LO SCIOPERO DEL VENERDI’

LA SETTIMANA SCORSA CISL, UIL E UGL SI SONO PRONUNCIATE A FAVORE DI UNA DISCIPLINA DELLO SCIOPERO NEI TRASPORTI PUBBLICI BASATA SUL PRINCIPIO DI DEMOCRAZIA SINDACALE: LA SOLUZIONE PROPOSTA NEL MIO DISEGNO DI LEGGE N. 1409, DEL FEBBRAIO 2009 – IL GOVERNO, DAL CANTO SUO,  CHIEDE AL PARLAMENTO UNA DELEGA LEGISLATIVA, CIOE’ MANO LIBERA: UNA SOLUZIONE ISTITUZIONALMENTE MACCHINOSA E POLITICAMENTE PERICOLOSA, CHE E’ POSSIBILE EVITARE SE TUTTI GLI INTERESSATI FANNO LA LORO PARTE E L’OPINIONE PUBBLICA FA SENTIRE LA PROPRIA VOCE

Editoriale per la Newsletter n. 143, 14 marzo 2011

     Uno degli handicap del nostro Paese – certo, non il più grave, ma più costoso di quanto comunemente si creda – è lo sciopero mensile dei trasporti pubblici proclamato quasi sempre da sindacati minoritari, con benefici zero per i lavoratori della categoria interessata e danno grave per l’intera collettività. Per affrontare questo problema, due anni fa con altri senatori del Pd, dell’Udc e del Pr ho presentato un disegno di legge che indica una soluzione semplice e ragionevole, in linea con quanto si pratica da decenni nel resto d’Europa. Il Governo ha risposto a questa iniziativa chiedendo al Parlamento una delega legislativa. L’iter dei due disegni di legge si è avviato nei giorni scorsi alla Commissione Lavoro del Senato, con le audizioni dei sindacati maggiori. Ma prima di discutere di quanto sta accadendo in Parlamento, vediamo più da vicino i termini del problema come si pone nella società civile.

