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IL DOVERE DI VACCINARSI DI FONTE CONTRATTUALE

Come può impedirsi all’imprenditore di richiedere ai propri dipendenti questa misura di igiene, quando ogni giorno per Covid-19 muoiono centinaia di nostri concittadini e dopo che per un intero anno, per combattere la pandemia, abbiamo (ragionevolmente) accettato limitazioni gravissime delle nostre libertà disposte per decreto?

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Articolo pubblicato sulla rivista online
Guida al Lavoro il 12 gennaio 2021 – In argomento v. anche la versione più ampia di questo stesso articolo, in corso di pubblicazione sulla rivista [1]Lavoro Diritto Europa [1]Ivi i link ad altri interventi precedenti sullo stesso tema .
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[2]1. Il problema – L’ordinamento italiano conosce numerosi casi di vaccinazioni rese obbligatorie da norme di legge per singole categorie di persone o per tutti. A tutt’oggi, però, nessuna norma ha reso obbligatoria la vaccinazione contro il Covid-19; né avrebbe evidentemente potuto fino alla fine del 2020, avendo il vaccino stesso incominciato a essere disponibile soltanto dall’inizio del 2021, e ancora in quantità assai limitate.

Così stando le cose, la questione che incomincia a porsi è se, pur in assenza di una legge che la renda obbligatoria, e finché duri la pandemia da Covid-19, sia consentito a un imprenditore richiedere la relativa vaccinazione come misura di sicurezza ai propri dipendenti che abbiano l’effettiva possibilità di sottoporvisi. In altre parole, se il vincolo non specificamente previsto da una legge per la generalità delle persone possa – senza che sia violata la riserva di legge posta dall’art. 32 Cost. – essere attivato a carico di alcune di esse per effetto del contratto di lavoro (ma anche, eventualmente, per effetto di un contratto diverso: di trasporto, di ristorazione, o di altro genere) di cui esse siano titolari.

2. La soluzione proposta – È mia opinione che al quesito possa darsi risposta positiva; il che non implica necessariamente che la via dell’imposizione sia sempre la più opportuna sul piano pratico (su questo punto tornerò più avanti). L’opinione è fondata sui tre passaggi logici che qui sintetizzo:

– come quasi tutti i diritti assoluti della persona, anche la libertà di sottoporsi o no alla vaccinazione contro il Covid-19 è suscettibile di limitazione di fonte contrattuale, pur in assenza di una legge che disciplini specificamente la materia; dunque un dovere di vaccinarsi e/o di dotarsi della relativa certificazione può legittimamente derivare non soltanto dal contratto di lavoro, bensì anche da quello di trasporto, o di albergo, o di ristorazione, così come dal quasi-contratto che tacitamente si instaura tra un centro commerciale e chi entra nei suoi locali;

– la comunità scientifica internazionale è concorde circa la necessità urgente di combattere la pandemia da Covid-19 mediante la vaccinazione di massa, considerando molto più gravi i rischi derivanti dal perdurare della pandemia stessa che quelli di eventuali effetti indesiderati dell’inoculazione del vaccino; le autorità sanitarie competenti e il Governo condividono l’auspicio che la vaccinazione di massa possa avvenire al più presto e con il massimo possibile di estensione;

– quando anche il singolo datore di lavoro, in relazione alle caratteristiche dell’organizzazione del lavoro nella propria azienda, con l’assistenza del medico competente, ravvisi nella vaccinazione contro il Covid-19 una misura utile per ridurre apprezzabilmente il rischio specifico di trasmissione dell’infezione a causa del contatto tra le persone in seno all’azienda, a norma dell’art. 2087 cod. civ. egli ha il potere/dovere contrattuale – e non solo – di adottare questa misura, consigliata dalla scienza e dall’esperienza, ed esigerne il rispetto da parte dei dipendenti come parte dell’obbligazione contrattuale gravante su di loro, salvo il caso di un motivo giustificato che sconsigli a una determinata persona di sottoporvisi.

A questo proposito si osservi che il rischio dell’infezione da Covid-19, a differenza della generalità delle altre malattie infettive, è stato qualificato dalla legge come rischio di infortunio sul lavoro in riferimento alla generalità delle aziende (art. 42, c. 2, d.-l. n. 18/2020, convertito con l. n. 27/2020), proprio in considerazione dell’elevatissima contagiosità e diffusione del virus che causa questa grave malattia e dell’alta probabilità che in un ambiente chiuso anche una sola persona portatrice del virus lo trasmetta ad altre. Con questa norma il legislatore ha, in sostanza, considerato il fatto stesso di lavorare in un’azienda insieme ad altre persone come causa tipica del rischio di infezione da Covid-19. Che è quanto basta perché di questo rischio il datore di lavoro debba farsi pienamente carico.

