UNA VOCE DAL MERCATO DEL LAVORO DUALE

“IO VEDO IN UN MODELLO DI CONTRATTO UNICO LA SOLUZIONE POSSIBILE: PERCHÉ, PER LO STESSO LAVORO, DEVO AVERE UN TRATTAMENTO DIFFERENTE? L’OBIETTIVO CONDIVISO, COMUNQUE, NON PUÒ CHE ESSERE QUELLO DI PERVENIRE AD UN SISTEMA DI FLEXSECURITY

Lettera pervenuta a Michele Tiraboschi (e a me per conoscenza) l’8 aprile 2010 , pubblicata su l’Unità dell’11 aprile 2010 con una mia risposta.

Gentile dott. Tiraboschi,
sto seguendo con molto interesse il vivace dibattito tra Lei, il professor Ichino e gli economisti de La Voce. Non nego di essere idealmente affine ai suoi interlocutori più che a Lei, anche se trovo sensate e condivisibili molte delle Sue obiezioni (nonostante la sensazione che la proposta Ichino, a differenza di quella Boeri-Garibaldi, già le consideri e in qualche modo vi dia risposta).
Non sono un giuslavorista, quindi non entro ulteriormente nel merito delle questioni tecniche e giuridiche. Sono però un lavoratore a progetto, uno dei moltissimi laureati della mia generazione che hanno un’occupazione tramite questa forma contrattuale. Mi sento pertanto “parte in causa” del dibattito in corso ed è con riferimento alla mia situazione concreta (che è poi quella di molti altri divenuti maggiorenni più o meno nell’anno dell’approvazione della riforma Treu) che Le scrivo la presente.
Premetto di essere un co.co.pro. anomalo, come lo sono del resto quasi tutti i co.co.pro che conosco: sono più o meno all’ottavo contratto a progetto consecutivo, al quarto anno di lavoro presso la prestigiosa struttura privata presso la quale svolgo le mie attività con orario 9.30-18.30, 5 giorni a settimana, in maniera subordinata rispetto “al mio capo” e occupandomi contemporaneamente di una pluralità di progetti, solitamente diversi da quelli formalizzati nella lettera d’incarico.
Sono fermamente convinto che, quando tutto va bene, il contratto a progetto possa essere anche una discreta opportunità: soprattutto, ha ridotto le barriere d’ingresso, quindi ho potuto iniziare a lavorare senza selezioni particolarmente impegnative e dimostrando sul campo il mio valore e le mie capacità.
Ciò nonostante, in questi quattro anni ho vissuto da lavoratore di serie B. Non tanto per quel che facevo (lavoro esattamente analogo a quello dei dipendenti), quanto per una serie di altri fattori, economici e non solo:
1. se il netto mensile è paragonabile a quello che avrei da dipendente, non ho diritto né possibilità di contrattare buoni pasto, tredicesima, trattamento di fine rapporto, premi di produzione etc;
2. in una situazione difficile quale quella attuale, tutti noi “a progetto” siamo i lavoratori più vulnerabili. La Direzione non ha provveduto a nessun licenziamento (la cassa integrazione non è contemplata), ma in compenso ha drasticamente ridotto il numero di dipendenti a progetto (o meglio, di persone che lavoravano con quelli che, fino agli inizi della crisi, definivamo “contratti a rinnovo indeterminato”), semplicemente smettendo di rinnovare tali contratti. Il ridimensionamento subìto in due anni dalla struttura è impressionante. Eppure, proprio a causa delle differenze contrattuali, non ha finora seguito una logica razionale e meritocratica, non si è trasformato in un’opportunità per migliorare il funzionamento complessivo: è più facile e meno disdicevole non rinnovare un contratto, piuttosto che licenziare qualcuno; 3. la differenza è che i lavoratori con contratti non rinnovati sono finiti nella disoccupazione a zero euro, mentre i dipendenti (oltre al TFR) avrebbero avuto accesso ad ammortizzatori sociali decisamente più vantaggiosi;
4. tempo fa avevo inviato il mio curriculum ad un’azienda “concorrente”.
Sono stato immediatamente richiamato dal selezionatore risorse umane ed abbiamo parlato a lungo, fin quando m’ha chiesto “Quindi Lei è un dipendente…”. Inavvertitamente, avventatamente, ho risposto che “Beh, in realtà lavoro con un contratto a progetto..” La telefonata si è interrotta pochi secondi dopo e non ho più avuto sue notizie;
5. insieme a mia moglie (precaria più di me, anche lei laureata con 110 e lode, lei in un ambito d’eccellenza quale quello delle biotecnologie) paghiamo 1.000 euro al mese d’affitto, perché col contratto a progetto tutto posso fare fuorché pensare all’idea d’un mutuo. Le Poste italiane si son rifiutate di farmi una carta di credito, che pure mi serviva, perché avevo un contratto a progetto. Per un acquisto impegnativo ho recentemente chiesto al negoziante di poter ricorrere al credito al consumo, ma siccome il mio ennesimo contratto scade entro sei mesi non è stato possibile e ho dovuto pagare “tutto e subito”.
Che dirLe? La sensazione forte è che tutto il diritto del lavoro e il welfare di questo Paese siano tarati su un modello che non esiste, su un sistema fondato sull’industria manifatturiera di medio-grandi dimensioni.
Non è questa l’Italia. L’Italia è il Paese delle micro-imprese con meno di 10 dipendenti, è il Paese delle partite-iva e sempre più è il Paese dei contratti a progetto (ah, dimenticavo: durante il Governo Prodi hanno cercato di convertirci da parasubordinati a partite iva, ma ci siamo fermamente opposti: a tutto c’è un limite!).
Non so quale sia la soluzione. L’idea di denunciare il mio datore di lavoro non la prendo neanche in considerazione, ovviamente: non ho intenzione di rovinarmi la vita. Sperare nella sua benevolenza, in un’assunzione octroyée, è altrettanto fuori discussione. Essere veramente a progetto, lavorando per più committenti, non è fattibile. Per uscirne non mi resta che sperare in un’iniziativa legislativa. Una proposta che parta da una considerazione banale banale: per la maggioranza degli italiani l’articolo 18 non esiste, come non esiste la cassa integrazione, come non esistono i sindacati. Esiste solo la flessibilità, una flessibilità senza prospettive e senza tutele, che ci spinge a dare il massimo ma soltanto perché se mettiamo un piede in fallo rischiamo di cadere nel baratro.. e comunque il rischio che nonostante tutto qualcuno ci spinga giù è sempre attuale.
Io vedo in un modello di contratto unico la soluzione possibile. Però forse sono ingenuo e poco informato, magari esistono delle alternative (non lo so, non credo: perché, per lo stesso lavoro, devo avere un trattamento differente?). L’obiettivo condiviso, comunque, non può che essere quello di pervenire ad un sistema di flexsecurity. Per favore, lo chiedo a Lei, a Ichino e a tutti gli altri eredi di Biagi, di D’Antona e dei tanti giuslavoristi che hanno pagato con la vita e continuano a rischiare per migliorare un minimo il diritto del lavoro in questo Paese: sedetevi intorno a un tavolo, seppellite l’ascia di guerra e i pregiudizi ideologici e trovate un compromesso, una risposta ai problemi reali di quest’assurda Repubblica, che dovrebbe essere fondata sul lavoro.
                                                                                                                M.M.V.

 

 

 

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