     Poiché la legge n. 83/2000 stabilisce un intervallo minimo tra uno sciopero dei trasporti e quello successivo, i sindacati autonomi sono soliti “prenotare” lo sciopero in tutti gli “slot” disponibili in calendario nei prossimi sei mesi: per che cosa si sciopererà lo si deciderà poi di volta in volta. A Milano, anche se allo sciopero aderisce meno di un lavoratore su quattro, questo basta per far chiudere la metropolitana e per indurre tutti i milanesi che possono a recarsi al lavoro con l’auto: il solo annuncio ha l’effetto di paralizzare la città (nel libro A che cosa serve il sindacato ho mostrato come uno sciopero dei trasporti pubblici a Milano, anche se vi aderisce soltanto un lavoratore su quattro, possa costare alla città intorno ai 60 milioni di euro). Immagino che lo stesso accada in tutte le altre città maggiori. Se l’agitazione riguarda treni o aerei, le agenzie di viaggio e turistiche sono abituate da tempo a cancellare ogni prenotazione che cada nel giorno del mese “riservato allo sciopero”.
     Ma il nostro Paese non può permettersi di fermarsi per un giorno al mese: tanto meno in questo momento difficilissimo in cui occorre fare tutto il possibile per “agganciare” la ripresa e aprirci agli investimenti stranieri.  Nella Lettera sul lavoro della settimana scorsa ho parlato del libro di Antonio Pennacchi, il cui protagonista, il Mammut, è proprio questa strategia sindacale della “conflittualità permanente”. Se questo rito estenuato dello sciopero dei trasporti proclamato con la cadenza mensile dettata dalla regola di “rarefazione” non fosse ormai un fossile preistorico, i cobas e gli altri “autonomi” non sarebbero costretti a proclamarlo sempre rigorosamente al venerdì, per poter annoverare tra gli aderenti tutti i lavoratori che non disdegnano di allungare di un giorno il week-end. Per tutti gli osservatori stranieri, poi, è incredibile  il fatto che questo salasso mensile inflitto all’esangue economia italiana sia quasi sempre motivato con parole d’ordine di estrema genericità e di natura più politica che sindacale.
     Puntuale e costoso come le tasse, venerdì scorso abbiamo avuto il nostro sciopero mensile, proclamato da Unione Sindacale di Base, Unicobas e Snater (questa volta lo sciopero era proclamato come “generale”, cioè esteso a tutte le categorie; ma l’unica categoria nella quale ha avuto qualche adesione – producendo molti danni – è quella dei trasporti pubblici). Questi gli obiettivi dichiarati dello sciopero dell’11 marzo:
Lo sciopero è indetto: per difendere l’occupazione e il contratto nazionale e per lo sblocco dei contratti del pubblico impiego; contro la precarietà e la delocalizzazione degli impianti produttivi (possiamo immaginare quanti imprenditori si siano indotti a rinunciare a una delocalizzazione, dopo la proclamazione di questo sciopero); contro il tentativo di imporre il modello Marchionne ed estenderlo a tutto il mondo del lavoro (infatti, pare che da venerdì Marchionne ci stia ripensando); per un reddito certo per tutti, per la difesa dei salari e delle pensioni pubbliche (ma intanto si fa perdere una giornata di lavoro); per la tutela dei beni comuni, il diritto all’abitare ed il controllo delle tariffe, per un fisco più giusto, che faccia pagare le tasse agli evasori e riduca la pressione fiscale sui lavoratori dipendenti e sulle fasce più deboli della popolazione, per la difesa della scuola, dell’università, della ricerca pubblica, contro la riforma Gelmini e per il diritto al sapere (qui i promotori hanno dimenticato le questioni dell’inquinamento e della difesa della lingua italiana all’estero); per la regolarizzazione generalizzata di tutti i migranti e per la rottura netta del legame tra permesso di soggiorno e contratto di lavoro; per la democrazia sui posti di lavoro ed una legge sulla rappresentanza sindacale, affinché siano i lavoratori e non le aziende a scegliere da chi farsi rappresentare (ma una legge sulla rappresentanza avrebbe come primo effetto proprio quello di ridimensionare il potere di interdizione di cui godono oggi le minoranze sindacali come quelle che hanno proclamato questo sciopero); contro la realizzazione del nuovo Patto sociale tra Governo, Confindustria, Cisl, Uil e Cgil attraverso il quale si vuole favorire e rendere sempre più competitiva l’impresa peggiorando le condizioni ed il salario dei lavoratori (come si possano migliorare le condizioni di lavoro in imprese non competitive, questo i promotori dello sciopero non spiegano).
     Era agevolmente prevedibile che a uno sciopero proclamato su parole d’ordine siffatte aderissero ben pochi lavoratori, a parte quelli che per ragioni personali o familiari gradiscono di aggiungere un giorno di riposo al sabato e domenica. Infatti così è stato. Ma, come al solito, nel settore dei trasporti pubblici il danno è stato molto più che proporzionale alla percentuale delle adesioni allo sciopero. Leggiamo la cronaca di quello che è accaduto a Milano venerdì pomeriggio, lo spettacolo incivile di una città condannata al caos da una minoranza irresponsabile di addetti al servizio, nel messaggio email di un utente giustamente furibondo:
La fascia di protezione prevedeva che alle ore 15 venissero riaperte le stazioni e i treni  riprendessero la circolazione dai capolinea. Il primo treno in direzione Rho-Fiera della linea 1 della metropolitana è arrivato in Piazza Duomo solo alle ore 16.05 , un’ora e cinque minuti dopo il ripristino della circolazione dei treni previsto dalle ore 15 alle ore 18, fascia “protetta” quindi solo a parole. La rabbia dei cittadini è salita creando situazioni molto tese alle stazioni di Duomo e Cordusio, dove i dipendenti Atm in servizio hanno faticato non poco (e con un serio pericolo alla loro incolumità) per contenere la rabbia dei viaggiatori che alle ore 15.25 ancora aspettavano l’apertura dei tornelli. Nella stazione Duomo già alle ore 15.00 numerosi viaggiatori imbufaliti si erano ammassati alle saracinesche iniziando a prenderle a calci e inveendo contro gli addetti alle pulizie che per l’occasione si erano dovuti reinventare agenti della sicurezza. Una volta aperti i tornelli l’attesa dei viaggiatori in direzione Bisceglie/Rho Fiera e’ stata estenuante: un solo treno, ovviamente completamente affollato, in direzione Bisceglie, poi nessun convoglio per altri 20 minuti fino al primo treno per Rho-Fiera, solo alle ore 16.05. Mi chiedo perché la Polizia Municipale, stante la situazione di ressa e di tensione che si è scatenata in diverse stazioni della metropolitana non sia intervenuta a supporto del personale ATM che ha rischiato la propria incolumità.

