CHE COSA CI CHIEDE LA COSTITUZIONE IN MATERIA DI PROTEZIONE DEL LAVORO

UN PROBLEMA DI COSTITUZIONALITÀ EFFETTIVAMENTE SI PONE, MA NON SU QUESTO DISEGNO DI LEGGE, BENSÌ SULLA PROSPETTIVA DI LASCIARE INALTERATO IL NOSTRO ORDINAMENTO ATTUALE DEL MERCATO DEL LAVORO

Intervento nella discussione sul disegno di legge n. 3249/2012, svolto nel corso della seduta antimeridiana del Senato del 24 maggio 2012

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ICHINO (PD). Domando di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

ICHINO (PD). Signora Presidente, onorevoli colleghi, signora Sottosegretario, che – contrariamente a quanto dice il collega Lannutti – è presente e rappresenta degnamente il Dicastero, vorrei innanzi tutto proporre alcune considerazioni che avrei dovuto svolgere ieri sera sulle due questioni di costituzionalità sollevate dall’Italia dei Valori e dalla Lega, cosa che non ho potuto fare per l’incombere dell’orario di chiusura della seduta.
Per esprimere in modo più sintetico la nostra posizione al riguardo, porrei la questione così: un problema di costituzionalità esiste, ma non su questo disegno di legge, bensì sulla prospettiva di lasciare inalterato un ordinamento quale è quello che regola il mercato del lavoro oggi nel nostro Paese.
In primo luogo, esso consente di fatto che più di metà della forza lavoro sia esclusa dal campo di applicazione della normativa generale di protezione della stabilità del lavoro, come se l’articolo 35 della Costituzione valesse solo per l’altra metà dei lavoratori. Su questo punto non ho sentito accenti sdegnati da parte di chi ha sollevato le questioni di costituzionalità ieri respinte dalla nostra Assemblea.
In secondo luogo, il nostro è un ordinamento che ancora oggi, a più di sessant’anni dall’entrata in vigore della Costituzione, non dispone di un sistema universale di sostegno del reddito dei lavoratori dipendenti che perdono il lavoro.
Il nostro è, infine, un ordinamento caratterizzato, ormai da sessant’anni, da una crepa profonda, costituita dalla contraddizione tra il principio di insindacabilità delle scelte di gestione dell’impresa, riaffermato infinite volte in astratto nelle sentenze delle corti superiori ma anche dei giudici di merito, e le numerose regole che prevedono invece un penetrante e ben comprensibile nella vecchia logica (ma appunto contraddittorio con il principio di cui sopra) controllo giudiziale sulle scelte imprenditoriali medesime.
Per la prima volta in sessant’anni, nei quali numerose leggi importanti in materia di lavoro sono state varate (ma negli ultimi decenni soltanto al margine, soltanto sulla fascia dei peripheral workers), un disegno di legge affronta e risolve innanzitutto il problema di dotare il Paese di un sistema di assicurazione universale contro la disoccupazione, d’impostazione moderna, estesa a tutto il mondo del lavoro subordinato. Nell’immediato, parlare a questo proposito di lavoro subordinato significa che il problema non è interamente risolto (anche se c’è un inizio di risoluzione) per quella parte di lavoro dipendente costituita dai cosiddetti collaboratori parasubordinati. Qui resta un problema aperto, quello del trattamento di disoccupazione per questi lavoratori, rispetto al quale l’impegno del Partito Democratico è di mantenere viva l’attenzione nel prossimo futuro. Quando le risorse disponibili lo consentiranno, sarà necessario un intervento più esteso e organico. Va anche detto però, a questo proposito, che, se le norme per il riassorbimento del precariato e di contrasto alla simulazione delle collaborazioni autonome produrranno il loro effetto, questo problema dovrebbe ridursi di peso, nel senso che l’area di scopertura dovrebbe necessariamente ridursi.
Questo, infatti, è il secondo punto essenziale della riforma: per la prima volta nell’ultimo quarantennio, da quando era incominciato a manifestarsi nel nostro Paese il fenomeno della fuga dal lavoro subordinato in funzione di elusione ed evasione del diritto del lavoro, attraverso l’abuso delle collaborazioni autonome, per la prima volta – dicevo – questo disegno di legge dispone una normativa volta a riassorbire almeno gran parte di queste forme di simulazione, difficilmente contrastabili con gli strumenti ispettivi e processuali fin qui utilizzati a tal fine.
Questo – osservo – è il presupposto indispensabile per poter avviare il riequilibrio di quello che è manifestamente un assetto insoddisfacente: quello della contribuzione previdenziale nella zona oggi grigia per mancanza di criteri di distinzione efficaci tra la simulazione e il vero lavoro autonomo. Se consideriamo che la contribuzione previdenziale sui redditi dei veri liberi professionisti iscritti alla gestione separata dell’INPS grava interamente sui medesimi, se consideriamo che la contribuzione previdenziale grava su di essi in rapporto al costo orario complessivo in misura superiore rispetto a quanto grava sul costo orario complessivo del lavoro subordinato, se consideriamo che già oggi la contribuzione previdenziale grava sui liberi professionisti in questione in misura nettamente superiore rispetto a quanto essa grava sui redditi dei liberi professionisti iscritti a casse