PERCHÉ E COME IL DOVERE DI VACCINARSI PUÒ NASCERE DA UN CONTRATTO DI DIRITTO PRIVATO

Il prestatore di lavoro è tenuto a conformarsi alle misure adottate dall’imprenditore per garantire la sicurezza e l’igiene del lavoro, quando siano ragionevoli, in quanto aderenti alle indicazioni condivise dalla comunità scientifica; dunque, se del caso, anche a quella che richieda la vaccinazione contro il Covid-19

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Intervento pubblicato in una versione ridotta su
Il Quotidiano giuridico l’8 gennaio 2021, in contraddittorio con un l’intervento di segno parzialmente diverso del prof. Oronzo Mazzotta, ordinario di diritto del lavoro nell’Università “La Sapienza” di Pisa – Questo scritto, nella versione più estesa e completata con i riferimenti bibliografici, qui sotto riportata, è in corso di pubblicazione anche nel n. 4/2020 della rivista Lavoro Diritti Europa – Sullo stesso argomento v. in precedenza il mio articolo pubblicato su lavoce.info il 31 dicembre 2021, L’obbligo di vaccinarsi può nascere dal contratto .
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Sommario – 1. La riserva di legge. –
2. La intrinseca disponibilità dei diritti assoluti della persona. – 3. L’obbligo generale di sicurezza a carico del datore e del prestatore di lavoro – 4. L’obbligo di attivare le vaccinazioni necessarie, secondo il Testo Unico per la sicurezza. – 5. Il possibile motivo ragionevole di rifiuto della vaccinazione. – 6. Le conseguenze possibili del rifiuto ingiustificato della vaccinazione oggetto di un obbligo contrattuale.
– 7. Considerazioni di sintesi e osservazioni conclusive.

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  1. La riserva di legge

L’articolo 32 della Costituzione sancisce la libertà di rifiutare qualsiasi trattamento sanitario, ivi comprese le vaccinazioni, salvo quello per il quale la legge istituisca un obbligo. L’ordinamento italiano conosce numerosi casi di vaccinazioni rese obbligatorie da norme di legge per singole categorie di persone o per tutti: contro la difterite (1939), contro il tetano (1963-1981), contro la poliomielite (1966), contro l’epatite virale B (1991), contro la tubercolosi (2000), contro la pertosse, la poliomielite, l’epatite B, l’Haemophilus influenzae tipo b, il morbillo, la parotite, la rosolia e la varicella, oltre che ancora contro epatite B, difterite e tetano (2017). A tutt’oggi, però, nessuna norma ha reso obbligatoria la vaccinazione contro il Covid-19; né avrebbe evidentemente potuto fino alla fine del 2020, avendo il vaccino stesso incominciato a essere disponibile soltanto dall’inizio del 2021, e ancora in quantità assai limitate.

Così stando le cose, la questione che incomincia a porsi è se, pur in assenza di una legge che la renda obbligatoria, e finché duri la pandemia da Covid-19, sia consentito a un imprenditore richiedere la relativa vaccinazione come misura di sicurezza ai propri dipendenti che abbiano l’effettiva possibilità di sottoporvisi. In altre parole, se il vincolo non specificamente previsto da una legge per la generalità delle persone possa – senza che sia violato l’art. 32 Cost. – essere attivato a carico di alcune di esse per effetto del contratto di lavoro (ma anche, eventualmente, per effetto di un contratto diverso: di trasporto, di ristorazione, o di altro genere) di cui esse siano titolari.

È mia opinione che al quesito possa darsi risposta positiva; il che non implica necessariamente che la via dell’imposizione sia sempre la più opportuna sul piano pratico (su questo punto tornerò in sede di conclusioni). L’opinione è fondata su alcune norme che disciplinano il contratto di lavoro: due di carattere generale, che obbligano rispettivamente il datore e il prestatore di lavoro a realizzare le condizioni di massima sicurezza e igiene in azienda a beneficio di tutti coloro che in essa lavorano, e una di carattere specifico riferita all’ eventuale necessità di una vaccinazione. Ma prima di esaminare il contenuto delle tre norme occorre chiarire l’affermazione secondo cui l’autonomia negoziale privata può disporre di diritti della persona protetti da una riserva di legge.

