IL TESTAMENTO DI CHRISTIAN DE CHERGE’

“ECCO, POTRÒ, SE A DIO PIACE, IMMERGERE IL MIO SGUARDO IN QUELLO DEL PADRE, PER CONTEMPLARE CON LUI I SUOI FIGLI DELL’ISLAM COSÌ COME LI VEDE LUI, TUTTI ILLUMINATI DALLA GLORIA DEL CRISTO, FRUTTO DELLA SUA PASSIONE, INVESTITI DEL DONO DELLO SPIRITO, LA CUI GIOIA SEGRETA SARÀ SEMPRE DI STABILIRE LA COMUNIONE, GIOCANDO CON LE DIFFERENZE.”

Testamento di Padre Christian De Chergé, priore dell’Abbazia di Tibihrine, ucciso con altri sei monaci trappisti in Algeria nel maggio 1996, probabilmente da fondamentalisti islamici (ma forse dall’esercito regolare che voleva far ricadere la responsabilità su questi ultimi). Alla vicenda di padre Christian e dei suoi confratelli, profondamente inseriti nel villaggio di cui condividevano con passione e abnegazione tutta la vita, è stato dedicato il film  Des hommes et des dieux,  titolo non felicemente reso da noi  con  Gli uomini di Dio: v. in proposito, in coda al Testamento, la recensione di Giona A. Nazzaro, apparsa su Micromega, ottobre 2010

TESTAMENTO DI PADRE CHRISTIAN DE CHERGE’
Se mi capitasse un giorno – e potrebbe essere oggi – di essere vittima del terrorismo che sembra voler coinvolgere ora tutti gli stranieri che vivono in Algeria, vorrei che la mia comunità, la mia Chiesa, la mia famiglia, si ricordassero che la mia vita era “donata” a Dio e a questo paese.
Che essi accettassero che l’unico Signore di ogni vita non potrebbe essere estraneo a questa dipartita brutale.
Che pregassero per me: come essere trovato degno di una tale offerta?
Che sapessero associare questa morte a tante altre ugualmente violente, lasciate nell’indifferenza dell’anonimato.
La mia vita non ha valore più di un’altra. Non ne ha neanche di meno. In ogni caso non ha l’innocenza dell’infanzia.
Ho vissuto abbastanza per sapermi complice del male che sembra, ahimè, prevalere nel mondo, e anche di quello che potrebbe colpirmi alla cieca. Venuto il momento, vorrei poter avere quell’attimo di lucidità che mi permettesse di sollecitare il perdono di Dio e quello dei miei fratelli in umanità, e nello stesso tempo di perdonare con tutto il cuore chi mi avesse colpito.
Non potrei augurarmi una tale morte. Mi sembra importante dichiararlo. Non vedo, infatti, come potrei rallegrarmi del fatto che questo popolo che io amo venisse indistintamente accusato del mio assassinio.
Sarebbe pagare a un prezzo troppo alto ciò che verrebbe chiamata, forse, la “grazia del martirio”, doverla a un Algerino, chiunque sia, soprattutto se egli dice di agire in fedeltà a ciò che crede essere l’Islam.
So di quale disprezzo hanno potuto essere circondati gli Algerini, globalmente presi, e conosco anche quali caricature dell’Islam incoraggia un certo islamismo. E’ troppo facile mettersi la coscienza a posto identificando questa via religiosa con gli integrismi dei suoi estremismi.
L’Algeria e l’Islam, per me, sono un’altra cosa, sono un corpo e un anima.
L’ho proclamato abbastanza, mi sembra, in base a quanto ho visto e appreso per esperienza, ritrovando così spesso quel filo conduttore del Vangelo appreso sulle ginocchia di mia madre, la mia primissima Chiesa proprio in Algeria, e, già allora, nel rispetto dei credenti musulmani.
La mia morte, evidentemente, sembrerà dare ragione a quelli che mi hanno rapidamente trattato da ingenuo, o da idealista: “Dica, adesso, quello che ne pensa!”.
Ma queste persone debbono sapere che sarà finalmente liberata la mia curiosità più lancinante. Ecco, potrò, se a Dio piace, immergere il mio sguardo in quello del Padre, per contemplare con lui i Suoi figli dell’Islam così come li vede Lui, tutti illuminati dalla gloria del Cristo, frutto della Sua Passione, investiti del dono dello Spirito, la cui gioia segreta sarà sempre di stabilire la comunione,giocando con le differenze.
Di questa vita perduta, totalmente mia e totalmente loro, io rendo grazie a Dio che sembra averla voluta tutta intera per questa gioia, attraverso e nonostante tutto.
In questo “grazie” in cui tutto è detto, ormai della mia vita, includo certamente voi, amici di ieri e di oggi, e voi, amici di qui, insieme a mio padre e a mia madre, alle mie sorelle e ai miei fratelli, e a loro, centuplo regalato come promesso!
E anche te, amico dell’ultimo minuto che non avrai saputo quel che facevi. Sì, anche per te voglio questo “grazie”, e questo “a-Dio” nel cui volto ti contemplo.
E che ci sia dato di ritrovarci, ladroni beati, in Paradiso, se piace a Dio, Padre nostro, di tutti e due.
Amen! Inch’Allah.
Algeri, 1° dicembre 1993
Tibihrine, 1° gennaio 1994

