PROVINCIA DI COMO: LE CONSEGUENZE POSSIBILI DEL REFERENDUM DI MIRAFIORI

LA SCELTA CHE I 5000 DIPENDENTI TORINESI DELLA FIAT STANNO COMPIENDO IN QUESTI GIORNI AVRA’ RIPERCUSSIONI MOLTO RILEVANTI PER TUTTO IL NOSTRO SISTEMA DELLE RELAZIONI INDUSTRIALI – MA QUESTA NON E’ UN’ANOMALIA: L’INNOVAZIONE NON SI PRESENTA MAI, INIZIALMENTE, AL LIVELLO DI UN INTERO SETTORE; E A UN GRUPPO RIDOTTO DI LAVORATORI SPETTA DI FARE DA ARGINE O DA BATTISTRADA PER TUTTI GLI ALTRI

Intervista a cura di Maria Giovanna Della Vecchia, pubblicata sul quotidiano La Provincia di Como il 14 gennaio 2011

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Superando per un momento le scelte di campo pro o contro l’accordo di Mirafiori, e al di là dell’esito del referendum, che seguito è destinato a lasciare l’accordo di Mirafiori sul sistema industriale e delle relazioni sindacali?
Molto dipende dall’esito del referendum. Se dovessero vincere i “no”, l’impatto sul nostro vecchio sistema delle relazioni industriali potrebbe essere contenuto. Se invece vincono i “sì” – cosa che in una città come Torino non si può proprio dare per scontata – le conseguenze sull’intero sistema saranno più forti.

Quali conseguenze?
Una tendenza netta allo spostamento del baricentro della contrattazione collettiva verso la periferia. Il contratto collettivo nazionale conserverà una sua funzione, ma questa tenderà a essere sempre meno quella di uno standard inderogabile e sempre di più quella di una rete di sicurezza: una “disciplina di default”, destinata ad applicarsi soltanto quando non ne sia stata negoziata un’altra, da una coalizione sindacale maggioritaria, al livello aziendale.

Ci sono stati tempi in cui l’asse fra la Fiat e il Paese era molto robusto, ai limiti di una grande identificazione. Ora le cose sono cambiate, però siamo nella situazione in cui con un referendum 5.000 lavoratori creeranno una pesante premessa sulla gestione di tutti i futuri accordi italiani sull’occupazione. Non le sembra una situazione rischiosa?
Certo, quei 5000 lavoratori si trovano a dover compiere una scelta che avrà ripercussioni molto al di là dei confini della loro azienda. Ma questa non può essere considerata come una anomalia: l’innovazione, direi quasi per definizione, non si manifesta quasi mai su scala nazionale, bensì quasi sempre al livello della singola azienda. Accade sempre che, di fronte all’innovazione, ci sia qualcuno che deve scegliere se fare da argine o da battistrada per tutti gli altri.

Qual è il sistema di tutele dei lavoratori di cui avrà bisogno il Paese nel prossimo futuro?
La risposta richiederebbe un discorso lungo. Per rispondere a questa domanda due anni fa ho presentato, con altri 54 senatori, due disegni di legge volti a sostituire l’intera legislazione nazionale in materia sindacale (d.d.l. n. 1872) e di rapporto individuale di lavoro (d.d.l. n. 1873) con un Codice del lavoro semplificato, di soli 70 artticoli in tutto. Tutta traducibile in inglese.

Utopia?
Fino a due mesi fa poteva apparire tale. Ma il 10 novembre scorso il Senato ha votato a larghissima maggioranza una mozione che impegna il Governo a varare un codice del lavoro semplificato modellato su quel mio progetto.

Per qualche anno Marchionne è stato un manager visto in modo favorevole dalla sinistra, come astro nascente dell’innovazione e manager illuminato. Ora si trova a gestire questa parte del cattivo di turno, che apparentemente ha chiuso i canali di comunicazione col Governo, almeno con quello italiano. Che ne pensa?
Certo, l’Ad Fiat ci ha messo un po’ del suo per assumere questa immagine arcigna e provocatoria, in quest’ultimo anno di negoziazioni molto tese e di fratture, creandosi nemici sia a sinistra, sia a destra. E’ impressionante, per esempio, la freddezza e talvolta vera e propria diffidenza con cui Marchionne viene trattato anche dal nostro Governo. Ma di una cosa dovremo essergli comunque grati: l’averci fatto riflettere sui difetti gravi del nostro sistema delle relazioni industriali e sull’ostacolo che essi possono costituire per gli investimenti delle grandi multinazionali.

Sono in molti a contestare questa sua affermazione, sostenendo che le sole cause della chiusura del Paese agli investimenti stranieri sono i difetti di funzionamento delle amministrazioni pubbliche e delle infrastrutture.
Anche quei difetti pesano, e molto. Però Marchionne non ha fatto questione né di amministrazioni pubbliche né di infrastrutture: ha denunciato l’inconcludenza del nostro sistema di relazioni sindacali, la mancanza di regole chiare circa il rapporto tra contratto collettivo nazionale e contratto aziendale, l’inefficacia della clausola di tregua, per cui da noi si può scioperare contro il contratto anche il giorno dopo che lo si è stipulato. Se dunque perderemo l’enorme investimento che lui ci ha proposto, sarà per questo motivo.

Parafrasando il titolo di un suo libro di qualche anno fa, a cosa serve, oggi, il sindacato?
Nell’era della globalizzazione, il sindacato deve saper agire come l’intelligenza collettiva dei lavoratori, capace di valutare la bontà di un piano industriale e l’affidabilità di chi lo propone, da qualsiasi parte del mondo egli o ella venga; e se la valutazione è positiva, deve saper guidare i lavoratori nella negoziazione della scommessa comune con l’imprenditore su quel piano e garantirne l’attuazione, compresa la spartizione pattuita dei frutti, se la scommessa comune viene vinta.

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