COME HO CONOSCIUTO DON LORENZO MILANI

E COME IL CONOSCERLO È STATO PER ME QUASI UN ESSERE MARCHIATO A FUOCO – IL PRINCIPIO MORALE “IN EXTREMIS OMNIA SUNT COMMUNIA” E L’INDIVIDUAZIONE DELL’EXTREMUM IN OGNI INGIUSTIZIA SOCIALE

Testo integrale di un’intervista a cura di Agnese Fedeli, destinata a essere pubblicata, con alcuni tagli per motivi di spazio, sul Messaggero di S. Antonio, febbraio 2012

Professor Ichino, in che occasione ha conosciuto don Lorenzo Milani?
Andò così. Prima di entrare in seminario, ancora negli anni ‘30, Lorenzo Milani era stato molto legato a una cugina di mia madre, Carla Sborgi. Negli anni ’50 mia madre lesse il suo libro “Esperienze Pastorali”, rimanendone fortemente colpita; e ne acquistò dall’editore molte copie per farlo conoscere ai suoi amici. L’editore informò di questo acquisto di dimensioni inconsuete l’autore. Così si ristabilì il rapporto tra di loro. I miei genitori offrirono a don Milani tutto l’appoggio che potevano. E lui incominciò ad avvalersene chiedendo ospitalità per una decina dei ragazzi della sua scuola che intendeva portare a Milano per conoscere una grande città. In casa nostra furono messi molti materassi per terra dappertutto. Io mi aggregai al gruppo nella visita alla fabbrica della Pirelli-Bicocca e in alcune altre. A Barbiana andai diverse volte, ma più tardi.

Quanti anni aveva?
La prima loro venuta a Milano fu nel 1958, quando io avevo nove anni.

Che frequentazione ebbe poi con don Milani la sua famiglia? 
C’era uno scambio frequente di lettere. I miei genitori erano molto impegnati a soddisfare tutte le richieste – soprattutto di libri, ma anche di altre attrezzature utili per la scuola – che don Lorenzo inviava frequentemente. Quando veniva a Milano, ovviamente, non mancava di venire a trovarci, con o senza i suoi ragazzi al seguito.

Che tipo di confronto aveva con questi ragazzi?�
Una grande simpatia, sempre. Ma, a dire il vero, con nessuno di loro ho mai avuto un rapporto particolarmente intenso. Era sempre don Lorenzo la persona su cui si concentrava tutta la mia attenzione. Ne ero profondamente affascinato.  

Ho letto che è stato l’insegnamento di don Milani a spingerla verso l’attività sindacale e verso il diritto. Perché, seppure con una frequentazione sporadica, il suo insegnamento è stato così forte?
Mi ricordo ancora come fosse ieri la volta in cui volle segnarmi come con un marchio a fuoco. Credo che fosse nel 1960; era venuto a trovarci, eravamo tutti – lui, i miei genitori, le mie sorelle e io – nel bel soggiorno della nostra casa di via Giotto; e lui, a bruciapelo, mi disse, facendo un gesto circolare per indicare tutto quel benessere: “per tutto questo non sei ancora in colpa; ma dai diciotto anni incomincia a essere peccato, se non restituisci tutto”. Credo che fu in quel momento che si decise il fatto che io non andassi a lavorare nello studio di mio padre, ma al sindacato. Come feci, già un anno prima di laurearmi, per restare poi alla Cgil per dieci anni filati. Ancora oggi, qualche volta mi chiedo perché non riesco mai a dire di no a chi mi chiede un incontro, una lezione, uno scritto, e molto raramente mi concedo una mezza giornata di vera vacanza; non ho ancora finito di restituire, e non finirò mai. Perché “Pierino” di Lettera a una professoressa ero allora, e “Pierino” sono rimasto tutta la vita; non ho mai cercato i privilegi, ma i privilegi hanno sempre cercato me. Nel 1979 – erano dieci anni che lavoravo a tempo pieno alla Cgil – non mossi un dito per esser mandato in Parlamento; ma era scritto che dovessi andarci io, perché sapevo qualche parola più dei miei compagni di partito e di sindacato. E poi la cattedra all’Università, lo spazio sui giornali, di nuovo l’elezione al Senato nel 2008, anche questa non da me cercata in alcun modo. Così, per quanto io cerchi di sdebitarmi, l’obbligo di restituzione derivante da quell’“avviso” di don Lorenzo di cinquanta anni fa non è mai estinto; anzi, aumenta in continuazione.