  1. La intrinseca disponibilità dei diritti assoluti della persona

È un errore assai diffuso quello di pensare che i diritti assoluti della persona siano, in quanto tali, invariabilmente sottratti all’autonomia negoziale della persona stessa. In alcuni casi lo sono: per esempio, il diritto all’integrità corporale è protetto da un divieto di atti di disposizione (che soffre la sola eccezione della possibilità della donazione di un organo ad altro soggetto). Ma nella maggior parte dei casi la possibilità per la persona di compiere atti di disposizione di un proprio diritto assoluto fa parte dell’essenza stessa di quel diritto, il quale altrimenti si trasformerebbe in una camicia di Nesso soffocante per il suo titolare.

Consideriamo, per esempio, la protezione della riservatezza, intesa come l’insieme dei diritti all’immagine, all’inviolabilità del domicilio, a essere lasciati soli, alla non conoscibilità delle proprie vicende personali, che l’ordinamento attribuisce a ogni persona. Se non fosse consentito a quest’ultima di disporre di ciascuno di questi diritti, non solo col comportamento di tutti i giorni ma anche mediante atti di autonomia negoziale, il diritto alla riservatezza diventerebbe una campana di vetro insopportabile, incompatibile con l’esercizio di altre prerogative essenziali della persona stessa: a questa sarebbe impedito, infatti, di ricevere persone a casa propria, di cedere in locazione la propria abitazione o parte di essa, di pubblicare la propria corrispondenza, di trarre profitto dalla cessione a terzi del diritto di utilizzazione della propria immagine, e così via.

Proprio il contratto di lavoro costituisce un esempio evidente della disponibilità di diritti personalissimi (cfr. in proposito ultimamente A. Sartori, 2020, passim, e ivi anche la mia prefazione): con esso, infatti, chi vive del proprio lavoro accetta la limitazione della propria libertà e del right to be let alone che inevitabilmente deriva dal “contatto contrattuale”, oggetto essenziale della pattuizione. Impegnandosi nello stretto “contatto” tipicamente proprio di questa relazione contrattuale, ogni persona accetta non solo la ovvia limitazione della propria libertà di movimento, ma anche la possibilità di indagini dell’imprenditore sulle proprie attitudini e i propri precedenti professionali, la possibilità di essere sottoposta a visita medica domiciliare dal servizio ispettivo competente, e così via. Allo stesso modo chi vive del proprio lavoro accetta la possibilità che – pur in assenza di alcuna norma legislativa da cui derivi l’obbligo di una determinata vaccinazione per tutti – gli si chieda di vaccinarsi, perché il contratto gli impone di rispettare le direttive, purché rispondenti al requisito fondamentale della ragionevolezza, impartite dal datore di lavoro circa le misure di protezione (su questo punto torneremo nei paragrafi che seguono).

A ben vedere, ciò che accade in attuazione del contratto di lavoro, per questo aspetto, non è diverso da ciò che accade in attuazione di qualsiasi contratto diverso che implichi uno stretto contatto tra le parti o tra una di esse e persone terze: per esempio quello di trasporto, nel quale il vettore – obbligato a garantire la massima sicurezza di tutti i viaggiatori – condizioni l’accesso all’aereo o alla carrozza ferroviaria all’esibizione di un certificato di vaccinazione.

