COSA DEVE FARE IL GOVERNO MONTI IN MATERIA DI LAVORO

LA RIFORMA DEL LAVORO É NECESSARIA PER RIDARE CREDIBILITÀ AL NOSTRO PAESE E RICONQUISTARE LA FIDUCIA DEGLI OPERATORI INTERNAZIONALI

Intervista a cura di Anna Momigliano pubblicata sul bimestrale di attualità Studio il 24 novembre 2011

Pietro Ichino non fa parte del governo di Mario Monti. Ma basta leggere i discorsi del nuovo presidente del Consiglio e confrontarli con l’ultimo libro di Ichino – Inchiesta sul Lavoro, Perché non dobbiamo avere paura di una grande riforma, uscito in queste settimane per i tipi di Mondadori – per capire che la riforma del lavoro che Monti vorrebbe introdurre ricalca il modello di “flexsecurity” messo a punto dal giuslavorista e senatore del PD. Studio lo ha intervistato, per parlare del suo saggio, del sistema-Italia e del margine di manovra del nuovo esecutivo.
In questi giorni si parla molto di riforma del diritto del lavoro, di cui l’Italia sembra avere molto bisogno. Quanto una riforma del lavoro può però aiutare la situazione italiana, quando i problemi sembrano più incentrati sulle risposte a breve termine dei mercati?
Il problema italiano nasce dalla sfiducia degli operatori internazionali nella nostra capacità di far fronte al nostro debito pubblico non nell’immediato, ma negli anni prossimi. Per risolvere questo problema sono utilissime tutte le riforme che contribuiscono a rendere credibile la prospettiva di un Paese capace di rafforzare la propria economia nel medio periodo. Anzi, a ben vedere, sono solo queste, proiettate nel medio termine, le riforme che servono a riconquistare davvero la fiducia.

Il nuovo governo sembra avere le idee chiare sulle riforme da adottare, ma che possibilità ha di trovare sostegno in Parlamento?
La sua forza sta innanzitutto nel fatto che lo scioglimento delle Camere oggi farebbe precipitare immediatamente la crisi. E qualsiasi forza politica che lo provocasse verrebbe sicuramente punita dagli elettori. Inoltre, i sacrifici necessari sono tanto più accettabili e politicamente praticabili, quanto più sono equamente ripartiti; mentre normalmente i Governi tendono a privilegiare, con i propri provvedimenti, il proprio elettorato, il Governo Monti non ha alcun elettorato da privilegiare. Così, paradossalmente, proprio il suo essere un Governo “non politico” costituisce la fonte della sua straordinaria forza politica in un momento di grave emergenza come questo.

Lei cita i dialoghi dei brigatisti che volevano ucciderla (riportati nella sentenza della Corte d’appello a Milano) e ritorna spesso sulla figura di Biagi. Perché in Italia i giuslavoristi sono il bersaglio principale del terrorismo politico?
Perché il diritto del lavoro è una materia politicamente “calda”, nella quale è intensamente implicata la vita e la sicurezza delle persone.

Il clima di oggi – con le misure di austerità che sembrano solo all’inizio – è diverso del 2002?
Sì, molto diverso. E il modo in cui il nuovo premier Mario Monti ha affrontato la questione della riforma del lavoro nel suo discorso programmatico al Senato ha contribuito a svelenire il clima, chiarendo che la nuova disciplina riguarderà soltanto i rapporti di lavoro che si costituiranno da qui in avanti, non i rapporti di lavoro già costituiti.

Nel suo libro critica duramente l’attaccamento di segmenti del Pd e della CGIL all’articolo 18. Come si spiega, storicamente e politicamente, l’attaccamento a un ordinamento giuridico che, per usare sue parole (pag 57) “ha perso il contatto con la realtà”?
Si spiega con il provincialismo che caratterizza la cultura politica e industriale del nostro Paese. La tecnica protettiva adottata nell’articolo 18 è una tipica espressione del cosiddetto “modello mediterraneo” di organizzazione sociale e del welfare; se si resta legati a questo modello, non c’è dubbio che l’articolo 18 conserva un appeal imbattibile per chi effettivamente ne gode. Ma oggi in Italia ne gode meno di metà dei lavoratori dipendenti. Dobbiamo uscire da questo modello sociale, se vogliamo voltar pagina con il regime attuale di apartheid fra lavoratori protetti e non protetti che caratterizza il nostro Paese, e se vogliamo ridare ossigeno alla nostra economia. Occorre quindi che individuiamo un nuovo equilibrio verso il quale far transitare il nostro tessuto sociale e produttivo.

