PERCHE’ ACCETTO LA CANDIDATURA

Pubblicato il 21 febbraio 2008 sul Corriere della Sera in risposta alla lettera aperta di Franco Debenedetti

Caro Franco,
puoi immaginare quante risonanze abbia in me il tuo ammonimento. Accettare di tornare in Parlamento significa rinunciare non soltanto al mio lavoro di editorialista del Corriere, ma anche a quello di professore in un dipartimento universitario che ho contribuito a costruire dal nulla nel corso di un quarto di secolo e che considero uno dei migliori del Paese nel campo degli studi del lavoro e del welfare.

E poi: lasciare la direzione di una rivista di diritto del lavoro a cui ho dato l’anima per decenni; interrompere il mestiere di avvocato che mi è stato insegnato da mio padre e mio nonno e che considero il più bello di tutti i mestieri; condannarmi a una vita scomoda, sempre in viaggio, su e giù da aerei e treni, lontano da casa. Tutto questo per che cosa? Per un posto di peon nelle defatiganti liturgie romane, o peggio nelle risse scomposte cui le cronache parlamentari ci hanno abituati?
No di certo. Il fatto è che se ci rassegniamo a un Parlamento che conti meno di un’aula universitaria o di una prima pagina di giornale, sia pure del più importante, poi non possiamo lamentarci che tra la gente prevalga l’anti-politica. Se ci rassegniamo all’idea che essere parlamentari di un partito significhi rinunciare anche solo a un poco della propria indipendenza di giudizio e di parola, quindi perdere credibilità di fronte all’opinione pubblica, non possiamo lamentarci che la gente identifichi la politica con la faziosità; e che essa non creda più a niente se non al proprio interesse particolare. Per riattivare il grande “gioco a somma positiva” del senso civico, di quella cultura delle regole di cui l’Italia ha fame e sete, oggi servono soprattutto persone di cui la gente possa fidarsi per la loro storia personale, indipendentemente dal partito nelle cui liste si candidano; uomini politici capaci di incarnare nel loro stesso comportamento personale la dedizione esclusiva alla res publica.
Io dalla società, dal mio Paese, finora ho avuto tutto ciò che potevo desiderare, in grande abbondanza, senza gran merito. Di tutto questo non avevo e non ho alcun diritto. L’unica possibile giustificazione di tanti privilegi sta nell’essere pronto a rimetterli in gioco, se questo può essere utile al Paese stesso che me li ha dati. Oggi, in un momento difficilissimo per la Nazione, di fronte a una persona che considero limpida e coraggiosa, come Walter Veltroni, che mi chiede di dare una mano per restituire alla gente fiducia nella politica, nelle istituzioni, non ho il diritto di tirarmi indietro. Certo che, apparentemente, sacrifico moltissimo: rinuncio in un solo colpo a tante posizioni di prestigio e anche di potere effettivo. Ma quanto maggiori sono le prerogative e le gratificazioni che lascio, tanto più forte è il messaggio che spero di riuscire a lanciare ai miei concittadini: lo faccio nel tentativo di convincerli che la politica può anche essere un gioco pulito e non animato solo da spirito di parte o da interessi particolari; che per parteciparvi può anche valere la pena di sacrificare la tribuna autorevolissima del Corriere, il piacere e il calore degli studenti intorno alla propria cattedra, una parte del proprio reddito, una vita comoda e tranquilla.
Ciò di cui oggi l’Italia ha bisogno, più ancora che delle pur utilissime analisi e ricette per il risanamento, è la fiducia della gente in un ceto politico veramente autorevole: di quell’autorevolezza che nasce dal senso dello Stato e dal totale disinteresse personale. Forse sbaglio; ma mi sembra che questo sia il contributo più utile che posso dare al mio Paese. E che proprio ora sia il momento in cui è più necessario farlo.

Pietro Ichino

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