, che ha dato luogo all’attuale configurazione della legislazione del lavoro: complessissima, illeggibile senza l’aiuto dei consulenti professionali e talvolta incomprensibile anche a questi ultimi, estremamente volatile e quindi inaffidabile.

E qui si assiste a una sorta di rivincita della contrattazione collettiva sulla legge, una sorta di vittoria tardiva della Cisl: dal 2011, con il decreto n. 138 emanato all’indomani della lettera Trichet-Draghi al Governo italiano, nell’occhio del ciclone di una gravissima crisi economico-finanziaria, poi con numerose altre norme legislative che hanno ampliato questa possibilità di deroga (ultimamente la legge sulla disciplina del lavoro dei riders).

Detto questo, del testo originario dello Statuto, a cinquant’anni di distanza sono rimaste inalterate soltanto alcune disposizioni del titolo I (in materia di personale di vigilanza, guardie giurate, perquisizioni all’uscita dalle aziende, procedimento disciplinare, divieto di indagini), mentre sono state abrogate le norme sul collocamento e sono state profondamente modificate quelle in materia di mansioni, di licenziamento e di criteri di rappresentatività dei sindacati per il godimento dei diritti di agibilità sindacale in azienda.

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A proposito dei mutamenti subiti dall’articolo 19 dello Statuto, che stabilisce i criteri di misurazione della rappresentatività dei sindacati ai fini del godimento dei diritti sindacali nell’unità produttiva: cosa ne pensi di un intervento legislativo di carattere più generale sulla rappresentanza? Come lo costruiresti tecnicamente per superare il vero nodo dietro a questo argomento che è la misurazione della rappresentanza datoriale e la fissazione del perimetro contrattuale?

Sulla questione della misurazione della rappresentatività dei sindacati il nostro problema nasce dalla norma costituzionale che regola la materia, l’articolo 39. Con questa norma il legislatore costituente ha voluto voltar pagina rispetto all’ordinamento corporativo, sancendo il principio della libertà sindacale, che significa ovviamente anche possibilità di una pluralità di sindacati in campo. Però si è poi proposto di spiegare come, in una situazione di pluralismo sindacale, si può arrivare a un contratto collettivo nazionale efficace per tutto il settore. E qui il legislatore costituente ha dettato una regola molto difettosa, creando una sorta di “camera delle corporazioni democratizzata”: una rappresentanza sindacale unitaria nazionale per ciascun settore, composta in proporzione alla consistenza associativa dei sindacati nazionali dello stesso settore. Il problema sta nel fatto che, per poter costituire queste r.s.u. di settore occorre definire prima autoritativamente il perimetro dei vari settori, esattamente come era stato fatto nel ventennio per istituire la Camera delle Corporazioni. Ma in questo modo viene meno un elemento essenziale della libertà sindacale sancita dal primo comma dello stesso articolo 39 Cost.: cioè il principio per cui la categoria sindacale è determinata dal libero gioco dell’aggregazione dei lavoratori e della contrattazione con gli imprenditori e le loro associazioni. In altre parole, il rovesciamento operato dal primo comma dell’art. 39 rispetto al ventennio sta nel fatto che la “categoria sindacale” non preesiste più al contratto, non è un alveo predefinito entro il quale la contrattazione è costretta a svolgersi, bensì al contrario è il contratto che preesiste alla categoria. È il contratto che dà vita alla categoria; quindi ne definisce liberamente il perimetro.

Nel corso degli anni ’50 non soltanto la Cisl, ma anche la Cgil si erano opposte all’attuazione del meccanismo previsto dal quarto comma dell’articolo 39, per il timore che nella legge venisse infilata anche una disciplina limitativa del diritto di sciopero, come previsto dall’articolo 40. Ben presto, però, a questo motivo per così dire tattico, a sostegno della scelta di non attuare il quarto comma, la cultura gius-sindacale ha aggiunto il motivo più serio e per così dire strategico: se ne incaricò Federico Mancini con la sua famosa prolusione bolognese del 1963, dedicata a mostrare il contrasto interno all’articolo 39, tra primo e quarto comma, per sostenere la necessità che quest’ultimo rimanesse lettera morta. In quell’occasione il giuslavorista bolognese, reduce da diversi anni di insegnamento insieme a Gino Giugni e a Giuseppe Pera alla Scuola sindacale di Firenze della Cisl, mostrò anche come il meccanismo previsto dal quarto comma corrispondesse all’idea di una contrattazione collettiva destinata a svolgersi soltanto al livello nazionale, poiché quel meccanismo era strutturalmente inadatto a essere applicato alla contrattazione aziendale, che invece stava incominciando – soprattutto per iniziativa della stessa Cisl – a diffondersi nelle fabbriche di maggiori dimensioni.