pensionistiche di categoria, credo che sia evidente il dovere di noi tutti di impegnarci affinché, nell’ambito di una generale armonizzazione delle aliquote di contribuzione previdenziale gravanti sui liberi professionisti, a partire dal 2013 si realizzi una revisione anche del programma che in questo disegno si esprime e sul quale ho sempre manifestato il mio personale dissenso (non solo mio personale, del resto: abbiamo sentito come anche il collega Nerozzi abbia espresso poco fa la stessa posizione) rispetto alla scelta qui compiuta dal Governo. L’aliquota sui veri liberi professionisti della Gestione Separata INPS può essere armonizzata rispetto alle altre proprio in quanto il criterio distintivo fra vera libera professione e parasubordinazione, che è sostanzialmente lavoro dipendente che deve essere protetto come quello subordinato, si affermi in modo chiaro e netto.
Il terzo pilastro di questa riforma, coessenziale rispetto ai primi due, è costituito dall’allineamento del nostro ordinamento con il resto d’Europa anche in riferimento alla disciplina dei licenziamenti. A questo proposito l’intendimento fondamentale della riforma può esprimersi sinteticamente così: realizzare un ordinamento nel quale quella che la teoria generale del diritto qualifica come property rule, cioè la sanzione reintegratoria, si applichi nei casi di lesione di diritti fondamentali della persona: il diritto alla libertà, alla dignità e onorabilità personale e quindi la discriminazione o l’accusa totalmente infondata. Questi sono i casi in cui deve applicarsi la sanzione reintegratoria. In tutti i casi in cui, invece, sia in gioco soltanto un interesse economico o professionale del lavoratore, in linea con quanto accade in tutti i grandi ma anche meno grandi Paesi occidentali, industrializzati e avanzati, si deve applicare la cosiddetta liability rule, cioè si deve stabilire un indennizzo. Qui si realizza il superamento della contraddizione tra insindacabilità delle scelte gestionali e controllo sulle medesime scelte in funzione di tutela del lavoratore. L’indennizzo diventa il filtro delle scelte imprenditoriali, nel senso che diventa una misura automatica della perdita attesa dall’impresa (causata dalla prosecuzione del rapporto) idonea a giustificare il licenziamento, fissando la soglia oltre la quale la perdita stessa non può essere accollata al bilancio aziendale.
Ecco, con questo disegno di legge, anche se con qualche elemento di compromesso che rende meno nitida la linea di demarcazione tra il campo di applicazione della property e e quello della liability rule, noi affermiamo questo principio e in questo modo, ripeto, ci allineiamo, molto opportunamente, al resto dell’Europa.
Vorrei solo aggiungere, signora Presidente, che le principali questioni di costituzionalità che sono state poste e respinte ieri si appuntano fondamentalmente su quest’ultimo aspetto del disegno di legge, quasi che la nostra Costituzione sancisca un principio di immodificabilità costituzionale del campo di applicazione della property rule in materia di licenziamenti. È evidente che non può essere così perché, se fosse così, sarebbe incostituzionale tutta l’area del nostro diritto del lavoro dove la reintegrazione non si applica (infatti, ad esempio, alle imprese che contano fino a 15 dipendenti la property rule non si applica). La stessa Corte costituzionale lo ha detto più volte nell’arco dell’ultimo mezzo secolo. Ad esempio lo ha affermato nel 1965, nell’epoca in cui si discuteva della prima legge sulla giusta causa, quando ha avvertito come fosse molto opportuna quella legge allora in gestazione, specificando però che essa non era costituzionalmente vincolata. Lo ha ripetuto nel 2000, in occasione del referendum promosso dai radicali per l’abolizione dell’articolo 18, quando ha sancito la legittimità di quel referendum, proprio sul presupposto che la reintegrazione non è una sanzione costituzionalmente vincolata, ben potendo essa venir sostituita da una sanzione di carattere indennitario; e lo ha ribadito nel 2008 con la sentenza n. 351, dove ha rammentato che la reintegrazione può essere costituzionalmente vincolata nel settore pubblico, laddove essa tuteli un interesse pubblico alla libertà di esercizio della funzione contro discriminazioni o pressioni indebite, ma ha espressamente ribadito la non applicabilità di tale vincolo costituzionale nel settore privato.
Dunque, non solo possiamo respingere serenamente quelle questioni di costituzionalità, ma dobbiamo riaffermare che la Costituzione non afferma affatto un principio di immodificabilità di vecchie tecniche di tutela, bensì afferma il principio di necessario contemperamento tra le forme di tutela che il legislatore, nella sua discrezionalità, adotta e un principio di diritto al lavoro di chi il lavoro non lo ha, che troppo spesso viene dimenticato. Viene dimenticato, soprattutto, dai paladini di una “costituzionalità” che, secondo i loro intendimenti, dovrebbe servire soltanto a paralizzare il sistema, impedendo la sua evoluzione verso forme più progredite e avanzate. (Applausi dal Gruppo PD e dei senatori Castro e Sbarbati. Congratulazioni).

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