  1. L’obbligo generale di sicurezza a carico del datore e del prestatore di lavoro

L’articolo 2087 del Codice civile obbliga l’imprenditore, pubblico o privato, ad adottare “le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”. Occorre dunque chiedersi se, in una situazione di pandemia da Covid-19, una fabbrica o un ufficio nel quale tutti siano vaccinati contro questo virus realizzi condizioni di sicurezza contro il rischio dell’infezione apprezzabilmente maggiore, rispetto alla fabbrica o ufficio nel quale una parte dei dipendenti non sia vaccinata. Se le indicazioni della scienza medica sono univocamente nel senso della risposta positiva, l’imprenditore ben può, in ottemperanza all’articolo 2087, a seguito di attenta valutazione del rischio specifico nella propria azienda, richiedere a tutti i propri dipendenti la vaccinazione, dove questa sia per essi concretamente possibile. Né gli interessati potranno opporre alla richiesta di un certificato di vaccinazione il divieto di indagini di cui all’art. 8 St. lav. (in questo senso v. invece G. Benincasa, G. Piglialarmi, 2020; G. Falasca 2021), dal momento che l’essersi sottoposti alla misura protettiva diventa, per effetto del contratto di lavoro, un dato rilevante circa la loro prontezza ad adempiere correttamente.

Questo modo di attuazione da parte dell’imprenditore del programma contrattuale potrebbe essere escluso se esso si ponesse in contrasto con norme di ordine pubblico, o fosse comunque funzionale a interessi non meritevoli di tutela nell’ordinamento; ma nelle circostanze presenti esso invece si pone perfettamente in linea con direttive generali di sanità pubblica condivise dalla comunità scientifica, dal Governo e dalle autorità sanitarie competenti: si tratta dunque di un modo di attuazione del rapporto contrattuale ragionevole e come tale meritevole di tutela nell’ordinamento.

Si obietta che le autorità sanitarie competenti hanno autorizzato la vaccinazione ancora soltanto in via provvisoria, essendone ancora sconosciuti gli effetti a medio e lungo termine. È però anche vero che questa autorizzazione è stata data in tempi eccezionalmente brevi – pur nel rispetto di tutti i protocolli medico-scientifici del caso – proprio per la ritenuta urgenza di una vaccinazione di massa su scala planetaria, sulla base di un confronto tra l’entità e gravità degli eventuali effetti collaterali dell’inoculazione del vaccino e l’entità e gravità estrema (che si misura in Italia in centinaia di morti ogni giorno) dei danni certi derivanti dalla pandemia in atto. Se dunque è del tutto ragionevole il rilascio accelerato dell’autorizzazione da parte delle autorità competenti, non può non ritenersi ragionevole anche l’adozione di questa misura da parte del titolare di un’azienda.

Un’altra obiezione che viene mossa alla tesi qui sostenuta è quella secondo cui, in materia di prevenzione del contagio da Covid-19, il contenuto concreto dell’obbligo di sicurezza dell’imprenditore sarebbe stato, per così dire, cristallizzato dalla norma contenuta nell’art. 29-bis d.-l. n. 23/2020 – c.d. Decreto Liquidità –, come convertito con la l. n. 40/2020, che rinvia al contenuto dei protocolli convenuti tra il Governo e le parti sociali (v. per tutti in questo senso G. Benincasa, G. Piglialarmi, 2020; G. Falasca, 2021). Ma l’epoca in cui la norma è stata emanata, nella quale vaccinarsi non era ancora possibile e non era neppure prevedibile quando e con quali modalità lo sarebbe stato, impedisce di dedurre dalla norma stessa l’esclusione della vaccinazione dal novero delle misure attivabili oggi dall’imprenditore per la prevenzione del contagio. E sappiamo come l’art. 2087 c.c. sia una “norma aperta” proprio nel senso che l’obbligo di sicurezza in esso contenuto si arricchisce di contenuti concreti via via che la scienza e la tecnica mettono a disposizione nuove misure efficaci.

Per altro verso, l’articolo 20 del Testo Unico sulla sicurezza negli ambienti di lavoro (d. lgs. n. 81/2008) testualmente recita: “Ogni lavoratore deve prendersi cura della propria salute e sicurezza e di quella delle altre persone presenti sul luogo di lavoro, su cui ricadono gli effetti delle sue azioni o omissioni, conformemente alla sua formazione, alle istruzioni e ai mezzi forniti dal datore di lavoro” (corsivi miei). Donde la conferma che le direttive impartite dal datore di lavoro in materia di sicurezza e igiene dell’ambiente di lavoro, se ragionevoli (cioè conformi alle indicazioni che si traggono da scienza ed esperienza), contribuiscono a determinare il contenuto dell’obbligazione contrattuale del dipendente, anche quando da esse deriva un obbligo non specificamente previsto dalla legge, né comunque imposto alla generalità dei cittadini.

