NEL DECENNALE DELL’UCCISIONE DI MASSIMO D’ANTONA

LA PARTE MENO CONOSCIUTA DELLA LEZIONE DEL GIUSLAVORISTA ASSASSINATO DALLE BRIGATE ROSSE SULLA PORTA DI CASA IL 20 MAGGIO 1999

Articolo pubblicato sulla rivista della Filt-Cgil No Stop, maggio 2009

L’ultimo momento importante di incontro tra Massimo D’Antona e il mondo sindacale del settore dei trasporti fu quello dalla sua chiamata, nel maggio 1997, a far parte dell’organo di governo dell’Enav, allora ancora ente di natura pubblica. Tra le missioni che il ministro dei trasporti Claudio Burlando gli affidava vi era quella di cercare di mettere ordine in un sistema di relazioni industriali che appariva impazzito, ricostruire un ordinamento decente in una situazione nella quale ogni razionalità sindacale pareva bandita.
In quel periodo all’Enav si registravano in media ottanta annunci di scioperi ogni anno, fra nazionali e locali; e gli scioperi effettivamente attuati erano ogni anno intorno alla cinquantina. Erano per lo più proclamati da un sindacato o gruppetto di sindacati contro l’altro, in una rincorsa infinita tra i lavoratori di una categoria professionale e quelli di un’altra, o tra il sindacato più forte in una sede e quello più forte in un’altra. Ogni volta lo sciopero, anche se proclamato da sindacati con un livello infimo di rappresentatività, aveva l’effetto di bloccare non soltanto il lavoro di qualche decina di controllori di volo, ma anche di centinaia, migliaia o decine di migliaia di altri lavoratori del settore aereo (piloti, assistenti di volo, personale aeroportuale) e di viaggiatori. Massimo D’Antona si era rimboccato le maniche e si era impegnato a fondo per ridare un senso accettabile alle relazioni sindacali in una situazione in cui esse parevano averlo totalmente perduto. E anche da quell’esperienza aveva tratto le idee cui si sarebbe di lì a poco ispirato il legislatore per l’aggiornamento e integrazione della disciplina dello sciopero nei servizi pubblici, con la legge n. 83 del 2000. Ma a lui non è stato dato di vedere il varo di quella legge.
Nell’autunno 1999, pochi mesi dopo il suo assassinio, il ministro dei trasporti Pierluigi Bersani mi chiese di entrare nel consiglio di amministrazione dell’Enav, destinato a essere trasformato dal 1° gennaio 2000 in impresa di natura privatistica, per tentare di riavviare l’opera intrapresa: mi si chiedeva di riprendere il tentativo di costruzione di un sistema moderno di relazioni industriali in un’azienda che appariva presa in ostaggio dalle forme peggiori del sindacalismo. Fu quello il solo momento – per così dire – di congiunzione della mia esistenza con quella di Massimo. Non avevo avuto con lui rapporti particolari di collaborazione; ma riprendere le fila del suo lavoro mi parve come un modo di essergli, sia pur tardivamente, vicino e solidale.
Quando, in quel gennaio del 2000, entrai per la prima volta nella grande sala a vetrate, luminosissima, al secondo piano della sede dell’Enav sulla via Salaria, su di un lato del lungo tavolo erano seduti i rappresentanti aziendali delle tredici organizzazioni sindacali dei 3000 dipendenti dell’ente; e non tardai a constatare che i più aggressivi erano i meno rappresentativi. Mi tornarono alla mente le considerazioni che avevo sentito svolgere da Massimo in un convegno di due anni prima, sulla necessità di dare un senso positivo al pluralismo sindacale e di sviluppare un sistema moderno di verifica della rappresentatività di ciascuna associazione o coalizione. Quello che avevo di fronte e che aveva avuto di fronte lui in precedenza, all’Enav, non era un vero pluralismo: era un frazionamento esasperato della rappresentanza sindacale, che consentiva anche a organizzazioni dotate di un grado infimo di rappresentatività di esercitare un sostanziale potere di veto bloccando un servizio cruciale per il funzionamento dell’intero sistema-Paese. Se oggi in quell’azienda le relazioni sindacali sono divenute più costruttive rispetto a quello che erano dieci anni fa, è anche perché il seme della razionalità e della ragionevolezza gettato da Massimo D’Antona ha finito col dare qualche frutto.
Massimo apparteneva in modo fortemente organico allo schieramento politico di sinistra: aveva militato con grande convinzione prima nel partito comunista, poi nel partito dei democratici di sinistra; e aveva collaborato in modo continuativo e intenso con la Rivista giuridica del lavoro, edita dalla Cgil. Questo non soltanto non gli aveva impedito di individuare con grande lungimiranza le linee di tendenza dell’evoluzione e trasformazione del nostro sistema di protezione del lavoro, nell’era post-fordista, ma anzi lo aveva spinto a ragionare proprio sulla necessità di una profonda trasformazione delle tecniche normative e dell’ideologia stessa che è alla base del nostro diritto del lavoro. Su questo terreno la rilettura dei suoi ultimi scritti mi ha portato a individuare una sorprendente convergenza di alcuni tratti del suo pensiero, in materia di politica del diritto del lavoro, con alcuni tratti di quello di Marco Biagi.
