TMNEWS: TREMONTI SBAGLIA BERSAGLIO, IL DUALISMO NASCE DALLE FALSE COLLABORAZIONI AUTONOME

QUANDO DENUNCIA L’ECCESSO DI CONTRATTI A TERMINE, IL MINISTRO DELL’ECONOMIA DIMENTICA CHE LA QUESTIONE CRUCIALE È COSTITUITA INVECE DAI MILIONI DI RAPPORTI DI COLLABORAZIONE QUALIFICATA COME “AUTONOMA”, MENTRE È SOSTANZIALMENTE DIPENDENTE

Intervista a cura di Pierpaolo Cinti per l’Agenzia TMNews, 11 giugno 2011

Il problema non nasce dai contratti a termine, la cui percentuale è in linea con la media europea: il dualismo nasce da quei milioni di contratti catalogati come collaborazioni ma che in realtà si sostanziano come lavoro dipendente a tutti gli effetti. Serve perciò una riforma che, senza oneri per lo Stato, e con vantaggi sia per le imprese sia per i nuovi assunti, garantisca flessibilità alle prime e sicurezza ai secondi (tutti). Il giuslavorista e senatore Pd Pietro Ichino commenta così le affermazioni del ministro dell’Economia, Giulio Tremonti che oggi, intervenendo al convegno dei giovani di Confindustria ha parlato di un “abuso” nell’uso dei contratti a tempo determinato e che bisogna mettere “un limite” a questa eccessiva flessibilità.
     “Il problema del dualismo del mercato del lavoro italiano – dice Ichino interpellato da TMNews – non è costituito tanto dai rapporti di lavoro subordinato a termine, la cui percentuale sul totale è tutto sommato in linea con la media europea. Il problema – evidenzia – è costituito dai milioni di rapporti di lavoro sostanzialmente dipendente, ma qualificati formalmente come collaborazioni continuative autonome se non addirittura come lavoro libero-professionale, quindi con partita iva, anche se si svolgono in modo continuativo con un unico committente e con pieno inserimento nella sua organizzazione aziendale”.
     La differenza tra le due categorie, insiste il senatore del Pd, non sta solo nel trattamento, ma anche nelle prospettive: “questi ‘falsi autonomi’ – spiega il senatore – sono il doppio se non il triplo dei contratti a termine; e tutti i dati disponibili stanno a indicare che i titolari di contratto a termine hanno buone probabilità di passare al lavoro subordinato regolare a tempo i mentre i ‘falsi autonomi’ hanno una bassissima probabilità di ottenere questa ‘promozione'”.
     La ricetta per superare questa situazione, spiega Ichino, è creare un sistema che coniughi flessibilità del mercato e sicurezza per i lavoratori. “Occorre urgentemente una riforma profonda del nostro diritto del lavoro che – sottolinea –  senza togliere nulla a chi oggi ha un rapporto stabile e regolare, per tutti i rapporti di lavoro sostanzialmente dipendente che si costituiranno da qui in avanti, preveda una disciplina capace di applicarsi veramente a tutti”. In pratica, aggiunge, “tutti a tempo indeterminato tranne i casi classici di lavoro a temine. A tutti le protezioni essenziali, in particolare quella contro le discriminazioni, ma nessuno inamovibile; e a chi perde il posto adeguate garanzie di continuità del reddito e di investimento sulla sua professionalità che ricostruiscano nel mercato del lavoro, quella sicurezza che non può più basarsi sulla ingessatura del rapporto di lavoro”.
     Secondo Ichino, perché questa riforma sia efficace “è indispensabile che i requisiti per la qualificazione del rapporto di lavoro come ‘dipendente’ siano immediatamente rilevabili dai tabulati dell’erario o dell’Inps”.  Il giuslavorista ricorda a tale proposito i contenuti del disegno di legge numero 1873 da lui presentato con altri 54 senatori nel 2009 che, spiega, “prevede che la nuova disciplina si applichi in tutti i casi in cui il lavoratore presta continuativamente la propria opera per un committente traendo dal rapporto più di 2/3 del proprio reddito complessivo di lavoro, e che il reddito stesso non superi i 40mila euro annui. In questo modo non saranno necessari né ispettori, né giudici, né avvocati per impedire le simulazioni e l’elusione della nuova normativa”. �
     In questo scenario l’introduzione della cosiddetta flexsecurity avrebbe costi tutt’altro che insostenibili grazie a un meccanismo che prevede una sorta di ‘scambio’. “Nel ddl – dice Ichino – si prevede a carico delle imprese un trattamento complementare di disoccupazione che porti l’indennità al 90% per il primo anno e 80% per il secondo anno. Ed, eventualmente, 70% nel caso raro in cui la disoccupazione si protrae per il terzo anno. Questo onere è compensato dall’esenzione del licenziamento per motivi economici organizzativi dal controllo giudiziale”. Nel dettaglio, all’impresa “è consentito licenziare per motivi economici e organizzativi senza subire il controllo del giudice sul giustificato motivo; questo consente immediatezza e rapidità di aggiustamento industriale, comportando un rilevantissimo risparmio per l’impresa stessa, che oggi invece questo aggiustamento non lo può fare se non in tempi molto lunghi; in cambio si chiede all’impresa di sostenere il costo di questo trattamento complementare”. Per cui, osserva Ichino, “il costo non sarebbe eccessivo perché se la ricollocazione del lavoratore licenziato avviene entro il primo anno, come già oggi accade in più di otto casi su dieci, il trattamento complementare di disoccupazione nel settore industriale e in altri settori vicini,ammonta al 10% perché l’80% lo paga già l’Inps. L’impresa se riesce ricollocare il lavoratore licenziato entro il primo anno ha un onere molto modesto; quindi ha un forte incentivo ad attivare i servizi di assistenza migliori”. Quanto alla fattibilità, Ichino puntualizza che “naturalmente questa ricollocazione richiederà l’intervento di una buona agenzia ‘outplacement’ e magari anche qualche investimento nella riqualificazione professionale del lavoratore  mirata agli sbocchi esistenti. Questi costi possono benissimo essere coperti dalla Regione anche con i contributi del Fondo Sociale Europeo che oggi vengono sprecati o utilizzati malissimo, o anche persi del tutto perché non siamo capaci di spenderli. Invece, potrebbero essere destinati a questo. L’impresa quindi – fa notare Ichino – è fortemente incentivata a scegliere bene il percorso di ricollocazione del lavoratore perché se sceglie una società di ‘outplacement’ che fa bene il suo mestiere, se sceglie il corso di riqualificazione migliore, risparmierà molto denaro; e la Regione, se fa bene il suo mestiere, rimborsa all’impresa questa spesa. A questo punto l’operazione è realizzata senza oneri eccessivi per l’impresa, e senza alcun danno economico o professionale per il lavoratore”.

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