  1. L’obbligo di attivare le vaccinazioni necessarie, secondo il Testo Unico per la sicurezza

L’altra norma direttamente rilevante in questa materia è l’articolo 279 dello stesso Testo Unico, che prevede in modo più specifico l’obbligo per l’imprenditore di richiedere la vaccinazione del dipendente. La previsione è bensì riferita al rischio di infezione derivante da un “agente biologico presente nella lavorazione” (c. m.); tuttavia, se l’obbligo è esplicitamente previsto dalla legge per questo rischio specifico, è ragionevole ritenere che lo stesso obbligo gravi sull’imprenditore per la prevenzione di un rischio di infezione derivante da un virus altamente contagioso, del quale può essere portatrice una qualsiasi delle diverse persone contemporaneamente presenti nello spazio aziendale chiuso nel quale l’attività lavorativa è destinata a svolgersi (nello stesso senso R. Guariniello, 2020).

A questa applicazione estensiva dell’art. 279 del Testo Unico si obietta che le norme protettive in materia di sicurezza e igiene del lavoro “sono pensate per prevenire i rischi derivanti dal luogo di lavoro” e non i rischi provenienti dall’esterno (così G. Benincasa e G. Piglialarmi, 2020; nello stesso senso G. Pellacani, 2020; G. Falasca, 2021). Ma per superare questa obiezione è sufficiente considerare che l’imprenditore, nell’esercizio del suo potere organizzativo, è tenuto a valutare e prevenire anche rischi provenienti da agenti provenienti dall’esterno dell’azienda, come per esempio gli agenti atmosferici cui i dipendenti possono essere esposti nello svolgimento della prestazione, i comportamenti imprudenti o addirittura dolosi di terzi – si pensi alla responsabilità dell’istituto bancario per il rischio di rapina –, o gli agenti patogeni di cui possa essere portatore un utente del servizio o un fornitore. A questo proposito si osservi, peraltro, che il rischio dell’infezione da Covid-19, a differenza degli altri rischi di contrarre malattie infettive, è stato qualificato dalla legge come rischio di infortunio sul lavoro (art. 42, c. 2, d.-l. n. 18/2020, convertito con l. n. 27/2020) proprio in considerazione dell’elevatissima contagiosità e diffusione del virus che causa questa grave malattia e dell’alta probabilità che in un ambiente chiuso anche una sola persona portatrice del virus lo trasmetta ad altre: con questa norma il legislatore ha, in sostanza, considerato il fatto stesso di lavorare in un’azienda insieme ad altre persone come causa tipica del rischio di infezione da Covid-19. Che è quanto basta perché di questo rischio il datore di lavoro debba farsi pienamente carico.

Per altro verso, in molti casi grava sullo stesso datore di lavoro un rilevante dovere di sicurezza anche nei confronti dell’utente del servizio: dovere nell’adempimento del quale non può certo distinguersi se il rischio derivi da un fattore o agente patogeno proveniente “dall’interno” o “dall’esterno” dell’organizzazione. Questo è particolarmente evidente nel caso di un ospedale o casa di cura: se la direzione aziendale non richiede la vaccinazione ai propri medici e infermieri (cui pure sia data la possibilità di vaccinarsi) e dall’omissione deriva la malattia di una persona, dipendente o paziente, l’azienda ne è evidentemente responsabile, allo stesso modo in cui lo sarebbe se il danno fosse derivato dal mancato rispetto di una qualsiasi altra misura di sicurezza specificamente suggerita dalla scienza, dalla tecnica e/o dall’esperienza per l’esercizio delle attività medico-sanitarie.

