LA DIFESA DEL POPOLO: COME SI COSTRUISCE LA SICUREZZA DEL LAVORO

PERCHÉ È DIFFICILE SPOSTARSI DALL’ “EQUILIBRIO MEDITERRANEO” A QUELLO NORD-EUROPEO (E COME RIUSCIRCI)

Intervista a cura di Guglielmo Frezza pubblicata sulla rivista La difesa del popolo il 12 febbraio 2012

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Alla fine, simbolico o meno che sia il suo effettivo valore, è sempre attorno a quell’articolo che la discussione finisce per andare a incagliarsi. E nemmeno il governo Monti, col suo tavolo aperto per procedere alla riforma del mercato del lavoro «senza tabù», è sfuggito alla regola. Pietro Ichino, giuslavorista e parlamentare Pd, è una delle voci a cui – si dice – il Governo potrebbe prestare ascolto nella sua ricerca di soluzioni in grado di contemperare maggiore flessibilità nei rapporti di lavoro, specialmente per i giovani in “entrata” e una tutela più ampia di chi il lavoro lo perde rispetto all’attuale cassa integrazione che non si applica a tutti i settori.

Ma la lotta alla precarietà e la ricerca di “lavoro buono”, passa obbligatoriamente attraverso la modifica dello Statuto dei lavoratori?
La questione che oggi si pone al nostro paese è ben più ampia. Ciò che ci si chiede, in funzione della nostra integrazione nell’Unione europea e in particolare nel sistema dell’euro, è la transizione dal nostro vecchio “equilibrio mediterraneo” a un equilibrio più virtuoso, ispirato ai modelli centro e nord-europei. Cioè da un equilibrio fondato sul posto fisso del capofamiglia a garanzia di un welfare centrato sulla solidarietà familiare, a un equilibrio fondato sulla garanzia della sicurezza economica e professionale della persona che lavora, in una vita lavorativa nella quale sarà fisiologico che essa cambi più volte occupazione. 

Giusto, a parole. Ma il vero scoglio contro cui si sono infranti tutti i tentativi di ridisegnare il mercato del lavoro italiano è rappresentato dalla scarsità di risorse. Come offrire una protezione universale in contropartita di una maggiore flessibilità? E come si ripercuoterebbe sui conti pubblici?
Il progetto di riforma contenuto nel mio disegno di legge presentato nel 2009 è a costo zero per lo Stato. La proposta consiste in questo: reperire le risorse necessarie per garantire ai lavoratori un trattamento di disoccupazione di livello scandinavo eliminando gli sprechi e le piccole e grandi posizioni di rendita che oggi conseguono al vecchio modo con cui siamo soliti affrontare le crisi occupazionali aziendali.

Significa cancellare la cassa integrazione straordinaria o in deroga, a cui ci si è aggrappati in questi anni di crisi?
Ma quel che si risparmierebbe riconducendo la cassa integrazione alla funzione sua propria, basta e avanza per rafforzare e universalizzare il trattamento “di mobilità” oggi previsto per il solo settore industriale. E l’azzeramento del ritardo medio di anni, con cui oggi le imprese sono costrette a operare l’aggiustamento degli organici, genera risparmi dei quali si può ben chiedere alle imprese stesse di destinare una metà a un trattamento complementare di disoccupazione. L’onere di questo trattamento complementare, poi, diventerà uno stimolo efficace alle imprese per la più rapida ricollocazione dei lavoratori licenziati, anche attraverso il controllo sulla reale disponibilità di questi ultimi.

In ogni caso l’articolo 18 si applica solo nelle aziende con più di 15 dipendenti. Se guardiamo al Veneto, sappiamo che esse costituiscono solo una piccola parte dell’intero mercato del lavoro. Che cosa serve per sostenere l’occupazione nelle piccole imprese che rappresentano la spina dorsale del nostro sistema produttivo e che sono state quasi sempre assenti in passato dai tavoli della concertazione governo-sindacati-confindustria?
Uno dei nostri obiettivi deve consistere nel favorire la crescita delle dimensioni medie delle nostre imprese. Un altro obiettivo di grande importanza è quello di aprire il nostro paese agli investimenti stranieri, ai quali esso oggi è drammaticamente chiuso. Per questo occorre correggere alcuni grandi difetti, che penalizzano anche le nostre imprese, soprattutto quelle di dimensioni medie e piccole: ridurre i costi burocratici facendo funzionare meglio le amministrazioni pubbliche, rendere più efficienti le nostre infrastrutture di trasporto e di comunicazione, favorire un abbassamento del costo dell’energia; e poi: semplificare la nostra legislazione del lavoro, allineandola ai migliori standard internazionali, rendendola facilmente leggibile e traducibile in inglese.

E il sistema di relazioni industriali?
Osservo che su questo terreno si è fatto un notevolissimo passo avanti con l’accordo interconfederale del 28 giugno 2011. Restano però alcune notevoli manifestazioni di un antico accordo tacito protezionistico, che vede la parte più conservatrice degli industriali fare sponda alla parte più conservatrice del movimento sindacale: quell’accordo tacito che nell’ultimo quarto di secolo è stato alla base delle barricate che abbiamo sempre eretto, in vari modi e misure, contro le multinazionali che si proponevano di investire in casa nostra.

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