LA RECENSIONE DEL FILM “UOMINI DI DIO” DI XAVIER BEAUVOIS (Francia, 2010)

A cura di Giona A. Nazzaro, apparsa su Micromega – ottobre 2010

Il cinema di Xavier Beauvois è un oggetto pressoché sconosciuto in Italia, nonostante l’elevata qualità dei risultati ottenuti dal regista nel corso degli anni. Dal lontano 1991, anno in cui Beauvois si fa notare con l’ottimo Nord, la sua progressione è costante al punto che si trova coinvolto in prima persona nel complesso processo del costante rinnovamento del cinema francese.
Uomo di cinema in grado di passare con grande facilità davanti alla macchina da presa, Beauvois è anche un ottimo attore cosa evidenziata da una filmografia che comprende titoli del valore di Le ciel de Paris di Michel Bena, Ponette di Jacques Doillon, Le vent de la nuit di Philippe Garrel e Villa Amalia di Benoit Jacquot. Ed è in veste di regista e interprete che dirige quattro anni N’oublie pas que tu vas mourir, potente apologo intrecciato alla vita e alla morte che osa unire in un unico arco narrativo la guerra nei Balcani e il dramma di un uomo che scopre d’essere sieropositivo. Presentato a Cannes, il film suscita grande scalpore sia a causa della franchezza con cui Beauvois mette in scena la sessualità che per la visione particolarmente cruda, scevra di qualunque concessione al politicamente corretto, che fornisce della guerra nell’ex Jugoslavia.
Anche i successivi Selon Mathieu (2000) e Le petit Lieutenant (2005) evidenziano la bontà e, soprattutto, l’irrequietezza dello sguardo di Beauvois, confermandone inoltre quale tratto dominante un’asperità che sembrerebbe avvicinarlo al magistero di Maurice Pialat. Ciò che dai detrattori del regista viene definita come “rozzezza” è in realtà la caratteristica distintiva di un approccio alla materia filmica potentemente ancorata ai corpi e agli ambienti naturali.
Ed è esattamente questa caratteristica a fare la forza di Des hommes et des dieux, il nuovo film di Beauvois, presentato quest’anno in concorso a Cannes che la distribuzione italiana ha intitolato in maniera riduttiva Uomini di Dio.
Il film rievoca la strage di sette monaci cistercensi di Tibihrine sullo sfondo della guerra civile in Algeria nel 1996. La Al-Jama’ah al-Islamiyah al-Musallaha, il gruppo armato che mira a rovesciare il governo, rivendicò la responsabilità dell’eccidio, ma fonti francesi hanno sempre ritenuto plausibile l’ipotesi che i religiosi siano stati trucidati da reparti dell’esercito algerino nel quadro o di una strategia della tensione o di un banale “errore”.
Il progetto, nato per volontà del produttore cattolico Etienne Comar, è affidato a Beauvois che nel corso di un dettagliato lavoro di ricerca, durante il quale si confronta con teologi e religiosi, sceglie di trascorrere un periodo nel convento cistercense di Notre-Dame de Tamié fondato nel 1132 da Pietro di Tarentaise.
Evidentemente una materia simile, in altre mani, sarebbe stata lo spunto privilegiato per una qualunque agiografica fiction religiosa prodotta da Mediaset o dalla Rai. Cosa in sé abbastanza curiosa, considerata che pur essendo un paese profondamente cattolico, e tranne qualche eccezione del valore di Giovanni Testori, l’Italia non è mai stata in grado di produrre un discorso sulla fede che non fosse inevitabilmente confessionale e normativo. In Francia, invece, esiste una tradizione di spiritualità potente e se si vuole anche violentemente conservatrice – si pensa per esempio a Leon Bloy, oppure, sull’altro estremo dello spettro politico, a Jean Genet – che nel cinema ha dato vita al magistero del cinema di Robert Bresson influenzando profondamente il pensiero stesso della nouvelle vague attraverso gli insegnamenti di André Bazin. Una corrente di pensiero che ha prodotto risultati altissimi come Sotto il sole di Satana di Maurice Pialat tratto dall’omonimo romanzo di Bernanos.