Si osservi, a questo proposito, che la sostanza del discorso non cambia se, invece che a un ospedale o casa di cura, esso è riferito a un’impresa alberghiera, di ristorazione, o di trasporto, dove gli utenti esposti al rischio del contagio, invece che pazienti, sono avventori o viaggiatori. Ma non cambia neppure se si riferisce a un’impresa manifatturiera: anche in questo caso, in presenza di un rischio ben conosciuto, qualificato esplicitamente dalla legge – come si è visto – come rischio da lavoro tipico, cioè rischio cui è tipicamente esposto chiunque lavori in un’azienda insieme ad altre persone, la responsabilità del datore di lavoro per la sicurezza di ciascuno dei dipendenti è la stessa che grava sul titolare dell’ospedale, della casa di cura, dell’albergo, o del servizio di trasporto.

I sostenitori della tesi secondo cui il datore di lavoro non potrebbe, in linea generale, richiedere ai dipendenti la vaccinazione anti-Covid ammettono che la vaccinazione possa essere invece richiesta ai medici e infermieri di un ospedale o casa di cura (v. per tutti G. Pellacani, 2020; G. Falasca, 2021); ma non spiegano in che cosa si differenzi la responsabilità del titolare di ospedale o casa di cura nei confronti dei dipendenti o dei terzi rispetto alla responsabilità del titolare di qualsiasi altra impresa: la particolare intensità del rischio di contagio da contatto tra persone nel luogo di degenza e/o cura non toglie che un rischio della stessa natura – forse meno intenso per il meno diretto contatto tra le persone, ma pur sempre molto elevato nel caso del Covid-19 e in particolare delle sue mutazioni più recenti – sussista anche in un albergo, in un luogo di ristorazione, in un centro commerciale e in qualsiasi altra azienda nella quale diverse persone operino continuativamente ed entrino in contatto fra di loro in un ambiente chiuso. La severità della giurisprudenza consolidatasi nell’ultimo trentennio in materia di responsabilità dell’imprenditore per la sicurezza e igiene degli ambienti di lavoro non sembra lasciare dubbi al riguardo (v. in questo senso G. Cazzola, 2021).

Un’altra obiezione che viene mossa alla lettura estensiva dell’art. 279 è quella secondo cui anche la persona vaccinata può essere portatrice sana del Covid-19 (v. ultimamente Falasca, 2021). Questa obiezione è facilmente superabile se si osserva che il rischio di contagio, nel caso della persona portatrice del virus ma non colpita dall’infezione, è molto inferiore rispetto al caso della persona che sta incubando la malattia; e la vaccinazione ha proprio l’effetto di impedire l’incubazione (AIFA, 2020, § 11). Finché dura la pandemia, certo, anche le persone vaccinate dovranno continuare a rispettare le misure di prevenzione fin qui praticate, come quelle di indossare la mascherina e di mantenere la distanza prescritta dalle altre persone. Ma, nella misura in cui sarà efficace contro l’infezione, la vaccinazione sarà comunque un rilevantissimo fattore di sicurezza aggiuntivo; e come tale il datore di lavoro avrà il dovere, dove possibile, di applicarla.

  1. Il possibile motivo ragionevole di rifiuto della vaccinazione

L’ammissibilità della disposizione aziendale che richiede la vaccinazione, in una situazione in cui questa sia concretamente possibile per il lavoratore, non significa che la persona interessata non possa ragionevolmente opporre un impedimento di natura medico-sanitaria.

Potrebbe essere addotta, per esempio, una condizione personale di immunodeficienza (per i tipi di vaccino tradizionali), o altra patologia che sconsigli la vaccinazione, oppure lo stato di gravidanza (in relazione al quale permane una controindicazione prudenziale da parte delle autorità competenti). In questo caso la Direzione aziendale dovrà adottare, in accordo con il medico competente e con gli altri organi preposti alla sicurezza del lavoro, misure appropriate per consentire comunque lo svolgimento della prestazione nella condizione della massima possibile sicurezza: per esempio collocando la persona interessata in una postazione isolata e non a contatto con utenti o fornitori, e ciò anche eventualmente riducendo il contenuto professionale delle mansioni. Oppure, dove la natura della prestazione lo consenta, autorizzando la persona interessata a svolgerla dal luogo di abitazione fino alla fine della pandemia. Dove nessuna di queste soluzioni sia ragionevolmente praticabile, può rendersi necessaria la sospensione della prestazione a norma dell’art. 2110 c.c., oppure se possibile con attivazione dell’integrazione salariale, fino alla fine della pandemia.

