UNA LETTURA ERRATA DEI DATI ISTAT NEL DIBATTITO SULLE CAUSE DEL PRECARIATO

NON È VERO CHE LAVORATORI “ATIPICI” E COLLABORATORI AUTONOMI SIANO PROPORZIONALMENTE PIÙ NUMEROSI NELLE IMPRESE SOTTO I 16 DIPENDENTI – PROPRIO IL DATO INVERSO, INVECE, CONFERMA LA CORRELAZIONE TRA RIGIDITÀ DELLA DISCIPLINA DEI LICENZIAMENTI APPLICABILE E “FUGA DAL DIRITTO DEL LAVORO”

Questa nota raccoglie i risultati di una ricerca svolta in preparazione del mio libro Inchiesta sul lavoro, in corso di pubblicazione per i tipi di Mondadori, che sarà in libreria ai primi di novembre 2011

Per confutare la tesi secondo cui il fenomeno del precariato persistente nel nostro tessuto produttivo è una conseguenza della rigidità della protezione della stabilità nei rapporti di lavoro regolari, Stefano Fassina, nella sua relazione all’assemblea programmatica del Pd svoltasi a Genova nel giugno scorso, ha proposto questo argomento: i dati Istat mostrerebbero che i falsi autonomi sono concentrati soprattutto nelle imprese di piccole dimensioni, dove l’articolo 18 non si applica. Donde la sua conclusione secondo cui non sarebbe la protezione forte contro i licenziamenti a causare “la fuga dal diritto del lavoro”.

I DATI FORNITI DALL’ISTAT SUGLI ADDETTI, DIPENDENTI E INDIPENDENTI, SECONDO LE DIMENSIONI DELLE IMPRESE (*)
Dimensione                    Imprese            Addetti             Addetti               Totale
delle imprese                                      indipendenti      dipendenti     �
≤15 dipendenti            4.356.236             5.441.349        4.108.086       9.549.434
>15 dipendenti               114.512               171.123        7.790.429        7.961.554
Totale                                                   5.612.472      11.898.515      17.510.988
(*) Da questi dati sono esclusi, oltre a impiego pubblico, agricoltura e lavoro irregolare, anche  i co.co.co. e i “lavoratori a progetto”, in relazione ai quali l’Istat non fornisce alcun dato circa le dimensioni delle imprese a cui sono addetti. 

     Ho esaminato da vicino questi dati Istat, intervistando in proposito dirigenti e funzionari competenti dell’Istituto. Il risultato dell’indagine è che su questo punto  il responsabile dell’Economio della Direzione del Pd è caduto in un equivoco, favorito dalla terminologia davvero poco chiara utilizzata dall’Istat.
     Dalla tabella riportata qui sopra si trae che in Italia le imprese di dimensioni inferiori o pari a 15 dipendenti, fuori, quindi, dall’area di applicazione dell’articolo 18, nel corso del 2009 (ultimo dato disponibile) sono 4.356.236 (valore medio nell’arco dell’anno), mentre quelle di dimensioni superiori sono solo 114.512; si trae inoltre che nello stesso anno i lavoratori subordinati addetti alle piccole sono 4.108.086, mentre quelli addetti alle seconde, cioè sopra la soglia dei 15 dipendenti, sono 7.790.429; infine – ed è questo il dato da cui nasce l’equivoco – si trae che i lavoratori qualificati come indipendenti “addetti” alle piccole sono 5.441.349, mentre gli indipendenti “addetti” alle imprese medio-grandi sono soltanto 171.123. Ecco la prova ‑ sostiene Fassina ‑ che l’articolo 18 non c’entra niente con la “fuga dal diritto del lavoro”: la quasi totalità dei collaboratori autonomi lavora per le piccole imprese, mentre gli autonomi che lavorano per le imprese dove si applica l’articolo 18 sono, in proporzione, pochissimi. Senonché questo argomento è viziato da due errori.

     1. L’istat colloca tra le “piccole imprese” anche tutte le “partite Iva” – Il primo errore sta nel non considerare che tra i 5.441.349 “indipendenti” addetti a piccole imprese ci sono anche tutti i lavoratori a cui l’impresa medio-grande fa aprire la partita Iva, pur lavorando essi di fatto continuativamente ed esclusivamente per l’impresa stessa: l’Istat li censisce tutti come piccole imprese con un solo “addetto” (il titolare, quindi indipendente), mentre fra i 171.123 “indipendenti addetti alle imprese medio-grandi” sono censiti solo i titolari delle stesse, o i loro presidenti di consiglio di amministrazione o amministratori delegati. Per esempio, in Italia a fine 2009 c’erano 15.202 giornalisti professionisti assunti con un rapporto di lavoro subordinato regolare, 612 praticanti e 30.194 iscritti alla “gestione separata” dell’Inpgi, l’istituto previdenziale del settore, dei quali un terzo “lavoratori a progetto” e due terzi – circa 20.000 – qualificati come liberi professionisti, “a partita Iva”; almeno metà di questi ultimi – circa 10.000 –, secondo stime attendibili, lavorano continuativamente ed esclusivamente per un’unica testata con un reddito molto basso, sotto i quindicimila euro annui, potendo quindi essere considerati sostanzialmente dipendenti; ciononostante ciascuno di questi 10.000 all’Istat viene considerato come titolare di un’impresa individuale senza dipendenti, quindi classificato dall’Istat, nella tabella riportata sopra, come “indipendente addetto a impresa di piccole dimensioni”.

