DISOCCUPAZIONE E LAVORO IRREGOLARE: DIAGNOSI E TERAPIE

E’ INDISPENSABILE RENDERE PIU’ FLUIDO IL NOSTRO MERCATO DEL LAVORO GARANTENDO LA MASSIMA SICUREZZA AI LAVORATORI NEL PASSAGGIO DALLE AZIENDE CHE CHIUDONO O RIDUCONO IL PERSONALE A QUELLE CHE NE HANNO BISOGNO – AL TEMPO STESSO APRIRE IL PAESE E SOPRATTUTTO IL MEZZOGIORNO AGLI INVESTIMENTI STRANIERI, CHE PORTANO DOMANDA AGGIUNTIVA DI LAVORO E INNOVAZIONE

Intervista a cura di Riccardo Casini pubblicata su Dossier, supplemento de il Giornale, il 29 marzo 2011

 Edizione della stessa intervista, marginalmente modificata, su Il Giornale – Dossier del 29 marzo 2011, in formato pdf

Secondo le ultime rilevazioni, la disoccupazione nell’area Ocse è all’8,5%. Il dato italiano (8,3%) è in linea, ma in aumento dello 0,2% rispetto ad agosto. È così?
Sì. Ma il dato italiano si può considerare in linea soltanto se non si computano tra i disoccupati tutti quei cassaintegrati a zero ore per i quali – e sono la maggior parte – in realtà vi è la certezza che non ci sarà ripresa del lavoro nella stessa azienda. Poi ci sono gli “scoraggiati”: tutti quelli che hanno perso il posto nella crisi e hanno rinunciato a cercarne uno nuovo. La Banca d’Italia ci avverte che, se contiamo anche tutti questi, il tasso di disoccupazione italiano sale all’11 per cento.

Su questo criterio di computo, però, il ministro Sacconi non è d’accordo.
Il ministro Tremonti, invece, su questo punto ha dato ragione al governatore Draghi.

Quali sono in Italia i settori più colpiti?

È difficile assegnare i disoccupati a un determinato settore produttivo: non è detto che chi ha perso il posto in un settore sia destinato a ritrovarlo in quello stesso settore. Ciò che si può dire è che il problema della disoccupazione in Italia nasce in larga parte proprio dalla nostra incapacità di assistere efficacemente i lavoratori nel passaggio dall’azienda che chiude o riduce gli organici a quella che ha bisogno di assumere.

Infatti, sempre secondo l’Ocse, “l’Italia è caratterizzata da un ordinamento del mercato del lavoro piuttosto rigido e da una mobilità del lavoro limitata”. Quali misure occorrerebbero per sbloccare la situazione e incentivare l’occupazione?

Nel mio disegno di legge n. 1873, presentato un anno fa con altri 54 senatori, la materia del licenziamento e della mobilità interaziendale è oggetto di una profonda riforma ispirata al modello nord-europeo della flexsecurity, cioè mirata a conciliare il massimo possibile di flessibilità delle strutture produttive con il massimo possibile di sicurezza dei lavoratori nel mercato del lavoro.

Qual è il meccanismo protettivo delineato nel suo progetto?

L’idea è di esentare le imprese, per i nuovi rapporti, dal controllo giudiziale sul motivo economico od organizzativo del licenziamento, in cambio della loro responsabilizzazione circa il sostegno nel mercato al lavoratore che perde il posto. Il costo per le imprese è largamente compensato dalla possibilità dell’aggiustamento industriale tempestivo. Per il primo anno il trattamento complementare di disoccupazione costerebbe davvero poco, perché il grosso lo paga già l’Inps: donde un forte incentivo per le imprese ad attivare i servizi di outplacement migliori per ricollocare i lavoratori licenziati entro il primo anno, evitando così il costo dei due anni successivi.

L’obiezione è che il buon trattamento economico potrebbe dissuadere i lavoratori dall’attivarsi per cercare il nuovo lavoro.
Questo è quello che accade oggi, pacificamente, per effetto dell’uso distorto della Cassa integrazione anche nei casi in cui vi è la certezza che il lavoro non riprenderà più nella stessa azienda. Per questo occorre correggere drasticamente questo uso distorto della Cassa. Secondo il mio progetto ispirato alla flexsecurity scandinava, la disponibilità effettiva dei lavoratori per il processo di riqualificazione e avviamento al nuovo lavoro sarà oggetto di un adeguato potere di controllo da parte dell’azienda che gli paga il trattamento complementare di disoccupazione, nel quadro di un vero e proprio “contratto di ricollocazione”.

Quale dovrà essere in futuro il ruolo degli ammortizzatori sociali?
Occorrerà, come dicevo, correggere l’abuso della Cassa integrazione, che è stato fortemente incrementato in questo periodo di crisi con l’esplosione della “Cassa integrazione in deroga”. E sviluppare invece un sistema di sostegno del reddito per chi perde il lavoro fortemente condizionato alla disponibilità effettiva del lavoratore alla ricerca della nuova occupazione: quello che io propongo di realizzare con una combinazione del trattamento Inps con un trattamento complementare posto a carico dell’azienda che licenzia, in cambio della libertà di licenziamento per motivi economici od organizzativi.

Quando è possibile attendersi una risalita del livello occupazionale?
Se fossimo capaci di mettere meglio in comunicazione domanda e offerta, potremmo averla anche subito: ci sono diversi settori che già oggi assorbirebbero decine di migliaia di lavoratori qualificati, se li trovassero.

Per esempio?
Il settore del materiale ferroviario, dove potrebbero essere riconvertiti, per esempio, molti dei lavoratori che perderanno il posto nel settore dell’auto. Ma ci sono in ogni regione decine di migliaia di posti scoperti per falegnami, elettricisti, impiantisti, installatori di infissi, tecnici informatici, macellai, panificatori, fabbri, sarti, e l’elenco potrebbe continuare ancora a lungo.

In Italia oggi i lavoratori irregolari sono quasi 700mila, e producono il 17% del Pil. Il dato è corretto?
Credo che gli irregolari siano molti di più che 700mila: l’Istat stima il fenomeno al 15 per cento della forza-lavoro. Del resto, non sarebbe possibile che il 3 per cento della forza-lavoro producesse il 17 per cento del Pil.

Quali sono i settori maggiormente interessati da questo fenomeno e perché?
L’edilizia, l’agroindustria, la piccola manifattura, i servizi domestici.

Come è possibile contrastare questo fenomeno?
Nel centro-nord aumentando i controlli e regolarizzando i lavoratori extracomunitari. Al sud il fenomeno è più esteso e il problema è più complesso.

Quali politiche sono necessarie nel Mezzogiorno?
Occorre porre le regioni meridionali in grado di attirare investimenti, italiani e soprattutto stranieri. Per questo occorre un’azione dei poteri pubblici volta a creare un ambiente favorevole agli investimenti, infrastrutture mirate ad agevolare l’insediamento; e un sistema di relazioni industriali che consenta la negoziazione dei buoni piani industriali a 360 gradi, anche secondo standard diversi da quelli fissati dal contratto collettivo nazionale.

Quale deve essere in questo il ruolo dei sindacati?
Il loro mestiere dovrebbe consistere nell’operare come intelligenza collettiva dei lavoratori, valutando i piani industriali e, in caso di valutazione positiva, guidando i lavoratori stessi nella scommessa comune con gli imprenditori.

Come giudica attualmente il loro contributo?
Su questo terreno siamo ancora molto indietro. La vicenda di Pomigliano ha dato un salutare scossone alla cultura sindacale italiana; ma c’è ancora molta strada da fare.

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