Leggendo la biografia di Neera Fallaci emerge questa figura di don Milano come di “monarca” assoluto nella sua scuola, il fatto che lui sempre fosse “il maestro” a Barbiana. Lo era in qualche modo anche fuori dalla scuola? Lo era anche a Milano?
Faceva sempre scuola, quando veniva a Milano coi suoi ragazzi, per dodici o sedici ore al giorno: girando per la città, visitando i monumenti e i luoghi cruciali della storia e della vita della città, ma più attento alla storia sociale che a quella politica. Le materie, durante queste visite, erano sempre principalmente due: la storia e la politica sociale. A cinquant’anni di distanza, non condivido più molto del comunismo integrale che ispirava la visione del mondo di don Lorenzo; alcune cose del suo insegnamento, però, mi sembra che non siano minimamente intaccate dal tempo. Una di queste è la teorizzazione del possesso del linguaggio come fonte di potere e della scuola come strumento per scardinare le disuguaglianze di classe. Un’altra è la sua considerazione sul limite etico del diritto di proprietà; diceva: “San Tommaso insegna che ‘in extremis omnia sunt communia’; è tutto questione di stabilire dov’è la soglia dell’extremum, dell’emergenza sociale”. Don Lorenzo ci insegnava a vedere sempre nella sofferenza umana, e soprattutto in quella originata dall’ingiustizia sociale, l’extremum che mette in discussione tutte le nostre avarizie.  

Si ricorda di quali fossero i suoi luoghi preferiti a Milano?
No, non saprei indicare un suo luogo preferito. Una cosa è certa, era più interessato ai luoghi di lavoro che ai monumenti.  

Delle sue visite a Barbiana, nel Mugello, che ricordi ha?
Barbiana era un luogo impressionante per la distanza che lo separava dal mondo “civilizzato”. Arrivarci era un’impresa: la strada allora era sterrata e piena di buche; e l’energia elettrica era arrivata da poco. Ma al tempo stesso era un luogo impressionante per il fervore di vita civile che don Lorenzo era riuscito, nonostante l’isolamento, a farvi nascere. La casa dove faceva scuola era piena di strumenti destinati all’apprendimento dei ragazzi, dai libri all’astrolabio, al grammofono, al proiettore, ai tabelloni appesi al muro.

I ragazzi come prendevano queste visite dall’esterno?
Ho il ricordo di loro come ragazzi molto aperti, simpatici, pieni di senso dell’umorismo. Si rideva spesso: anche delle differenze nel nostro modo di vestire, di parlare, di stare a tavola. In loro non ho mai sentito gli accenti di rimprovero per la ricchezza che spesso sentivo in don Lorenzo. Lui li educava a sottolineare sempre, ironicamente, quello che avevano loro in più di noi, ragazzi di città. Perché voleva che non avessero alcun complesso di inferiorità. Infatti non ne avevano: ero semmai io a sentire di avere qualche cosa in meno rispetto a loro, per il fatto di non poter stare tutti i giorni a quella scuola, con quel maestro.  

Don Milani era convinto che l’esperienza di Barbiana non fosse esportabile fuori da quel contesto. Anche secondo lei è così? Perché?
Esportabile no: don Lorenzo, con la sua personalità, la sua dedizione totale di maestro, “era” la scuola. Ma credo che l’esperienza di Barbiana possa essere oggi in qualche modo attuale: l’emergenza educativa che don Milani ha avvertito negli anni ‘60, in una realtà di contadini e montanari poveri e isolati, va affrontata ora in realtà caratterizzate da altre gravi forme di povertà ed emarginazione – penso alle periferie urbane degradate, al vuoto di valori che un po’ ovunque per i giovani è riempito da alcol, droga, “sballo”. Queste realtà reclamano educatori appassionati e rigorosi, una scuola che sia all’altezza della sua funzione. In questa sfida, quella di don Lorenzo Milani è una testimonianza importante cui guardare per recuperare il senso del “fare scuola”, pur nella diversità delle situazioni e dei problemi.


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