Inevitabilmente il film di Xavier Beauvois s’innesta quindi in una tradizione di religiosità critica o comunque problematica in grado di dialogare anche con il versante laico della società. Infatti, pur essendo nato chiaramente per celebrare il sacrificio dei monaci, il film di Beauvois s’afferma prima di tutto come opera determinata da uno specifico cinematografico che se da un lato sviluppa e amplia il cinema precedente del regista, dall’altro si confronta con una serie di modelli estremamente impegnativi che vanno da John Ford (Missione in Manciuria) a Dreyer e Bresson.
A Beauvois dunque riesce l’impresa di realizzare un film profondamente religioso, onorare la morte dei monaci e al tempo stesso di metterne in luce umanità e debolezze, anche ideologiche, senza per questo cadere nel tranello, tipicamente parrocchiale, dei difetti umani che inevitabilmente esaltano la forza della fede o del fedele. No. Beauvois coglie con grande fermezza degli uomini nell’agone della storia. Evidenzia i mezzi che questi hanno a disposizione per contrastare la violenza, il tentativo di porsi in comunicazione con i portatori di altre divinità per poi non potere fare altro che seguire le tracce del martirio.
Beauvois però non esalta il martirio e non cede alla tentazione della mistica della morte bella. I monaci accettano la morte muovendo da convinzioni che per quanto nobili, sia sul piano individuale e collettivo, sono comunque il frutto di un pensiero che contempla la morte come parte integrante del proprio discorso. In questo senso vittime e carnefici si riconoscono potenzialmente simili nel loro essere per la morte. La politica, in parte accennata dalle aperture dello sguardo di padre Luc, non partecipa di questa dialettica. Il conflitto del film, squisitamente politico, è combattuto con le armi inadeguate della fede. Resta quindi solo una testimonianza di morte. E i sacrificati riconoscono le armi di coloro che uccidono. Un conflitto dell’identico.
La straordinaria capacità di Beauvois di calarsi nella vicenda è data dalla commozione con la quale il regista filma ciò che il protagonista Lambert Wilson ha definito “l’elemento federativo del canto” e la forza di un territorio inospitale. Beauvois coglie il momento dell’angoscia dei suoi protagonisti e nel farlo riesce a dare una risposta cinematografica alla domanda di Gesù che chiedeva ai suoi discepoli se non fossero in grado di vegliare con lui neanche un’ora. Beauvois sta al fianco degli uomini che ha scelto di filmare. Lo fa con un cinema eticamente motivato e filmicamente evoca il magistero di Dreyer nell’ultima cena dei monaci regalandoci uno dei pochi attimi di cinema trascendentale degli ultimi anni.
Non c’è bisogno d’essere credenti per apprezzare il film di Beauvois anche se è prevedibile la corsa all’appropriazione del martirio che purtroppo pare sia già iniziata con la scelta infelice del titolo italiano. Uomini di Dio significa infatti esattamente il contrario di Des hommes et des dieux. Non solo l’originale francese antepone gli uomini alle divinità, ma nella scelta del plurale accoglie anche il resto dell’umanità. Invece il subdolo Uomini di Dio ribadisce l’idea di un dio unico eliminando la dialettica di una possibilità alterità. Ed è proprio quando gli uomini di Dio affrontano altri uomini di Dio che sorgono le guerre e gli uomini iniziano di nuovo a pensare di poter imporre ad altri uomini il presunto volere del loro Dio.
La vicenda dei monaci di Tibhirine è raccontata nel libro Più forti dell’odio , di Frère Christian de Chergé (edito in Italia nel 2006 da Qjqajon, con una prefazione di Enzo Bianchi, n.d.r.).

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