Uno spiraglio resta aperto soltanto per una eventuale regolazione legislativa dell’efficacia dei contratti collettivi di livello inferiore rispetto a quello nazionale: è infatti ragionevole sostenere che la norma costituzionale – chiaramente riferita soltanto alla contrattazione collettiva di livello nazionale – non osterebbe a una legge che si limitasse a regolare l’efficacia dei contratti collettivi di livello inferiore: i cosiddetti “contratti di prossimità”.

In molti casi il proliferare dei contratti collettivi nazionali risponde alla stessa logica cui risponde lo spostamento del baricentro della contrattazione collettiva verso la periferia (la cosiddetta “contrattazione di prossimità”): la nascita di una “categoria” sindacale più ristretta corrisponde a un avvicinamento della contrattazione ai luoghi di produzione. Si pensi alla nascita della categoria dei dipendenti di agenti di assicurazione, nata per scissione dalla categoria generale del settore assicurativo; oppure alla possibile nascita della categoria della grande distribuzione per scissione dalla categoria generale del commercio o “terziario”.

Fino a che non ci saranno le condizioni politico-istituzionali per riscrivere l’articolo 39 della Costituzione, il problema può essere risolto solo rinunciando ad attribuire efficacia erga omnes ai minimi tabellari e agli altri standard minimi di trattamento stabiliti dai contratti collettivi nazionali. È possibile – e auspicabile – invece, una legge che si limiti a regolare la verifica della rappresentatività sindacale (il più possibile in aderenza ai criteri sanciti nel Testo Unico interconfederale del 2014) in riferimento alla “contrattazione di prossimità”, al livello regionale, territoriale, o nei luoghi di lavoro: si è visto, infatti, che il meccanismo previsto dall’articolo 39 della Costituzione riguarda la sola contrattazione collettiva di livello nazionale, non impedendo dunque l’adozione di soluzioni diverse ai livelli inferiori.

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È ancora attuale la dialettica tra il “padrone” e il “contraente debole” che scaldava gli animi in quegli anni? Non è infrequente leggere paragoni tra la debolezza dell’operaio di allora e il rider di oggi o anche il freelance che lavora su piattaforma, il dipendente part-time a pochissime ore, lo stagista. La dinamica è quindi ancora la stessa? “Azienda versus dipendenti” è diventato “grande multinazionale spersonalizzata versus collaboratori occasionali”?  O è mutata anche questa dinamica?

Si parla molto, e giustamente, della disuguaglianza iniqua tra il dipendente stabile e il precario. Ma oggi siamo di fronte a una disuguaglianza ancor più grave, nel mondo del lavoro: quella che corre tra il dipendente di impresa privata, piccola o grande che sia, stabile o a termine, e l’impiegato pubblico di back-office, cioè non impegnato in prima linea in servizi sanitari, di polizia, o comunque essenziali. Quest’ultimo viene per lo più lasciato a casa per tutta la durata del lockdown al pari del dipendente dell’impresa privata, però senza perdere un euro dello stipendio. Non è certo una sua colpa; dunque, buon per lui. Però sul piano dell’equità sociale la cosa non ha alcuna giustificazione. E non ha alcuna giustificazione neppure sul piano giuridico-istituzionale: con lo stesso decreto con cui è stato disposto il divieto di andare al lavoro per tutti coloro che non svolgono attività indispensabili, ben avrebbe potuto essere stabilito che agli impiegati pubblici lasciati a casa per i quali non si attivi una qualche forma di lavoro da remoto venga erogata soltanto un’integrazione salariale pari a quella che percepiscono tutti i dipendenti del settore privato. Se non lo si fa è solo in omaggio all’idea sbagliata che lo stipendio pubblico sia qualcosa di diverso dalla normale retribuzione di un lavoratore dipendente. Si obietterà che, su tre mesi di probabile durata della sospensione, all’erario ne deriverebbe un risparmio non superiore a un miliardo: poca cosa rispetto all’aumento del debito di questi giorni. È vero. Ma basterebbe per dare un sostegno concreto alla parte degli stessi dipendenti pubblici oggi eroicamente in prima linea: per esempio premiando medici e infermieri che stanno lavorando il doppio; oppure dando i pc agli insegnanti che si stanno arrabattando per fare lezioni online di tasca loro. E gioverebbe molto alla coesione solidale tra i cittadini, che nelle catastrofi è la risorsa più importante di cui un Paese dispone; e che si basa sulla condivisione da parte di tutti del peso delle circostanze avverse.

Quanto a riders, freelance e stagisti…      [richiamo del discorso fatto venerdì scorso sulle tecniche di protezione efficaci, partendo dal caso riders].

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Passiamo ora a discutere del ruolo del sindacato.