Intendiamoci bene: tra il pensiero giuslavoristico di Massimo e quello di Marco è facile ravvisare differenze anche marcate su singoli punti. Entrambi, però, erano animati da una convinzione, che, a ben vedere, è assai più rilevante di quelle differenze: la convinzione, cioè, secondo cui il diritto del lavoro può essere difeso efficacemente soltanto se lo si aiuta a evolvere, ad adattarsi al mutare dei tempi, per poter conservare la propria essenziale funzione.
L’uno e l’altro – Massimo e Marco – in modi diversi hanno dedicato interamente la loro vita a questo mutamento e per questo sono stati uccisi da chi quel cambiamento teme, anzi aborrisce. Sì, perché le Brigate rosse – le nuove come le vecchie – sono soprattutto una forza di conservazione. Nonostante i toni rivoluzionari del loro linguaggio, esse sono in realtà di fatto abbarbicate al vecchio ordinamento, lo difendono con le unghie e con i denti: i loro proclami, espliciti o impliciti che siano, sono la quintessenza del conservatorismo.
Le Brigate rosse odiano chiunque lavori per la riforma del diritto del lavoro e per il suo adeguamento al nuovo contesto economico e sociale. Per questo i terroristi conservatori hanno puntato le loro armi contro Massimo e Marco e, prima di loro, contro Tarantelli, Giugni, Ruffilli e tanti altri riformatori. La loro logica mafiosa – quella del “colpiscine uno per educarne cento” – era ed è volta essenzialmente a paralizzare l’intelligenza riformatrice dell’intera comunità degli studiosi dei problemi del lavoro.
Nel suo ultimo intervento pubblico, 12 giorni prima di essere ucciso, Massimo D’Antona ha scritto che nel processo di evoluzione in atto “il diritto al lavoro perde qualcosa rispetto ai densi riferimenti storici che lo connotano”; e questo qualcosa “è il forte orientamento all’avere, alla stabilità, all’uniformità. Avere il lavoro, ossia il posto, con le garanzie della inamovibilità, cosa che si può esprimere anche in termini di property in job… rimanda a un modello di impresa e di organizzazione del lavoro rigida, uniforme, durevole; un modello che tende al declino”. Proseguiamo la lettura di quel suo vero e proprio testamento giuridico-culturale: “Il diritto al lavoro sembra spostare il suo baricentro sull’essere, ossia sulla persona. Quando si parla di impiegabilità della persona del lavoratore” – il riferimento qui è al valore dell’employability, oggi sottolineato in innumerevoli documenti comunitari – “quando si sottolinea l’irrinunciabilità di una tutela che assicuri a chi cerca, o cerca di conservare, il lavoro, uguali punti di partenza ma non uguali punti di arrivo, quando si indica nelle strategie di sostegno del lavoratore nel mercato il meglio che l’approccio microeconomico possa fare … altro non si fa che prendere sul serio il diritto al lavoro come garanzia costituzionale della persona sociale, aggiornandola, però, come garanzia dell’essere e non dell’avere”.
Oggi tocca a noi proseguire su quella strada. Per farlo dobbiamo innanzitutto spogliarci – tutti, a destra come a sinistra ‑ di quel tanto di faziosità che sovente avvelena i nostri discorsi quando si parla di problemi del lavoro. Ma dobbiamo anche avere ben chiaro il senso profondo del declino irrimediabile del vecchio modello di protezione cui entrambi, Massimo e Marco, hanno cercato di dare uno sbocco positivo, al prezzo della loro vita. «Prendere sul serio il diritto al lavoro, come garanzia dell’essere del lavoratore» – di tutti i lavoratori – «e non come diritto di proprietà su di un determinato pezzetto del tessuto produttivo» è l’essenza dell’esortazione che entrambi ci rivolgono. Forse abbiamo ancora qualche blocco mentale da superare, prima di riuscire a entrare davvero in questo ordine di idee, se ancora oggi, non soltanto dalle file della vecchia Sinistra, ma anche da autorevolissimi membri del Governo in carica, vengono reiterate dichiarazioni di intangibilità dei vecchi assetti del sistema di protezione, del regime di apartheid che oggi in Italia segrega tra loro protetti e non protetti.
A sette anni dalla morte di Marco Biagi e a dieci anni dalla morte di Massimo D’Antona, è tempo che, rispetto ai blocchi mentali del passato recente, sappiamo tutti voltar pagina.

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