All’articolo 2087 cod. civ. si aggiunge, completando il quadro, l’articolo 20 del Testo Unico sulla sicurezza negli ambienti di lavoro (d. lgs. n. 81/2008), che testualmente recita: “Ogni lavoratore deve prendersi cura della propria salute e sicurezza e di quella delle altre persone presenti sul luogo di lavoro, su cui ricadono gli effetti delle sue azioni o omissioni, conformemente alla sua formazione, alle istruzioni e ai mezzi forniti dal datore di lavoro” (corsivi miei). Donde la conferma che le direttive impartite dal datore di lavoro in materia di sicurezza e igiene dell’ambiente di lavoro, se ragionevoli (cioè conformi alle indicazioni che si traggono da scienza ed esperienza), contribuiscono a determinare il contenuto dell’obbligazione contrattuale del dipendente, anche quando da esse deriva un obbligo non specificamente previsto dalla legge, né comunque imposto alla generalità dei cittadini.

Anche senza che venga emanata una legge ad hoc, opportuna ma non indispensabile, ben possono dunque essere i rapporti contrattuali privatistici, e in particolare quello di lavoro, a sostenere la diffusione della copertura vaccinale, perché dove sia a rischio la salute delle persone il contratto può ragionevolmente prevedere questa misura di protezione, là dove essa sia concretamente praticabile.

[3]3. Le obiezioni – Alla tesi sopra sinteticamente esposta si obietta che le autorità sanitarie competenti hanno autorizzato la vaccinazione ancora soltanto in via provvisoria, essendone ancora sconosciuti gli effetti a medio e lungo termine. È però anche vero che questa autorizzazione è stata data in tempi eccezionalmente brevi – pur nel rispetto di tutti i protocolli medico-scientifici del caso – proprio per la ritenuta urgenza di una vaccinazione di massa su scala planetaria, sulla base di un confronto tra l’entità e gravità degli eventuali effetti collaterali dell’inoculazione del vaccino e l’entità e gravità estrema (che si misura in Italia in centinaia di morti ogni giorno) dei danni certi derivanti dalla pandemia in atto. Se dunque è del tutto ragionevole il rilascio accelerato dell’autorizzazione da parte delle autorità competenti, non può non ritenersi ragionevole anche l’adozione di questa misura da parte del titolare di un’azienda.

Un’altra obiezione è quella secondo cui anche la persona vaccinata può essere portatrice sana del Covid-19. Ma la scienza medica insegna che il rischio di contagio, nel caso della persona portatrice del virus ma non colpita dall’infezione, è molto inferiore rispetto al caso della persona che sta incubando la malattia; e la vaccinazione ha proprio l’effetto di impedire l’incubazione. Finché dura la pandemia, certo, anche le persone vaccinate dovranno continuare a rispettare le misure di prevenzione fin qui praticate, come quelle di indossare la mascherina e di mantenere la distanza prescritta dalle altre persone. Ma, nella misura in cui sarà efficace contro l’infezione, la vaccinazione sarà comunque un rilevantissimo fattore di sicurezza aggiuntivo; e come tale il datore di lavoro avrà il dovere, dove possibile, di applicarla.

Con questo si reintroduce un obbligo generale di vaccinazione che la legge non prevede, in violazione della riserva di legge di cui all’art. 32 Cost.? No. I renitenti potranno continuare a non vaccinarsi. Ma non potranno pretendere di accedere a un ambiente di lavoro nel quale la loro presenza sia fonte di un maggior rischio per la salute altrui.

[4]4. Il rifiuto giustificato della vaccinazione, e quello ingiustificato – L’ammissibilità della disposizione aziendale che richiede la vaccinazione, in una situazione in cui questa sia concretamente possibile per il lavoratore, non significa che la persona interessata non possa ragionevolmente opporre un impedimento di natura medico-sanitaria.

Potrebbe essere addotta, per esempio, una condizione personale di immunodeficienza (per i tipi di vaccino tradizionali), o altra patologia che sconsigli la vaccinazione, oppure lo stato di gravidanza (in relazione al quale permane una controindicazione prudenziale da parte delle autorità competenti). In questo caso la Direzione aziendale dovrà adottare, in accordo con il medico competente e con gli altri organi preposti alla sicurezza del lavoro, misure appropriate per consentire comunque lo svolgimento della prestazione nella condizione della massima possibile sicurezza.