Lei fa una distinzione che parrebbe scontata e invece è frequentemente ignorata nel dibattito politico sulla regolamentazione del lavoro: cioè la distinzione tra l’ “elusione del diritto del lavoro” (pag 63) e la regolamentazione dello stesso [questa parte della domanda mi sembre molto mal formulata]. In pratica lei sostiene che il mondo del lavoro è troppo regolamentato, ma visto che in pratica è facile aggirare questa regolamentazione i lavoratori sono meno tutelati, o sbaglio?
La tecnica protettiva della sicurezza del lavoratore che si esprime nell’articolo 18 porta sostanzialmente a una forte “ingessatura” del posto di lavoro, perché rende il licenziamento molto rischioso e costoso per l’imprenditore. Il risultato è che le imprese riservano il rapporto di lavoro regolare soltanto a un “nocciolo duro” di lavoratori dipendenti, mentre per i “periferici” cercano in tutti i modi di utilizzare forme di rapporto di lavoro che consentano di scaricare su questi tutta la flessibilità di cui esse hanno bisogno. Il risultato è il tessuto produttivo duale, che abbiamo sotto gli occhi, nel quale, per esempio, tutto il peso della crisi gravissima degli ultimi tre anni è stato scaricato sui lavoratori di serie B, C e D.

Un altro concetto interessante, e connesso a quello precedente, è quella che lei definisce come l’ “apartheid tra protetti e non protetti.” La soluzione dunque è convincere una parte delle vecchie generazioni (i protetti) ad accettare che parte dei loro privilegi vengano ritrattati a favore di una maggiore tutela delle nuove leve (cioè i non protetti?)”
No: come dicevo prima, la riforma non modificherà in nulla la posizione di chi oggi è protetto dal vecchio diritto del lavoro. Essa si limiterà a ridisegnare un diritto del lavoro per i nuovi rapporti di lavoro che si costituiranno da qui in avanti, capace di essere davvero universale e di applicarsi a tutti allo stesso modo: tutti a tempo indeterminato (tranne i casi classici di lavoro a termine per lavori stagionali, sostituzioni temporanee, ecc.), a tutti le protezioni essenziali secondo i migliori standard internazionali ed europei, ma nessuno inamovibile. A chi perderà il posto, l’impresa dovrà garantire, secondo uno standard predefinito, mediante un “contratto di ricollocazione”, la necessaria sicurezza economica e professionale nel passaggio dalla vecchia occupazione alla nuova.

La dicotomia tra lavoratori iperprotetti e precari è anche l’elemento che alcuni usano per criticare la Legge Biagi: si rinfaccia ai governi degli ultimi 15 di avere liberalizzato sino all’estremo le nuove forme di lavoro senza quasi intaccare l’immobilismo delle precedenti. In breve chi utilizza questa critica sostiene che bisognerebbe facilitare i lincenziamenti dei lavoratori assunti, anziché “inventare” forme alternative all’assunzione. Ma nonostante anche lei punti il dito contro “l’apartheid” nel mondo del lavoro lei scrive favorevolmente della Legge Biagi, vuole spiegare il perché?
Se si guarda alla sostanza, la legge Biagi non ha introdotto alcuna nuova forma di lavoro precario: si è limitata a regolare, per lo più introducendo maggiori vincoli rispetto all’ordinamento precedente, tipi di rapporto marginali che già esistevano in precedenza. Il solo tipo legale nuovo introdotto dalla legge Biagi è costituito dal cosiddetto staff leasing, che costituisce una forma di organizzazione del lavoro nella quale il lavoratore è titolare di un rapporto a tempo indeterminato, protetto dall’articolo 18. Per questo dico – e lo ho scritto e argomentato anche nel mio libro Inchiesta sul lavoro – che quando la sinistra politica e la sinistra sindacale hanno individuato nella legge Biagi la causa del fenomeno del precariato, esse hanno sbagliato clamorosamente il bersaglio.

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