LO SCIOPERO DEI CALCIATORI MILIONARI

BUON SENSO E CURA DEL RAPPORTO CON L’OPINIONE PUBBLICA DOVREBBERO INDURRE I CALCIATORI MILIONARI A NON ABUSARE DI UNA FORMA DI LOTTA DESTINATA ALL’EMANCIPAZIONE DEI LAVORATORI DEBOLI E SFRUTTATI

Intervista a cura di Luca Fornovo, pubblicata su la Stampa del 12 settembre 2010

“I calciatori super-pagati dovrebbero usare un po’ di buon senso e – tranne che in casi estremi – evitare di usare uno strumento nato per l’emancipazione dei lavoratori deboli e sfruttati. Così il calciatore rischia di danneggiare il suo rapporto con l’opinione pubblica». Il giuslavorista Pietro Ichino, docente ordinario di Diritto del lavoro nell’Università statale di Milano, interviene nella rivolta dei calciatori milionari in sciopero contro i club che vogliono cambiare le regole del contratto collettivo.

Professore è giusto che un calciatore milionario possa scioperare per il contratto?

«Lo sciopero è un’eccezione alla regola dell’adempimento contrattuale, che è riconosciuta al lavoratore dipendente per riequilibrare il suo rapporto di forza con l’imprenditore. Logica vorrebbe che, dove questo squilibrio non c’è, come nel caso degli alti dirigenti, o dei calciatori di serie A, questa eccezione cessasse di operare. Poiché la legge non fa questa distinzione, dovrebbe essere il buon senso a consigliare ai lavoratori privilegiati di non avvalersi di un’eccezione alla regola generale dell’adempimento regolare, nata per tutelare posizioni diverse dalla loro».

Perché il calciatore – che ha una forza contrattuale superiore a quella del suo datore di lavoro – può essere assimilato alla categoria dei lavoratori dipendenti?

«Perché la legge n. 91 del 1981 qualifica anche gli sportivi professionisti come lavoratori subordinati, quando il loro rapporto di lavoro abbia carattere continuativo. Quella legge detta per loro una disciplina per molti aspetti speciale, ma non limita l’esercizio da parte loro del diritto di sciopero».

Una lacuna da correggere?

«Negare drasticamente il diritto di sciopero ai calciatori sarebbe incostituzionale, anche perché tra gli sportivi professionisti non ci sono solo quelli di serie A, ma anche quelli di serie inferiori, e altre categorie di sportivi che sovente hanno retribuzioni molto più basse e un potere contrattuale minimo. D’altra parte, credo che la forza dello sciopero stia in larga parte nell’impegno etico e nella solidarietà che suscita nell’opinione pubblica. Un calciatore milionario che sciopera rischia di danneggiare il proprio rapporto con l’opinione pubblica, un elemento essenziale del suo patrimonio professionale».

I club vogliono aumentare la parte flessibile della retribuzione per collegarla meglio alla qualità delle prestazioni dei calciatori. Che ne pensa?

«In generale, osservo che in un rapporto di collaborazione continuativo la retribuzione fissa costituisce una sorta di polizza assicurativa per il lavoratore, perché sposta sull’imprenditore il rischio inerente alla produttività e redditività del rapporto. Come tutte le polizze, anche questa comporta di fatto un “premio” a carico del lavoratore subordinato: lo si misura dalla differenza di retribuzione media oraria, a parità di prestazione, tra il subordinato e l’autonomo, il cui reddito tipicamente varia a seconda dei risultati della prestazione».

Quindi i club intendono assimilare un po’ di più i rapporti di lavoro con i calciatori al lavoro autonomo?

«In un certo senso sì; e la cosa, nei limiti in cui viene proposta in questo caso, è sicuramente compatibile con la legge n. 91/1981».

 

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