CONQUISTE DEL LAVORO: A CHE COSA SERVE DECENTRARE LA CONTRATTAZIONE COLLETTIVA

CONSERVARE GLI STANDARD MINIMI INDEROGABILI FISSATI CENTRALMENTE IMPLICHEREBBE SCELTE PER IL MEZZOGIORNO CHE, GIUSTAMENTE, NON SIAMO AFFATTO DISPOSTI A COMPIERE – UNA MISURA NECESSARIA PER LO SVILUPPO DEL SUD CONSISTE NELLO “SGABBIARE” LA CONTRATTAZIONE COLLETTIVA, SPOSTANDONE IL BARICENTRO VERSO LA PERIFERIA

Intervista a cura di Andrea Baccherini e Giuseppe Gagliano, pubblicata da Conquiste del Lavoro, quotidiano della Cisl, il 6 aprile 2011

Il professor Pietro Ichino, senatore del Partito Democratico, è considerato uno dei massimi giuslavoristi italiani, ma anche persona scomoda, che non teme l’impopolarità anche ne suo stesso partito o negli ambienti – pur a lui assai congeniali – del mondo sindacale. Quando si convince della gtiustezza di un’idea, accetta con pacatezza il contraddittorio anche polemico ma non fa passi indietro. Conquiste del Lavoro gli ha chiesto l’intervista che qui proponiamo ai nostri lettori.

Professore, quali sono a suo avviso gli interventi più urgenti per ridurre il bacino dei cosiddetti giovani neet?
Il fenomeno dell’alto numero di giovani non più a scuola e non ancora al lavoro è il risultato di uno dei difetti più gravi del nostro mercato del lavoro: il difetto di coordinamento tra sistema scolastico-formativo e tessuto produttivo, che si manifesta anche nella mancanza di servizi regionali efficienti e capillari di orientamento scolastico e professionale. Il tutto è aggravato dalla domanda di lavoro fiacca in un Paese che subisce i danni della globalizzazione senza saper approfittare dei suoi vantaggi.

Quali sono i danni della globalizzazione, e quali i vantaggi da cui lei sostiene che dovremmo imparare a trarre profitto?
Il danno, per i lavoratori italiani, è la concorrenza di quelli dei Paesi emergenti, soprattutto nelle fasce professionali più basse. Il vantaggio è costituito dalla possibilità di attirare in Italia il meglio dell’imprenditoria mondiale. Ma su questo terreno l’Italia è molto indietro rispetto al resto d’Europa: peggio di noi fa soltanto la Grecia. Se la nostra capacità di intercettare gli investimenti nel mercato globale dei capitali fosse in linea con la media europea, avremmo ogni anno oltre 50 miliardi di investimenti esteri, che porterebbero con sé domanda di lavoro aggiuntiva, piani industriali innovativi e management di alta qualità. Invece facciamo di tutto per respingere i grandi investitori esteri, quando si azzardano ad attentare all’”italianità” delle nostre aziende.

È di questi giorni la polemica sull’effettiva consistenza della CIG e dei fondi ad essa destinati. Quale è il suo giudizio?
Vedo due difetti da correggere. Nei cinque anni precedenti alla crisi del 2008, se sommiamo tutte le gestioni della Cassa Integrazione e confrontiamo il gettito contributivo con le erogazioni, vediamo che il primo ha oscillato da un anno all’altro tra i 3,1 e i 3,8 miliardi, mentre le erogazioni hanno oscillato fra i 700 e i 900 milioni ogni anno. Poiché nel ventennio precedente il rapporto tra gettito contributivo ed erogazioni è all’incirca lo stesso, questo significa, per cominciare, che in tutto questo periodo il contributo per la Cig ha costituito di fatto per tre quarti una irrazionale e iniqua tassa sul lavoro industriale.

E il secondo difetto?
La Cig viene troppo largamente utilizzata come sostitutivo temporaneo del trattamento di disoccupazione, per lavoratori di cui non vi è alcuna ragionevole prospettiva di rientro al lavoro nell’azienda da cui formalmente dipendono. Anche questo è molto irrazionale, perché allunga i periodi di effettiva disoccupazione e alimenta il lavoro nero. E il fenomeno è ora accentuato dalla Cig “in deroga”: strumento apprezzabile nel momento più acuto della recessione, ma ora occorre uscire in fretta dal regime emergenziale.