     Ora, in tutto l’occidente industrializzato (se escludiamo la Francia) vige la regola per cui lo sciopero – e non soltanto quello dei trasporti pubblici – può essere proclamato solo da una coalizione sindacale che rappresenti più della metà dei lavoratori interessati – in Germania almeno il 75 per cento – oppure sulla base di un referendum nel quale la maggioranza si sia direttamente pronunciata a favore della proclamazione. A me sembra che sia il caso di attuare l’articolo 40 della Costituzione allineando la disciplina italiana della materia a quello standard internazionale. Questo è quanto è previsto nel disegno di legge 25 febbraio 2009 n. 1409 che due anni fa ho presentato con alcuni senatori del Pd, dell’Udc e del Pr. Il Governo, dal canto suo, qualche tempo dopo ha presentato il disegno di legge 23 marzo 2009 n. 1473, nel quale chiede al Parlamento una delega legislativa su questa materia: delega che non si giustifica, poiché – come il mio disegno di legge dimostra – la materia può essere oggetto di una disciplina semplice e snella, elaborata e approvata direttamente dal Parlamento.
     La novità è che mercoledì scorso Cisl, Uil e Ugl, nel corso dell’audizione disposta dalla Commissione Lavoro del Senato, si sono pronunciate in senso favorevole all’applicazione, in questa materia, del principio di democrazia sindacale cui si ispira il mio disegno di legge. Su questo punto, la Cgil è rimasta più sul vago, limitandosi a sottolineare la propria ferma opposizione al conferimento, su questa materia, di una delega legislativa al Governo; in passato essa però aveva mostrato un’apertura alla prospettiva di condizionare, nel settore dei trasporti, la facoltà di proclamazione dello sciopero a una rappresentatività minima del sindacato o coalizione interessato. Due anni fa questa soglia minima era indicata dalla Cgil intorno al 5 o al 10 per cento dei lavoratori interessati; non sarebbe difficile a Cgil, Cisl e Uil, se si mettessero intorno a un tavolo con buona volontà, trovare il compromesso su di una soglia minima di rappresentatività intermedia tra questi valori indicati dalla Cgil e il 50 per cento indicato mercoledì scorso in Senato da Cisl e Uil. Quel compromesso potrebbe, a quel punto, diventare un “avviso comune” sottoscritto con le associazioni imprenditoriali maggiori. E a quel punto maggioranza e opposizione dovrebbero soltanto impegnarsi a dare attuazione all’indicazione concordemente fornita dalle Parti sociali (il Partito democratico è fin d’ora impegnato in questo senso).
     Opporsi con successo alla delega legislativa chiesta al Parlamento dal Governo, che consentirebbe a quest’ultimo di legiferare senza vincoli su di una materia tanto difficile e delicata, è possibile se i protagonisti del sistema delle relazioni industriali prendono posizione chiaramente su alcune poche regole di democrazia sindacale, suscettibili di tradursi facilmente in una legge approvata direttamente dal Parlamento.
     Se vogliamo che l’annoso problema si risolva positivamente e senza scontri politici al calor bianco, è molto importante che nelle prossime settimane l’opinione pubblica – e non solo quella di centro-sinistra – segua da vicino con molta attenzione questa vicenda parlamentare.

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