USCIRE DAL REGIME DI APARTHEID

SULLA FORMAZIONE PROFESSIONALE DEI LAVORATORI DI SERIE B, C E D NESSUNO E’ DISPOSTO A INVESTIRE: RISCHIAMO DI PERDERE UN’INTERA GENERAZIONE

Intervista a cura di Marzio Fatucchi, pubblicata sul Corriere fiorentino del 7 dicembre 2010

A Firenze, 350 lavoratori di «Opera», la società che ha vinto l’appalto per i servizi di bookshop, vigilanza e prenotazione-biglietteria degli Uffizi, rischiano di trovarsi da un giorno all’altro senza lavoro: è in corso il bando, non ci sono clausole sociali nel loro contratto (in questo caso, del commercio).

Pietro Ichino, giuslavorista e deputato Pd: come è possibile che si faccia un bando di gara senza tener minimamente conto di questo aspetto?
Non solo è possibile: questa è la regola del nostro sistema. Lo si chiama “mercato del lavoro duale”, proprio perché si basa su di un regime di vero e proprio apartheid tra lavoratori protetti e lavoratori poco o per niente protetti. Mentre questi ultimi portano tutto il peso della flessibilità di cui il sistema ha bisogno, i primi godono — soprattutto nel settore pubblico — di una sorta di regime di job property, (cioè quasi un diritto di proprietà sul posto di lavoro, ndr) che talvolta genera anche posizioni di rendita.

Lo stesso problema si vede sempre di più in altri settori, considerati da sempre a tutti gli effetti lavori «pubblici». Basti pensare alla scuola (gli ex bidelli), persino alle aziende dei servizi pubblici (il gas). È stata una scelta consapevole o è stata la politica ormai scollegata alla realtà, alla vita delle persone?
È difficile sostenere che i policy makers non ne siano consapevoli. Questo regime di apartheid è studiato approfonditamente dagli economisti e dai sociologi del lavoro da almeno un quarto di secolo: la cosiddetta teoria insider/outsider è dei primi anni ’80. E poi, oggi è sotto gli occhi di tutti il fatto che il costo della grande crisi economica dell’ultimo biennio l’ha pagato quasi interamente la metà dei lavoratori di serie B, C o D: gli 800 mila che hanno perso il posto sono quasi tutti titolari di contratti a termine, dipendenti di piccole imprese e cooperative appaltatrici di servizi, lavoratori a progetto, collaboratori autonomi, falsi “liberi professionisti” con partita Iva che lavoravano continuativamente per un unico committente a 800 o mille euro al mese.

Aziende e associazioni di categoria (anche la Confesercenti) di fronte alla crisi, hanno chiesto maggiore flessibilità: ma può essere una risposta alla crisi?
Certo che può esserlo. A condizione che da qui in avanti il peso della flessibilità sia ripartito equamente; e che a tutti i nuovi assunti sia garantito ciò che oggi la maggior parte dei lavoratori italiani non vede neanche da lontano: cioè la sicurezza nel mercato del lavoro. La sicurezza che è data da un buon sostegno del reddito in caso di perdita del lavoro e da servizi efficienti di assistenza nella ricerca della nuova occupazione e di riqualificazione mirata a sbocchi realmente esistenti.

Un elemento tipico di altri sistemi di welfare, come quello anglosassone. Ma si tiene in scarso conto la ricaduta sociale della flessibilità; e c’è un evidente ritardo della politica a pensare ad un nuovo welfare per i meno tutelati.
Però è “politica” anche il “progetto Flexsecurity” contenuto nel disegno di legge 1873/2009, che ho presentato nel novembre del 2009 con altri 54 senatori: un progetto che mira proprio a superare questo apartheid. Non si toglie nulla a chi oggi lavora in posizioni di “serie A”; ma si ridisegna il diritto del lavoro e il sistema di sicurezza nel mercato per tutti coloro che verranno assunti da qui in avanti: tutti a tempo indeterminato, tutti protetti contro le discriminazioni, ma nessuno inamovibile; l’impresa può licenziare per motivi economici o organizzativi, ma deve assicurare a tutti i licenziati un trattamento complementare di disoccupazione e un servizio efficiente di outplacement.

Ma la politica italiana è in grado di fare questo passo rivoluzionario?
Tre settimane fa il Senato ha approvato a larghissima maggioranza — 255 voti a favore, 26 soli contrari — una mozione che impegna il governo a varare un nuovo testo unico delle norme sul lavoro ispirato proprio a quel mio disegno di legge. Ce ne sono dunque non solo le condizioni tecniche, ma anche quella politiche.

Durante la tre giorni fiorentina dei «rottamatori» del Partito democratico, alcuni economisti hanno proposto un’altra rivoluzione per i lavoratori atipici: pagare di più chi è flessibile rispetto a chi ha contratti a tempo indeterminato. Può essere una soluzione?
Finché ci saranno i lavoratori di serie A in regime di job property, ci saranno necessariamente anche i lavoratori di serie B, C e D, sui quali si scaricherà il peso della flessibilità necessaria al tessuto produttivo. Limitarsi ad aumentare il costo del lavoro di questi ultimi può produrre l’effetto-beffa di lasciarli non protetti e per di più ridurre le loro retribuzioni.

La nuova segretaria generale della Cgil, Susanna Camusso, riferendosi alle lotte delle tessili inglesi raccontate nel film We want sex, ha sostenuto che potrebbe nascere qualcosa di simile, una lotta «innovativa», proprio dai precari.
L’analogia tra le due situazioni mi sembra molto tenue. Anche perché non vedo alcun segno di un movimento di lotta dei lavoratori delle serie inferiori che possa paragonarsi alle lotte a cui pensa Susanna Camusso. La soluzione verrà soltanto dalla consapevolezza, da parte dell’intera società civile, dell’enorme spreco di capitale umano prodotto da questo assetto del mercato del lavoro: sulla formazione professionale dei lavoratori di serie B, C e D nessuno è disposto a investire. Rischiamo di perdere un’intera generazione.

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