Può costituire motivo ragionevole di rifiuto della vaccinazione la preoccupazione per i suoi possibili effetti indesiderati? A me pare di no, dal momento che il compito di valutare la sicurezza dei vaccini, come di qualsiasi altra misura di protezione della salute, è affidato dall’ordinamento a presidi sanitari specialistici, che fino a prova contraria si deve supporre svolgano la funzione affidata loro in modo appropriato e rigoroso. Come non è consentito a un muratore rifiutare le attrezzature e gli indumenti di sicurezza assegnatigli dall’azienda sostenendo che, a suo giudizio, essi sono inutili o addirittura lo espongono a un maggior pericolo (la giurisprudenza sul punto è del tutto consolidata), allo stesso modo non può essere consentito all’infermiere, al medico, o all’operatore sanitario di rifiutare la vaccinazione perché non si fida del controllo compiuto dagli organi competenti. E se questa obiezione non è consentita agli addetti al servizio sanitario, ancor meno essa può essere consentita al quivis de populo, che di medicina non ha neppure un’infarinatura.

D’altra parte, vale in proposito una considerazione ineccepibile, che chiude il discorso su questo punto: salvi i casi, di cui sopra si è fatto cenno, concernenti controindicazioni mediche precise riferite alle condizioni di salute della singola persona interessata, i rischi derivanti dalla mancata vaccinazione, per la persona renitente come per chi con essa entri in contatto, sono sicuramente molto più gravi dei rischi connessi con l’inoculazione del vaccino. Tanto basta perché il datore di lavoro non accolga l’obiezione dei renitenti alla vaccinazione che pretende di far leva sul principio di precauzione.

  1. Le conseguenze possibili del rifiuto ingiustificato della vaccinazione oggetto di un obbligo contrattuale

Si pone infine la questione del modo in cui il datore di lavoro può far fronte al rifiuto opposto da un dipendente alla richiesta della vaccinazione, non giustificato da un comprovato impedimento personale di natura medico-sanitaria: eventualità che, in Italia come nella totalità dei Paesi occidentali, si prevede sia destinata a presentarsi mediamente intorno al 20 o 25 per cento dei casi (J.V. Lazarus et al., 2020). Proprio questa alta incidenza percentuale della renitenza induce a consigliare di affrontare la questione puntando prioritariamente sul positivo coinvolgimento dei rappresentanti sindacali, sugli incentivi economici o di altro genere e sull’opera di convincimento svolta in modo capillare (v. in proposito il nudging approach suggerito dallo studio CM Murray, 2021). Può accadere, tuttavia, che all’esito di questo approccio soft residui qualche caso di rifiuto irriducibile, che renda ineludibile la questione giuridica oggetto di queste note.

Se, sulla base di tutto quanto esposto sopra, in una situazione di perdurante pandemia si riconosce la legittimità della scelta del datore di richiedere ai propri dipendenti la vaccinazione contro il Covid-19 (in ipotesi concretamente disponibile), si deve riconoscere che la renitenza del dipendente alla vaccinazione è in astratto suscettibile di essere trattata allo stesso modo del rifiuto di una qualsiasi altra misura di sicurezza, che nei casi più gravi può portare al licenziamento disciplinare. Senonché è ragionevole ritenere che l’intensità del dibattito politico in corso negli ultimi anni sull’obbligo delle vaccinazioni in generale, e su quello della vaccinazione contro il Covid-19 in particolare, possa avere un’incidenza sull’elemento psicologico indispensabile per il configurarsi della mancanza disciplinare grave: donde un’indicazione nel senso della preferibilità della qualificazione, semmai, della renitenza alla vaccinazione come impedimento di carattere oggettivo alla prosecuzione della prestazione, piuttosto che come mancanza disciplinare.