Dove nessuna di queste soluzioni sia ragionevolmente praticabile, può rendersi necessaria la sospensione della prestazione a norma dell’art. 2110 c.c., oppure se possibile con attivazione dell’integrazione salariale, fino alla fine della pandemia.

Può costituire motivo ragionevole di rifiuto della vaccinazione la preoccupazione per i suoi possibili effetti indesiderati? A me pare di no, dal momento che il compito di valutare la sicurezza dei vaccini, come di qualsiasi altra misura di protezione della salute, è affidato dall’ordinamento a presidi sanitari specialistici, che fino a prova contraria si deve supporre svolgano la funzione affidata loro in modo appropriato e rigoroso. Come non è consentito a un muratore rifiutare le attrezzature e gli indumenti di sicurezza assegnatigli dall’azienda sostenendo che, a suo giudizio, essi sono inutili o addirittura lo espongono a un maggior pericolo (la giurisprudenza sul punto è del tutto consolidata), allo stesso modo non può essere consentito all’infermiere, al medico, o all’operatore sanitario di rifiutare la vaccinazione perché non si fida del controllo compiuto dagli organi competenti.

Passiamo dunque a esaminare il caso del rifiuto della vaccinazione oggettivamente ingiustificato. Ritengo che in questo caso sia comunque sconsigliabile applicare la sanzione del licenziamento disciplinare, considerata la possibilità che venga contestata la sussistenza dell’elemento psicologico necessario ai fini della configurabilità della mancanza grave. E anche rispetto al licenziamento per giustificato motivo oggettivo, quando sarà cessato il relativo divieto congiunturale oggi in vigore, considero soluzione migliore dove possibile la sospensione della prestazione fino alla fine della pandemia, salvo ovviamente che siano possibili soluzioni organizzative diverse, anche in considerazione dell’effetto controproducente che potrebbe avere l’adozione di una politica aziendale più severa. In questo caso, tuttavia, a differenza di quello del rifiuto giustificato, la sospensione potrà avvenire senza decorso della retribuzione, come in qualsiasi altro caso di impossibilità sopravvenuta temporanea imputabile al prestatore.

[5]5. Una considerazione conclusiva di buon senso – In funzione del contrasto alla pandemia, nel corso del 2020, abbiamo sopportato a più riprese senza colpo ferire una sorta di “trattamento sanitario obbligatorio” che ha comportato una limitazione dei nostri diritti costituzionali di libera circolazione, di associazione, di manifestazione del pensiero, e altri ancora, in una misura senza precedenti nella storia del Paese; tutto ciò non per legge, ma per disposizione di un decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri. Abbiamo accettato questo vero e proprio cataclisma giuridico-costituzionale perché ci siamo resi conto che era un modo ragionevole, in quanto proporzionato all’enormità della minaccia a cui la collettività era esposta, per far fronte a quella minaccia. Così stando le cose, come si può ragionevolmente considerare illegittimo (addirittura contrario alla Costituzione) il comportamento di un datore di lavoro che, nell’esercizio di un potere/dovere attribuitogli dal contratto per espressa disposizione di legge, recepisce le indicazioni provenienti dalla comunità scientifica circa l’utilità della vaccinazione come misura di protezione individuale e collettiva nell’azienda, richiedendo ai propri dipendenti di sottoporvisi?

Certo, sarebbe in astratto auspicabile che anche il legislatore si assumesse fino in fondo le sue responsabilità a questo proposito. Se, però, per ragioni squisitamente politiche (ivi compresa la presenza di un cospicuo numero di parlamentari no-vax sia in seno alla maggioranza, sia in seno all’opposizione) il legislatore ritiene più opportuno non imporre un obbligo di vaccinazione in tutti i casi in cui essa è possibile, preferendo una politica mirata alla persuasione, questo nulla toglie al fatto che la scienza e l’esperienza indicano la vaccinazione di massa come la misura più efficace contro la pandemia, con rischi molto inferiori rispetto a quelli derivanti dalla rinuncia alla vaccinazione stessa.

L’inerzia del legislatore nulla toglie, dunque, alla ragionevolissima possibilità che un dovere di vaccinazione nasca da un contratto tra soggetti privati, e in particolare dal contratto di lavoro.

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