     2. L’Istat colloca tra gli “addetti indipendenti” alle “piccole imprese” anche tutti i loro titolari – Il secondo errore sta nel non considerare che in quelle 5.441.349  persone che l’Istat classifica “indipendenti addetti a piccole imprese” ci sono i veri e propri piccoli imprenditori titolari di piccole aziende con pochi dipendenti: questi evidentemente non possono essere computati nel fenomeno della “fuga dal diritto del lavoro”. Se dunque dal numero spropositato di 5.441.349 addetti indipendenti alle piccole imprese togliamo i 4.356.236 titolari di queste stesse imprese (le quali non possono non averne almeno uno), restano 1.085.113 “addetti indipendenti”. Questi, però, non possono essere titolari di partita Iva che prestano di fatto servizio in posizione di sostanziale dipendenza presso imprese  con meno di 16 dipendenti di cui sia titolare qualcun altro: perche se così fosse – stante la terminologia e il criterio seguiti dall’Istat – il loro numero sarebbe andato a incrementare il numero delle imprese con meno di 16 dipendenti (che non sarebbe 4.356.236, ma sarebbe 5.441.349, cioè esattamente pari al numero degli “addetti indipendenti”). L’unica spiegazione possibile, dunque, stante la terminologia utilizzata e il criterio seguito dall’Istat, è che questi 1.085.113 “addetti indipendenti” a imprese con meno di 16 dipendenti siano co-titolari delle imprese stesse: per lo più coniugi, oppure soci in società di persone. E questa spiegazione mi è stata confermata dai funzionari e dirigenti dell’Istat consultati in proposito.

     3. Ma allora quanti sono i titolari di partita Iva sostanzialmente dipendenti e a quali imprese sono addetti? – Resta aperto questo quesito: quante delle 4.356.236 “imprese sotto la soglia dei 16 dipendenti” censite dall’Istat sono vere piccole imprese, e quante invece nascondono un collaboratore autonomo operante in modo continuativo e in regime di monocommittenza per un’unica impresa committente, con la conseguente qualificabilità del collaboratore stesso come “sostanzialmente dipendente”? L’Istat non dispone di questo dato, o quanto meno non lo pubblica (sarebbe invece assai importante che lo individuasse e lo pubblicasse).
     Per altro verso, dal Servizio Studi Bilancio del Senato apprendiamo che da altre fonti si trae la stima secondo cui, su dieci collaboratori autonomi in condizione di monocommittenza, otto lavorano continuativamente per una società di capitali, che solitamente è titolare di impresa di dimensioni medio-grandi (le imprese di minime dimensioni sono invece per lo più gestite in forma di imprese individuali o tutt’al più di società di persone). Donde la conferma del fatto che il fenomeno della “fuga dal lavoro subordinato”, quando assume la forma della collaborazione autonoma, riguarda, eccome, soprattutto l’impresa di maggiori dimensioni, quella soggetta all’articolo 18 dello Statuto del 1970.
     In via di prima e del tutto provvisoria approssimazione, nell’ipotesi in cui tutte le società di capitali avessero più di 15 dipendenti e tutte le altre imprese ne avessero meno di 16, si potrebbe formulare questa affermazione: nelle imprese di piccole dimensioni dove non si applica l’articolo 18 dello Statuto lavora più di un terzo dei lavoratori subordinati italiani (esclusi i dipendenti pubblici) e solo un quinto dei collaboratori autonomi in posizione di monocommittenza; le imprese di dimensioni maggiori danno lavoro a meno di due terzi dei lavoratori subordinati italiani, ma a quattro quinti dei collaboratori autonomi in posizione di monocommittenza. Il che non basterebbe certo per considerare dimostrato che l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori sia una causa del maggior ricorso a forme di lavoro dipendente atipiche, ma ne costituirebbe un pesante indizio.
     In ogni caso – ed è questo lo scopo di tutto il ragionamento – possiamo escludere che sia dimostrato il contrario; e possiamo escludere anche che i dati disponibili costituiscano un indizio in senso contrario.

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