Come dicevamo venerdì scorso, la forza contrattuale dei lavoratori dipende dall’ampiezza della loro possibilità di scelta tra le imprese. Per ampliare questa possibilità di scelta i lavoratori hanno bisogno di una nuova “intelligenza del lavoro”, intelligenza individuale, ma anche soprattutto intelligenza collettiva, che può essere data loro soltanto da un sindacato moderno.

Intendo dire una “intelligenza” che consenta loro di guardare al mercato del lavoro anche come a un “mercato dell’intrapresa”, nel quale non sono solo loro a essere scelti da un imprenditore, ma sono anche loro stessi a scegliersi l’imprenditore.

Per questo hanno bisogno di un sindacato che li aiuti a conoscere e capire molto di più di quanto oggi conoscano e capiscano un mercato del lavoro complesso e di per sé poco trasparente, a muoversi dentro esso.

Ma anche un sindacato che, dentro l’impresa, consenta loro di valutare le scelte strategiche dell’imprenditore e – se la valutazione è positiva – li guidi nella scommessa comune con l’imprenditore su quelle scelte. Un sindacato-partner dell’imprenditore, capace di innescare meccanismi di partecipazione dei lavoratori all’impresa, e ovviamente anche di partecipazione ai frutti della scommessa, quando questa viene vinta.

Quando, poi, il vecchio imprenditore è in crisi, fallisce, il sindacato deve saper guidare i lavoratori nella scelta del nuovo imprenditore: una scelta che può essere individuale, con la migrazione di ciascuno verso altre aziende, ma può essere anche scelta di un nuovo imprenditore da parte del collettivo dei lavoratori dell’azienda in crisi. E qui il sindacato è evidentemente indispensabile, è evidente il suo ruolo come detentore della memoria storica dell’azienda, e al tempo stesso come “intelligenza collettiva” che guida i lavoratori nella valutazione del nuovo piano industriale e nella negoziazione della scommessa comune col nuovo imprenditore.

Di questo sindacato, nell’era della globalizzazione ci sarà sempre più bisogno.

Certo, non avrà invece molto spazio in futuro il sindacato-piantagrane, il sindacato antagonista dell’impresa.

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Passo ora alla domanda che mi viene rivolta sulla mia esperienza personale nel sindacato: che cosa mi ha indotto a quella scelta, mezzo secolo fa, e il bilancio che ne traggo.

Nella mia adolescenza, sulla mia educazione aveva esercitato una influenza fortissima don Lorenzo Milani, molto amico dei miei genitori. Gli allievi della scuola di Barbiana venivano ospiti da noi e noi andavamo a Barbiana. A me don Lorenzo disse esplicitamente che la gran ricchezza in cui vivevo – ricchezza non tanto di soldi quanto di cultura, di abbondanza di libri e persone colte in giro per casa, di istruzione – finché ero minorenne non era peccato, ma al compimento della maggiore età sarebbe diventata “peccato” se io non avessi restituito tutto. E i modi che lui indicava per restituire erano principalmente due: fare il maestro, o fare il sindacalista. Io scelsi questo secondo, e già a vent’anni, prima ancora di laurearmi, nel 1969, andai a lavorare come sindacalista per la Fiom-Cgil in una zona della periferia nord di Milano.

Incominciai così un’esperienza straordinariamente ricca e interessante, che sarebbe durata per tutto il decennio successivo, fino a che, nel 1979, la Cgil non mi spedì in Parlamento.

In quei dieci anni vidi da vicino, dal di dentro, gli aspetti più belli ed entusiasmanti della vita del sindacato, ebbi la fortuna di conoscere da vicino sindacalisti straordinari come Luciano Lama, Bruno Trentin, Lucio De Carlini e molti altri. Ebbi però anche modo di vedere molto da vicino anche alcune contraddizioni, alcuni gravi difetti. Di accorgermi che non era tutto oro quello che luccicava nel movimento sindacale e negli strumenti di protezione del lavoro. Situazioni nelle quali il sindacato difendeva gli interessi degli insiders contro quelli degli outsiders; situazioni nelle quali il sindacato per entrare in una nuova azienda nominava proprio rappresentante una persona che era incorsa in una grana disciplinare, offrendole una protezione impropria e inquinando il proprio DNA. Toccai con mano quanto fosse dannoso per i lavoratori nel mercato del lavoro il monopolio statale dei servizi di collocamento, che pure era difeso a spada tratta da tutto il movimento e dai partiti di sinistra. Ma di queste cose con i dirigenti della Cgil di allora si poteva parlare, eccome. E tanto mi ascoltavano che mi mandarono a parlarne anche in Parlamento.

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Un’altra domanda che mi viene rivolta è questa: in una economia veloce, mutevolissima, globalizzata come quella di oggi, che utilità ha ancora una organizzazione di impostazione confederale? Come si tutelato in lavoratori in mercati globali e interconnessi? La confederalità appare oggi legata alle immagini, sempre più lontane, della concertazione nella sala verde di Palazzo Chigi. Eppure, i fatti recenti paiono avere ridato centralità al dialogo con i segretari generali. Ci può essere una nuova vita per l’assetto confederale?

