UN WELFARE PER I LAVORATORI AUTONOMI DI SECONDA GENERAZIONE

IN MATERIA DI LAVORO AUTONOMO LA LEGISLAZIONE SOCIALE OGGI NON PUO’ PRESCINDERE DA UNA DISTINZIONE TRA CHI OPERA DAVVERO COME LIBERO PROFESSIONISTA E CHI INVECE OPERA IN UNA POSIZIONE DI MONOCOMMITTENZA E BASSO REDDITO, QUINDI DI SOSTANZIALE DIPENDENZA ECONOMICA DALL’AZIENDA CON CUI COLLABORA: I PROBLEMI DI PROTEZIONE SOCIALE SONO DIVERSI NEI DUE CASI

Intervista a cura di Andrea Telara, in corso di pubblicazione sul Giornale delle Partite Iva, gennaio 2011

Due disegni di legge e un confronto intenso con le associazioni di categoria, compresa Acta. E’ l’impegno degli ultimi due anni messo in campo da Pietro Ichino, noto giuslavorista e senatore del Partito Democratico, per rispondere ai problemi dei professionisti emergenti. Ichino è senza dubbio d’accordo con alcune rivendicazioni del Manifesto del lavoro autonomo di seconda generazione, ma avverte: sarebbe un errore creare per tutti i lavoratori autonomi lo stesso sistema di welfare: “Occorre distinguere tra i veri liberi professionisti e quelli che operano in condizioni di dipendenza economica”.

Nel manifesto di Acta, c’è però innanzitutto la richiesta di una riduzione delle aliquote pensionistiche. Cosa ne pensa?
Effettivamente, L’aliquota contributiva del 27% circa, prevista per gli iscritti alla gestione separata Inps a cui sono iscritti questi lavoratori, è indubbiamente elevata si giustifica solo per quelli che sono sostanzialmente equiparabili ai lavoratori subordinati, non per i veri liberi professionisti. Per questo, nel 2009 ho presentato due disegni di legge, il n. 1540 e il n. 1873, che prevedono una netta distinzione tra la disciplina applicabile ai “falsi autonomi”, cioè ai collaboratori che lavorano di fatto con un solo committente e guadagnano meno di 40.000 euro annui, e quella applicabile ai veri autonomi, cioè a tutti gli altri. Per questi ultimi, con il ddl. n. 1540 propongo di applicare lo stesso regime previdenziale vigente oggi per gli artigiani, in attesa di una riforma di carattere più generale.
Ma questa distinzione tra i veri e i “falsi” lavoratori autonomi, quelli che operano per un solo committente, è stata discussa e condivisa dalle parti interessate, oppure è frutto soltanto di una elaborazione teorica?
A dire il vero, i requisiti della monocommittenza sono già stati sperimentati in alcuni ordinamenti stranieri, per esempio in Spagna, per la delimitazione di alcune protezioni. Prima e dopo la presentazione dei miei due disegni di legge, si è discusso molto sul concetto di lavoro economicamente dipendente, sia con le associazioni dei lavoratori autonomi come Acta, sia con le maggiori confederazioni sindacali come Cgil Cisl e Uil.
Com’è andata?
I sindacati chiedevano che il limite di reddito annuo, per la definizione di lavoro economicamente dipendente, venisse fatto coincidere con il confine tra la retribuzione lorda di un quadro e quella di un dirigente di fascia bassa, cioè attorno ai 60.000 euro annui. Acta invece chiedeva di ridurlo a 24.000 euro.
Risultato?
Con gli altri firmatari dei disegni di legge ho concordato di porre il limite a 40.000 euro annui, più che altro per includere nell’area della dipendenza economica alcune importanti figure professionali che oggi vengono fatte passare scorrettamente come lavoratori autonomi. È il caso, per esempio, dei paramedici e dei medici di livello medio-basso, oppure di molti redattori e giornalisti che operano nelle case editrici.
Non è un po’ troppo alto il limite di 40.000 euro? Di solito un giovane che inizia un’attività di libero professionista guadagna molto meno…
Sì. Difatti, in entrambi i disegni di legge, sono previste delle eccezioni: per i primi due anni di attività, per esempio, il limite dei 40mila euro viene dimezzato. Di conseguenza, se un giovane inizia un’attività di libero professionista e guadagna fin dall’inizio circa 30.000 all’anno, viene considerato a tutti gli effetti un lavoratore autonomo che non necessita di protezioni simili a quelle di un dipendente; e questo anche se opera in regime di monocommittenza.
I lavoratori autonomi di nuova generazione avanzano un’altra richiesta importante: la riduzione della pressione fiscale. E’ d’accordo?
Su alcuni punti hanno indubbiamente ragione
Su quali?
Per esempio quando chiedono che l’acconto fiscale di novembre venga determinato con una percentuale inferiore rispetto a quella di oggi. Sarebbe un provvedimento giusto, per tenere conto delle possibili fluttuazioni del reddito annuale che, nel caso dei lavoratori autonomi di nuova generazione, sono molto più marcate rispetto ad altre categorie. Ma ritengo condivisibile anche la richiesta di detrarre dal reddito alcune importanti voci di costo, come quelle per la formazione e l’aggiornamento professionale.
I professionisti emergenti vorrebbero anche un migliore sistema di welfare, basato ad esempio su forme di assistenza sanitaria o sostegni alla maternità. Qual è la sua opinione in proposito?
Anche su questa materia deve valere la distinzione tra i lavoratori autonomi veri e quelli che si trovano in una posizione di sostanziale dipendenza. Per questi ultimi, dovrebbe essere garantito un sistema di welfare sostanzialmente equivalente, se non perfettamente uguale, a quello previsto per i lavoratori subordinati.
E per i veri lavoratori autonomi?
Anche a loro dovrebbero essere offerte alcune apprezzabili garanzie di sostegno al reddito in caso di maternità o di malattia. Ma sarebbe un errore estendere a questa categoria di lavoratori un sistema di protezione modellato su quello previsto per i dipendenti.
In definitiva, senatore Ichino, cosa ne pensa della crescita delle professioni emergenti? Rappresentano una risorsa per il sistema produttivo italiano, o sono un punto debole?
L’alto numero di nuove partite Iva non deve essere considerato in modo acritico: nell’ultimo decennio il suo aumento è in larga parte imputabile alla dissimulazione di rapporti di lavoro sostanzialmente dipendente. Prima della legge Biagi era più frequente che questa dissimulazione avvenisse nella forma della collaborazione coordinata e continuativa autonoma; ma da quando, nel 2003, quella legge ha posto delle regole più rigide per le collaborazioni continuative, la fuga dal diritto del lavoro ha preso quest’altra strada. Ciò non toglie che, invece, tra le nuove partite Iva ci siano anche molti “lavoratori autonomi di seconda generazione”, senza ordini o albi e senza casse di previdenza, le cui caratteristiche e i cui interessi sono poco conosciuti e poco studiati; e che invece devono incominciare a essere considerati dai policy makers per la peculiarità della loro posizione socio-economica e delle loro esigenze.

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