ANCORA SULLA FINE DELLA VITA E SULLA DIGNITA’ DELLA MORTE

UN LETTORE DISCUTE IL PUNTO DI VISTA ESPRESSO NEL DOCUMENTO DEL MOVIMENTO ECCLESIALE  “NOI SIAMO CHIESA” SUL TEMA DELL’ALIMENTAZIONE ARTIFICIALE E DEL CONSENSO ALL’INTERRUZIONE DEI TRATTAMENTI VOLTI A MANTENERE LA VITA

Lettera pervenuta il 14 marzo 2011, a seguito della pubblicazione del documento di “Noi Siamo Chiesa” su questo stesso tema. Segue una mia risposta

Egregio Senatore,
ho letto con interesse l’articolo della sua newsletter n. 143 Fine vita e dintorni: perchè concordiamo col Magistero cattolico, ma non con la CEI”, e mi sono ancor più convinto che la materia è delle più delicate e difficili da inquadrare normativamente.
Quindi sospendendo ogni osservazione conclusiva e giudizio, vorrei solo far notare che l’interpretazione che l’articolo sembra sposare del citato  2278 del Catechismo della Chiesa cattolica, in particolare delle “procedure mediche … sproporzionate rispetto ai risultati attesi”, è quantomeno fuorviante soprattutto se lo si vuole in qualche modo applicare a casi simili a quello della triste vicenda di Eluana.
Premesso, anche per non apparire troppo scontato e indurre a interrompere la lettura delle mie osservazioni, che quella che segue non è la solita obiezione alla considerazione della alimentazione e idratazione come terapie, che ritengo forse la vera questione ancora aperta,  vorrei fare innanzittutto notare che nel paragrafo citato si parla di procedure mediche e di null’altro. Infatti solo una procedura medica o indiscussa terapia farmacologica può attendere dei risultati; soltanto queste possono essere “sproporzionate rispetto ai risultati attesi”, in quanto solo esse hanno lo scopo o anche solo la speranza di una guarigione, anche parziale.
Ritengo che la questione non sia di poco conto. Infatti così come è evidente che l’idratazione o l’alimentazione si prefiggono il solo risultato (ottenuto oltre che atteso, e quindi con nessuna sproporzione ad esse imputabile) della prosecuzione della vita (quale essa sia), nello stesso modo voler fare intendere che l’idratazione e l’alimentazione hanno la loro ratio, parimenti a una medicina o altro intervento clinico, nella guarigione è come affermare (e soprattutto dire che ciò viene affermato dalla Chiesa) che, indipendentemente dalle scelte del singolo e dalla sensibilità di ciascuno, la vita di un certo tipo non merita di continuare (per la Chiesa: non ha dignità davanti a Dio) se non vi è attesa di guarigione. Guarigione che, se non si può attendere, dunque renderebbe – secondo l’articolo –  sproporzionata la somministrazione di sostanze volte anche solo all’idratazione e all’alimentazione del malato.
Questo modo di ragionare a mio avviso è sicuramente non attribuibile alla Chiesa, né deducibile dalle pubblicazioni ad essa riferibili, ma soprattutto conduce a una specie di controriforma sul tema della fine della vita, praticamente imponendo (invece che consentendo) la scelta dell’interruzione dell’alimentazione e idratazione in casi simili a quello accaduto alla famiglia Englaro.
Vorrei concludere con l’unico rammarico (fondato sull’unica idea che mi rimane ferma sul delicato tema in discussione) che ho per come si è conclusa la vicenda di Eluana, e cioè sul fatto che, così come ritengo ed ho ritenuto aperta la questione della inclusione o meno della idratazione ed alimentazione “con mezzi tecnologici” tra le terapie mediche, parimenti non penso sia accettabile e rispettoso della immensità e imponderabilità della mente umana (soprattutto difronte alla morte, la propria morte) considerare – come invece è stato fatto nel caso di Eluana Englaro – espressioni delle proprie volontà sull’argomento deduzioni, informazioni de relato, testimonianze di comportamenti ecc., quand’anche fossero concordi tra le persone udite: ciò in quanto non ritengo questo né un consenso, né, tanto meno, un consenso informato.
La saluto cordialmente
V. A.   

Cerco di risponderle da laico impegnato in politica, aspirante cristiano, non teologo né, tanto meno, medico. Se ben capisco il suo pensiero, Lei sostiene, sia pure considerando “la questione ancora aperta”, che sia impossibile per la Chiesa consentire l’interruzione di alimentazione e idratazione artificiali , in quanto, non essendo alimentazione e idratazione forzate cure mediche in senso proprio, ciò equivarrebbe ad affermare che “la vita di un certo tipo” (quella dei malati terminali e/o in stato di durevole incoscienza) “non merita di continuare (per la Chiesa: non ha dignità davanti a Dio) se non vi è attesa di guarigione”.  A me sembra che l’alimentazione e l’idratazione artificiali siano comunque somministrate da operatori sanitari, quasi esclusivamente in ambito ospedaliero, attraverso procedure di natura anche chirurgica, che nulla hanno in comune con le modalità “naturali” di sostentamento; e dunque, a mio avviso, ben si possono qualificare come “mediche”.  Mi richiamo in proposito anche alla Carta degli Operatori sanitari, elaborata nel 1995 dal Pontificio Consiglio per la Pastorale degli stessi, a proposito della volontà del malato e del rapporto col medico, riportandone qui uno stralcio più ampio, citato nel documento integrale di “Noi Siamo Chiesa”: “Per il medico e i suoi collaboratori non si tratta di decidere della vita o della morte di un individuo. Si tratta semplicemente di essere medico, ossia d’interrogarsi e di decidere in scienza e coscienza, sulla cura rispettosa del vivere e del morire dell’ammalato a lui affidato. Questa responsabilità non esige il ricorso  sempre e comunque ad ogni mezzo. Può anche richiedere di rinunciare a dei mezzi, per una serena e cristiana accettazione della morte inerente alla vita. Può anche voler dire il rispetto della volontà dell’ammalato che rifiutasse l’impiego di taluni mezzi” (la sottolineatura è mia). Sono profondamente convinto infatti che sia desiderio e diritto di ogni persona poter affrontare la propria morte con dignità e serenità, essendo la morte stessa parte della vita di ognuno, senza ingerenze statalistiche che impongano irrispettosi e inumani accanimenti per conservare la “vita ad ogni costo”. Vengo infine alla sua ultima osservazione su ciò che può considerarsi “consenso informato”, che trae spunto dal caso Englaro: su di  esso mi astengo dal esprimere valutazioni sulla sentenza, come è mio costume quando non conosca gli atti del giudizio. In generale, ritengo che esista un limite sia all’intervento della Chiesa in questa materia (il limite del rispetto dell’autonomia delle sfere giuridica statuale, tecnica e professionale: “a Cesare quel che è di Cesare”), sia all’intervento della legge statuale in una zona grigia, quale è quella che sovente si manifesta al confine tra la vita e la morte, nella quale può essere impossibile ricondurre i tutti i comportamenti medici a schemi giuridicamente definiti.    (p.i.)

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