CHE COSA TIENE BASSI I SALARI ITALIANI

PER APRIRE IL NOSTRO PAESE AGLI INVESTIMENTI STRANIERI, CHE PORTANO DOMANDA DI LAVORO E INNOVAZIONE, QUINDI ANCHE MIGLIORI CONDIZIONI DI LAVORO, OCCORRE CERTO CURARE I GRANDI DIFETTI STRUTTURALI DEL NOSTRO SISTEMA, DALLE AMMINISTRAZIONI PUBBLICHE ALLE INFRASTRUTTURE; MA AVREBBERO UN EFFETTO POSITIVO IMMEDIATO ANCHE UNA BUONA RIFORMA DEL SISTEMA DELLE RELAZIONI INDUSTRIALI CHE LE RENDESSE MENO INCONCLUDENTI E LA SOSTITUZIONE DI DUEMILA PAGINE DI LEGGI ILLEGGIBILI CON UN CODICE DEL LAVORO SEMPLIFICATO

Intervista a cura di Alessandro Da Rold pubblicata su Lettera 43.it il 27 Settembre 2010

Come si arriva a questi dati così sconfortanti per il mercato del lavoro italiano?
Che le retribuzioni dei lavoratori dipendenti italiani siano nettamente più basse rispetto a i nostri maggiori partner europei non è una novità: è noto da tempo.

Risulta anche a lei questa situazione?
Sì. Tra le cause metterei al primo posto la minore produttività del lavoro nelle aziende italiane: questo è il problema cruciale. Ma va considerato anche, sia pure in minore misura, il contenuto assicurativo più elevato, che caratterizza i contratti di lavoro subordinato italiani rispetto a quelli degli altri maggiori Paesi europei: in altre parole, i lavoratori italiani pagano un “premio assicurativo” implicito più alto, per una copertura assicurativa più estesa rispetto ai loro colleghi di oltr’Alpe.

C’è una responsabilità da parte delle politiche di governo di centrodestra e di centrosinistra degli ultimi dieci anni?
La responsabilità maggiore che imputo a entrambi gli schieramenti, nell’ultimo quarto di secolo, è quella della chiusura del nostro sistema agli investimenti stranieri, che potrebbero portare domanda aggiuntiva di lavoro e innovazione, la quale porta con sé aumento della produttività. Su questo terreno siamo il fanalino di coda in Europa: peggio di noi nell’ultimo decennio ha fatto soltanto la Grecia. E siamo distanziati di molte lunghezze anche dai Paesi che su questo terreno fanno registrare una performance media.

All’estero qual’è la situazione?
Negli altri maggiori Paesi europei non ci si limita a subire la parte “cattiva” della globalizzazione, cioè le delocalizzazioni e la concorrenza dei Paesi emergenti nella fascia professionale bassa del mercato del lavoro, ma si cerca in tutti i modi di beneficiare della parte buona: cioè della possibilità di attirare sul proprio territorio il meglio dell’imprenditoria mondiale e i suoi capitali.

Cosa bisogna fare per invertire questa tendenza?
Innanzitutto ridurre l’Irpef sui redditi di lavoro fino a 1000 euro al mese. Poi aprirci agli investimenti stranieri: se noi riuscissimo ad allinearci alla media europea, per capacità di attirarli, questo vorrebbe dire poter contare su decine di miliardi di investimenti in più sul nostro territorio ogni anno. A impedircelo stanno, certo, alcune nostre tare strutturali che richiederanno molti anni per essere eliminate: i difetti di funzionamento delle amministrazioni pubbliche, i difetti delle nostre infrastrutture, il costo troppo alto dei servizi alle imprese, dovuto a un difetto di concorrenza nei rispettivi mercati. Ma tra le cause principali della nostra pessima performance vanno individuate anche l’inconcludenza del nostro sistema delle relazioni industriali e l’illeggibilità e incomprensibilità per gli stranieri del nostro diritto del lavoro.

Quali provvedimenti dovrebbe adottare il governo?
Abbassare l’Irpef sui redditi di lavoro va fatto, anche se è difficile nel contesto attuale. Ma ci sono anche due riforme che non costerebbero nulla. Innanzitutto, dettare le regole necessarie perché la coalizione sindacale maggioritaria possa contrattare validamente in azienda un piano industriale innovativo, anche quando questo comporta una deroga rispetto al contratto collettivo nazionale: se il sistema delle relazioni industriali non riesce a darsi da solo queste regole, occorre che intervenga il legislatore, sia pure soltanto in via provvisoria e sussidiaria. Poi la semplificazione del diritto del lavoro. Un esempio di come entrambe le misure potrebbero essere formulate è costituito dai disegni di legge n. 1872 e 1873, che ho presentato nel novembre 2009 con altri 54 senatori: è un “Codice del lavoro” composto di soli 70 articoli, che può sostituire immediatamente 200 leggi oggi vigenti. Norme semplici, comprensibili per tutti i milioni di persone chiamate ad applicarle, e traducibili in inglese.

I sindacati hanno delle responsabilità su questa situazione?
E’ l’intero sistema delle relazioni sindacali che, per eccesso di centralismo e per paura delle innovazioni cattive, si è chiuso anche a quelle buone. In questo hanno una responsabilità i sindacati dei lavoratori, ma ne hanno anche le associazioni imprenditoriali e la Confindustria in particolare. Su questi temi ho trovato sovente resistenze e sordità maggiori nell’apparato confindustriale che in quello delle confederazioni sindacali maggiori, Cgil compresa.

Stampa questa pagina Stampa questa pagina

 

 
 
 
 

WP Theme restyle by Id-Lab