Si riferisce alla polemica tra il ministro dell’Economia e il Governatore della Banca d’Italia?
Sì, anche Giulio Tremonti ha dovuto convenire con Mario Draghi sul punto che, se aggiungessimo al nostro attuale 8,6 per cento di disoccupati la percentuale dei disoccupati nascosti dalla Cig, il tasso arriverebbe all’11 per cento. Ma non è che a questi 400 o 500 mila “disoccupati nascosti” il fatto di essere cassintegrati rechi un beneficio: anzi, questo trattamento allontana per loro il reinserimento nel tessuto produttivo regolare. A me sembra che ce ne sia più che a sufficienza per convincersi che occorre una riforma profonda della Cig, con riduzione drastica del contributo e ritorno alla sua funzione originaria. Con quel che si risparmia in questo modo, si potrebbe finanziare un utilissimo trattamento complementare di disoccupazione, che potrebbe essere cogestito da imprese e sindacato, senza aggravi per le finanze dello Stato.

Statuto dei lavori, Codice del lavoro semplificato, strumenti per l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro, conciliazione tra lavoro e famiglia. E’ possibile, secondo lei, raggiungere in Parlamento una convergenza politica trasversale su questi temi, in modo da superare sui contenuti le attuali divisioni tra i partiti?
Se il Parlamento tornasse a occuparsi seriamente di questi problemi, una convergenza sarebbe certamente possibile. Lo dimostra quello che è accaduto in Senato cinque mesi fa: il 10 novembre è stata approvata con una larghissima maggioranza bi-partisan una mozione presentata da senatori di diverse parti politiche, primo firmatario Francesco Rutelli, che impegna il Governo a varare un Codice del lavoro semplificato “ispirato anche al disegno di legge n. 1873/2009”: quello di cui sono primo firmatario, insieme ad altri 54 senatori. Il giorno dopo il ministro Sacconi ha invitato le Parti sociali a esprimere un avviso comune su di un “testo unico semplificato delle norme in materia di rapporto di lavoro”, che restituisca maggiore spazio alla contrattazione collettiva. Perché a queste sollecitazioni del Parlamento e del Governo le Parti sociali hanno risposto con un silenzio totale? In questo processo di riforma, a dettare l’agenda dovrebbe, al contrario, essere proprio il sistema delle relazioni industriali, la contrattazione collettiva.

In Germania sembra prendere consistenza la proposta di un salario minimo per il lavoro interinale, che garantisca soprattutto i lavoratori dell’ex DDR. Potrebbe funzionare anche in Italia, pensando al gap, anche stipendiale, tra Nord e Sud?
Per quel che ne so, in Germania ci si sta orientando a un salario minimo temporaneamente differenziato in relazione ai Laender in cui si applicherà. Anche in Italia un salario minimo svolgerebbe una funzione molto positiva nella vasta area del lavoro di serie B o C, dove oggi lo standard collettivo non arriva. Ma in Italia abbiamo disparità territoriali anche superiori rispetto a quelle della Germania post-1989. È sotto gli occhi di tutti, per esempio, che per uno start up in Calabria non si possono realisticamente applicare gli stessi standard minimi della Lombardia.

Sta dicendo che occorre reintrodurre le gabbie salariali?
Sto dicendo proprio il contrario: occorre semmai sgabbiare la contrattazione collettiva. Occorre lasciare che una contrattazione collettiva decentrata adatti gli standard minimi alle condizioni regionali molto più liberamente di quanto non accada oggi; e poi definire il salario minimo in sede amministrativa facendo riferimento all’articolazione effettiva degli standard collettivi. Si può anche compiere la scelta opposta: decidere cioè di confermare l’impianto centralistico tradizionale degli standard minimi e rafforzarlo con un minimum wage di fonte legislativa o amministrativa. Ma allora occorrerebbe essere coerenti fino in fondo.

Cioè?
Cioè occorrerebbe chiudere senza pietà le aziende che si avvalgono del lavoro nero (per scovarle basterebbe confrontare i tabulati dell’Enel con quelli dell’Inps), o le aziende che assumono solo personale con la partita iva a 5 euro l’ora: tutti casi di violazione plateale dello standard fissato centralmente, che in vaste zone del Sud sono però il modo normale in cui si trova lavoro. Poi, naturalmente, occorrerebbe invitare a migrare a nord o all’estero tutti i giovani del sud che oggi lavorano in quelle aziende per 600 euro al mese. Se non è questo che vogliamo, dobbiamo disegnare una road-map per lo sviluppo del Mezzogiorno; e una parte essenziale di quella road-map non può che essere costituita da una contrattazione collettiva regionale e aziendale dedicata in modo specifico a rendere il nostro Sud, nonostante tutti i suoi handicap socio-politici, più attrattivo per gli investimenti, da qualsiasi parte essi vengano. Incominciando dalla cultura delle regole e della legalità.

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