In questa ottica, se la natura della prestazione non consente lo svolgimento da remoto, e non è disponibile una posizione di lavoro – anche di contenuto professionale inferiore – che consenta l’isolamento rispetto agli altri dipendenti, fornitori e utenti, alla persona ingiustificatamente renitente potrà prospettarsi la sospensione dal lavoro fino a che la pandemia non sia cessata: sospensione che in questo caso, a differenza del caso di rifiuto giustificato da impedimento di natura medica, non comporterà il diritto al trattamento economico.

Dove anche questa soluzione non sia praticabile, per l’impossibilità della sostituzione temporanea, a mio avviso non può escludersi in linea di principio il licenziamento per motivo oggettivo (nello stesso senso ultimamente A. Rossi, 2021; nello stesso senso, in riferimento all’ordinamento britannico, ma con rilevanti e per nulla trascurabili caveat, CM Murray, 2021), salvo il rispetto del blocco in atto fino alla fine di marzo 2021. Tuttavia, considerato il prevalere degli orientamenti contrari che al momento si registrano in dottrina su questo punto, sul piano pratico, quando ogni altro tentativo di risolvere la questione abbia dato esito insoddisfacente, appare consigliabile il provvedimento della sospensione senza retribuzione anche quando la sostituzione temporanea sia notevolmente costosa o addirittura impossibile. 

  1. Considerazioni di sintesi e osservazioni conclusive

Per riassumere, in questo scritto sostengo la tesi secondo cui, nonostante la riserva di legge posta dalla Costituzione, il datore di lavoro può esigere dai dipendenti la vaccinazione contro il Covid-19 quando essa sia concretamente possibile, sulla base di tre argomenti essenziali:

– come quasi tutti i diritti assoluti della persona, anche la libertà di sottoporsi o no alla vaccinazione antiCovid-19 è suscettibile di limitazione di fonte contrattuale, pur in assenza di una legge che disciplini specificamente la materia; dunque un dovere di vaccinarsi e/o di dotarsi della relativa certificazione può legittimamente derivare non soltanto dal contratto di lavoro, bensì anche da quello di trasporto, o di albergo, o di ristorazione, così come dal quasi-contratto che tacitamente si instaura tra un centro commerciale e chi entra nei suoi locali (§ 2);

– la comunità scientifica internazionale è concorde circa la necessità urgente di combattere la pandemia da Covid-19 mediante la vaccinazione di massa, considerando molto più gravi i rischi derivanti dal perdurare della pandemia stessa che quelli di eventuali effetti indesiderati dell’inoculazione del vaccino; le autorità sanitarie competenti e il Governo condividono l’auspicio che la vaccinazione di massa possa avvenire al più presto e con il massimo possibile di estensione (§ 3);

– quando anche il singolo datore di lavoro, in relazione alle caratteristiche dell’organizzazione del lavoro nella propria azienda, ravvisi nella vaccinazione contro il Covid-19 una misura utile per ridurre apprezzabilmente il rischio specifico di trasmissione dell’infezione a causa del contatto tra le persone in seno all’azienda, egli ha il potere/dovere contrattuale – e non solo – di adottare questa misura, consigliata dalla scienza e dall’esperienza, ed esigerne il rispetto da parte dei dipendenti come parte dell’obbligazione contrattuale gravante su di loro (§§ 3 e 4), salvo il caso di un motivo giustificato che sconsigli a una determinata persona di sottoporvisi (§ 5).

Nel caso di rifiuto oggettivamente ingiustificato della vaccinazione, ritengo che sia sconsigliabile applicare la sanzione del licenziamento disciplinare, considerata la possibilità che venga contestata la sussistenza dell’elemento psicologico necessario ai fini della configurabilità della mancanza grave (§ 6). E anche rispetto al licenziamento per giustificato motivo oggettivo, quando sarà cessato il relativo divieto congiunturale oggi in vigore, considero soluzione migliore dove possibile la sospensione della prestazione fino alla fine della pandemia, salvo ovviamente che siano possibili soluzioni organizzative diverse, anche in considerazione dell’effetto controproducente che potrebbe avere l’adozione di una politica aziendale più minacciosa (ancora § 6).