Dicevo prima che il primo livello di utilità del sindacato consiste nell’aiutare tutte le persone che lavorano a usare il mercato del lavoro, a essere protagoniste in questo mercato, a farne un luogo in cui sono anche loro a scegliere e non solo a essere scelte. Un sindacato che intenda svolgere questa funzione di assistenza anche a chi cerca un lavoro – recuperando il ruolo che nel mercato del lavoro svolgevano alle origini le leghe bracciantili e le Camere del Lavoro, ma anche altre istituzioni del movimento operaio, come qui a Milano la Società Umanitaria – non può che essere un sindacato confederale: perché se vuole essere protagonista nel mercato, essere lei a scegliere, una persona non può presentarsi come “lavoratore metalmeccanico”, “tessile”, “del commercio”. Deve saper espandere la sua ricerca in tutte le direzioni, a 360°.

Un altro motivo per cui è necessaria la dimensione confederale è che il sindacato dell’era della globalizzazione deve essere anche – come dicevamo prima – l’intelligenza collettiva dei lavoratori che opera per rendere il Paese il più possibile attrattivo nei confronti del meglio dell’imprenditoria straniera, in tutti i settori produttivi. Per questo deve esercitare una pressione continua sul Parlamento e sul Governo per l’adozione di tutte le misure che facilitino l’afflusso di piani industriali innovativi e i relativi capitali.

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Un ultimo passaggio sulla formazione dei lavoratori, intesa, come si dice spesso, come tutela della persona nei mercati del lavoro transizionali. Perché i contratti collettivi fanno fatica a regolare questa materia? Il diritto soggettivo alla formazione sul modello del contratto metalmeccanico è una strada?

Il diritto soggettivo alla formazione efficace ha un senso eccome. Il problema è individuare il soggetto passivo dell’obbligo: imprenditore o “sistema”?

Perché gli imprenditori investono meno del dovuto sulla formazione (rischio di lavorare per la concorrenza).

La soluzione: imprenditore o “sistema”, purché finanziato dalla categoria, o (forse meglio) da una contribuzione generale, e con un meccanismo di rilevazione a tappeto del tasso di coerenza tra formazione impartita e sbocchi occupazionali effettivi, mediante incrocio dei dati di una anagrafe della formazione e quelli delle Comunicazioni Obbligatorie al ministero del Lavoro. E pubblicazione obbligatoria del dato, che deve diventare uno degli strumenti-cardine dell’orientamento scolastico e professionale: un servizio che va fornito sia agli adolescenti, sia agli adulti.

 

3. CONTRATTUALISMO E A-CONTRATTUALISMO
DAL VENTENNIO AI GIORNI NOSTRI
(appunti preparatori)

Visto che siamo in tema di corsi e ricorsi storici, parliamo del diritto del lavoro all’indomani di un’altra grande catastrofe, peggiore anche di questa che ci affligge oggi: la seconda Guerra mondiale.

Vediamo come è stato gestito il passaggio “epocale” dall’ordinamento giuslavoristico corporativo a quello repubblicano. E quali figure hanno segnato l’evoluzione della materia e della relativa branca del diritto.

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In quegli anni la produzione legislativa in materia di lavoro è quasi del tutto assente: a parte la legge Fanfani sul collocamento del 1949 e quella sulle festività, per un intero decennio la fonte quasi unica di disciplina dei rapporti sono il Codice civile e la legge sull’impiego privato del 1924. Ma dalla fine degli anni ’50 si assiste a una ripresa dell’attivismo legislativo. Vediamo ora
– quale sia stato il contributo della dialettica giuslavoristica su tale produzione legislativa;
– quale ruolo abbia svolto la dottrina, con le sue diverse posizioni, sull’impianto normativo e sulla sua applicazione; e se su questo piano prevalga l’orientamento contrattualista o quello a-contrattualista.

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Nel corso degli anni ’80 si incomincia a dare spazio alle scelte individuali, in materia di lavoro.

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Torniamo al contributo dato dai grandi padri del diritto del lavoro.

Il ruolo che svolse Francesco Santoro Passarelli

Il ruolo che svolse Luigi Mengoni

Il ruolo che svolsero Federico Mancini e Gino Giugni

Il ruolo che svolse Renato Scognamiglio

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Infine, un ritorno al presente: occorre discutere se le due posizioni che hanno segnato l’evoluzione del diritto del lavoro repubblicano possano ancora oggi e, soprattutto, in prospettiva futura, giocare un ruolo importante nella definizione delle politiche legislative che orienteranno la – probabilmente difficile – ricostruzione e regolazione del mercato del lavoro post-Covid19.

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