LE RAGIONI DEL PROGETTO FLEXSECURITY

IL DISEGNO DI LEGGE N. 1873/2009 NON ALTERA LA POSIZIONE DI CHI HA GIÀ UN POSTO DI LAVORO STABILE E NON PREVEDE LA SOPPRESSIONE DI ALCUN TIPO LEGALE DI CONTRATTO DI LAVORO: ESSO RIDISEGNA UN DIRITTO DEL LAVORO CAPACE DI APPLICARSI DAVVERO A TUTTI I LAVORATORI DIPENDENTI E NON SOLTANTO A METÀ DI ESSI

Editoriale pubblicato da Europa il 21 settembre 2011, in risposta a un intervento di Sergio D’Antoni sullo stesso quotidiano del giorno precedente, a seguito della presentazione della denuncia alla Commissione Europea contro il dualismo del mercato del lavoro italiano

        Al “progetto flexsecurity” vegono mosse frequentemente due critiche che non corrispondono al suo contenuto effettivo. La prima si appunta contro la “riduzione delle protezioni per i lavoratori oggi garantiti”: il progetto, invece, riguardando soltanto i rapporti di lavoro destinati a costituirsi da qui in avanti, non cambia una virgola della disciplina della stabilità dei rapporti di lavoro esistenti. La seconda critica si appunta contro il preteso irrigidimento che si determinerebbe nel tessuto produttivo, con l’imposizione di un “contratto unico” di lavoro: il progetto, invece, non sopprime neppure uno dei tipi contrattuali esistenti, ma ha solo la pretesa di dettare per tutti i nuovi rapporti di lavoro sostanzialmente “dipendente” un’unica disciplina della stabilità, cioè del licenziamento.
        La cosa curiosa è che entrambe quelle critiche compaiono anche nell’intervento pubblicato ieri su Europa a firma di Sergio D’Antoni: un parlamentare con una grande competenza specifica e che a questo dibattito partecipa da anni in prima persona. È una conferma della difficoltà di questa discussione: persino noi addetti ai lavori stentiamo a chiarirci le idee sulla materia dei nostri dissensi. Invito comunque Sergio e tutti coloro che come lui sono davvero interessati a risolvere il problema gravissimo del dualismo del nostro mercato del lavoro – a esaminare più da vicino il contenuto del progetto, vuoi nella versione originaria contenuta nel disegno di legge n. 1873, che ho presentato nel 2009 con altri 54 senatori democratici, vuoi nella sua versione più sintetica che compare nel disegno di legge n. 4277 presentato da Enzo Raisi e Benedetto Della Vedova alla Camera nell’aprile scorso.
        D’Antoni scrive: “All’ipotesi di un ‘contratto unico’ va contrapposta la prospettiva di un ‘diritto unico’ del lavoro”. È esattamente quello che a cui mira il d.d.l. n. 1873: un nuovo Codice del lavoro semplificato, che condensa l’intera legislazione di fonte nazionale sulla materia in 70 articoli semplici, leggibili anche dai profani, scritti in modo da essere facilmente traducibili in inglese; e, soprattutto, suscettibili di essere applicati in modo universale a tutti i rapporti di lavoro sostanzialmente dipendente che si costituiranno d’ora in poi. Senza togliere nulla a chi oggi già dispone di un rapporto di lavoro stabile. Dunque, i vecchi insider non hanno nulla da perdere con questa riforma; la questione che dobbiamo porci, e che pongo a D’Antoni e a tutti i “detrattori da sinistra” del progetto è questa: per un giovane che si affaccia oggi sul mercato del lavoro italiano è preferibile l’ordinamento attuale, o l’ordinamento delineato in questo progetto?
        Questo è il nodo cruciale alla cui soluzione nessuno può sottrarsi. Ciò che giustifica l’intervento protettivo è la situazione di dipendenza economica del lavoratore nei confronti dell’impresa: per questo aspetto, i lavoratori che oggi distinguiamo in “subordinati” e “parasubordinati” (co.co.co., lavoratori a progetto, partite Iva in condizioni di monocommittenza a basso reddito) sono tutti esattamente nella stessa posizione. Poniamoci dunque nei panni di un ventenne italiano che oggi si accinge a cercare lavoro e che ha un’altissima probabilità di farsi molti anni di lavoro “parasubordinato” prima di riuscire ad accedere al lavoro stabile regolare, ma anche una probabilità su due di non accedervi mai. Dal suo punto di vista, che senso ha mantenere un castello ipertrofico di protezioni nel quale sarà per lui difficilissimo entrare? Non è molto meglio per lui un diritto del lavoro semplice, essenziale, ma capace di offrirgli un accesso molto più facile e rapido a una protezione della stabilità e della sicurezza previdenziale crescente nel tempo? Se riteniamo insufficienti gli standard di protezione indicati nel progetto, rafforziamoli; ma per tutti, non soltanto, come accade oggi, soltanto per una minoranza di lavoratori di serie A.
        Lo stesso D’Antoni, poi, si fa carico anche delle critiche dei “detrattori da destra” del progetto: applicare davvero a tutti i lavoratori sostanzialmente dipendenti questo nuovo regime della stabilità crescente nel tempo non rischia di privare il tessuto produttivo del polmone di flessibilità di cui esso oggi gode per effetto del lavoro “parasubordinato”? Potrei replicare che, se 75 imprese di grandi, medie e piccole dimensioni hanno scritto al ministro del Lavoro per chiedere di poter sperimentare questo nuovo regime per le loro nuove assunzioni, se il Gruppo Intersettoriale Direttori del Personale con i suoi 2000 iscritti ha fatto proprio senza riserve questo progetto, e se lo ha fatto proprio anche l’ex presidente di Confindustria Luca Cordero di Montezemolo, evidentemente il grado di flessibilità che esso garantisce all’impresa, a parità di costo del lavoro, è nettamente superiore rispetto a quello attuale.
        Se dunque da questo progetto chi è già “garantito” non ha nulla da perdere, le imprese guadagnano in flessibilità e le nuove generazioni di lavoratori guadagnano in qualità del rapporto di lavoro e in sicurezza economica e professionale, perché tante resistenze, anche da parte di chi è ben consapevole della gravità del problema?

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