Con questo si reintroduce un obbligo generale di vaccinazione che la legge non prevede? No. I renitenti potranno continuare a non vaccinarsi. Ma potrà essere loro inibito di accedere a un ambiente di lavoro nel quale la loro presenza sia considerata fonte di un maggior rischio per la salute altrui. Lo stesso discorso vale in relazione ad altri rapporti contrattuali, quali quello di trasporto, di albergo, o di ristorazione, o in relazione all’accesso a spazi aperti al pubblico, come supermercati o sale per spettacoli, dove la riserva di legge di cui all’articolo 32 Cost. non vieta affatto che venga richiesto, come nell’ambito di qualsiasi altro rapporto di diritto privato, un certificato di vaccinazione (in questo senso anche L. Oliveri, 2020, in adesione all’opinione da me espressa su lavoce.info lo stesso giorno). Anche senza che venga emanata una legge ad hoc, opportuna ma non indispensabile, ben possono dunque essere i rapporti contrattuali privatistici a sostenere la diffusione della copertura vaccinale, perché dove sia a rischio la salute delle persone il contratto può ragionevolmente prevedere questa misura di protezione, là dove essa sia concretamente praticabile.

Un’ultima considerazione: questo modo di interpretare e applicare l’art. 32 Cost. in riferimento all’obbligo di vaccinazione contro il Covid-19 mi sembra il solo che possa logicamente conciliarsi con il modo in cui la stessa norma costituzionale è stata pacificamente interpretata e applicata nell’arco di tutto l’ultimo anno e fino a oggi. In funzione del contrasto alla pandemia, nel corso del 2020, abbiamo sopportato a più riprese senza colpo ferire una sorta di “trattamento sanitario obbligatorio” che ha comportato una limitazione dei nostri diritti costituzionali di libera circolazione, di associazione, di manifestazione del pensiero, e altri ancora, in una misura senza precedenti nella storia del Paese; tutto ciò non per legge, ma per disposizione di un decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri. Abbiamo accettato questo vero e proprio cataclisma giuridico-costituzionale perché ci siamo resi conto che era un modo ragionevole, in quanto proporzionato all’enormità della minaccia a cui la collettività era esposta, per far fronte a quella minaccia. Così stando le cose, come si può ragionevolmente considerare illegittimo (addirittura contrario alla Costituzione) il comportamento di un datore di lavoro che, nell’esercizio di un potere/dovere attribuitogli dal contratto, recepisce le indicazioni provenienti dalla comunità scientifica circa l’utilità della vaccinazione come misura di protezione individuale e collettiva nell’azienda, richiedendo ai propri dipendenti di sottoporvisi?

Certo, sarebbe in astratto auspicabile che anche il legislatore si assumesse fino in fondo le sue responsabilità a questo proposito (A. Tarzia, 2020). Se, però, per ragioni squisitamente politiche (ivi compresa la presenza di un cospicuo numero di parlamentari no-vax sia in seno alla maggioranza, sia in seno all’opposizione) il legislatore ritiene più opportuno non imporre un obbligo di vaccinazione in tutti i casi in cui essa è possibile, preferendo una politica mirata alla persuasione, questo nulla toglie al fatto che la scienza e l’esperienza indicano la vaccinazione di massa come la misura più efficace contro la pandemia, con rischi molto inferiori rispetto a quelli derivanti dalla rinuncia alla vaccinazione stessa. L’inerzia del legislatore nulla toglie, dunque, alla ragionevolissima possibilità che un dovere di vaccinazione nasca da un contratto tra soggetti privati.

 

Bibliografia

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Benincasa, G. Piglialarmi, Covid-19 e obbligo giuridico del vaccino per il dipendente: sono più i dubbi che le certezze, nel sito del Bollettino Adapt, serie The future of EOSH, n. 10, 30 dicembre 2020;

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Sartori, Il controllo tecnologico sui lavoratori, Giappichelli, Torino, 2020, con mia prefazione, Il diavolo e l’acqua santa.

Scarpelli, Rifiuto del vaccino e licenziamento: andiamoci piano!, intervento su Linkedin, 29 dicembre 2020;

Tarzia, Vaccino anti Covid e facoltà datoriali, in Bollettino ADAPT, 21 dicembre 2020, n. 47.

 

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