I BR E IL SIMBOLO ICHINO

 LA SCELTA DI COLPIRE CHI OPERA PER LA SOLUZIONE DEI PROBLEMI E PER LA MEDIAZIONE DEI CONFLITTI È UNA COSTANTE DEL BRIGATISMO – LA RIDUZIONE DELL’IDENTITÀ PERSONALE A SIMBOLO È IL PASSAGGIO INDISPENSABILE PER GIUSTIFICARE L’AGGRESSIONE

Articolo di Giancarlo Bosetti pubblicato su la Repubblica del 30 maggio 2012 – v. in proposito anche la mia lettera al Corriere della Sera  del giorno precedente 

Il leader delle «nuove Br» ha annunciato la necessità «esecutiva» di «sbarazzarsi di questo sistema». Un sistema personificato nell’aula d’assise di Milano dal senatore pd e giurista del lavoro Pietro Ichino. Nemmeno il concetto di «odio di classe» riesce a catturare il lugubre volteggio ideologico contenuto in queste parole. L’odio di classe abbraccia una certa ampiezza di figure sociali e può produrre bagni di sangue e guerre civili, ma la lineare chiarezza con cui Alfredo Davanzo, all’annuncio della condanna sua e dei suoi, dichiara che «questo signore», Ichino, «rappresenta il capitalismo», dice qualcosa di più elementare e diretto.
Quella scena ha mostrato come la «erezione a simbolo» di una persona possa prodursi nella nostra vita di oggi, davanti agli occhi dei giornalisti, del pubblico, dei giudici, di un gruppo di sostegno di parenti e amici degli imputati, che urlano la loro rabbia (contro la giustizia e contro Ichino). L’ideologia mostra qui la tessitura del suo farsi e consolidarsi nella mente come una struttura di sostegno, una architettura fatta di parole e idee di consolazione nella sconfitta, come una potente macchina generatrice di fantasmi, che danno ordini e tracciano la via.
E lascia immaginare per chi ci crede un inseguimento di sogni improbabili di rivincita. Era così anche negli anni di piombo, ma la partita allora, certo non meno lugubre, era più grande e ramificata, la razionalizzazione «di classe» delle imprese sanguinarie brigatiste nella lotta contro il «Sim», lo «stato imperialista delle multinazionali», annegava dentro un più vasto bacino di sovversivismo. Qui, nella scena più isolata, diventata rara, possiamo vedere meglio come un gruppo di militanti dell’estremismo operaista sia prigioniero della gabbia di ferro dell’ideologia ancora più che del carcere, dal quale peraltro qualcuno comincia a uscire, dopo la sentenza che cancella l’aggravante delle finalità terroriste.
Il senatore del Pd vive sotto scorta, era lì come parte civile nel processo e aveva avanzato una «proposta di dialogo», basata sulla richiesta di essere considerato non un simbolo, ma un essere umano e come tale di aver diritto a non essere aggredito. Due dei condannati, a 11 e 8 anni, Claudio Latino e Bruno Ghirardi, in una telefonata intercettata dicevano che a uno come lui «non è che gli puoi far nient’ altro che farlo fuori». La scelta di una figura del riformismo, di qualcuno che opera per la mediazione democratica dei conflitti sociali è una costante del brigatismo nazionale (da Tarantelli a D’Antona e Biagi). Ichino doveva essere la prossima vittima ed è stato scelto anche lui in base a un processo che nella mente dei potenziali «esecutori» consiste in una metamorfosi: il suo essere diventa un simbolo, la sua identità molteplice come quella di tutti noi diventa una sola: è il capitalismo da abbattere. La riduzione dell’identità a quella di simbolo è il passaggio indispensabile per giustificare e facilitare l’azione (qui per fortuna soltanto minacciata).
I giovani uccisi sull’isola di Utoya dal killer norvegese erano simbolo di una classe dirigente accusata di meticciare l’Europa; gli ambulanti senegalesi dí Firenze, uccisi da Gianluca Casseri, erano simboli dell’inquinamento razziale; Roberto Adinolfi, gambizzato dalla Federazione anarchica informale, è un simbolo del «tentacolo nucleare» del capitalismo. Non vendette ma esecuzioni simboliche. Nulla di personale. Spesso le menti blindate nelle loro proiezioni simboliche si liberano con il tempo da questa condizione. Purtroppo questo accade quando è troppo tardi e la riflessività ex post, talora brillante, non è più di aiuto per le vittime. Lo abbiamo imparato così bene da tante memorie di terroristi e di famigliari dei caduti: ah la scoperta che gli ammazzati erano anche padri, figli, fratelli, amici! Quanta umanità che prima non si vedeva.
L’amara e sofferta ironia (circa la scomparsa dell’aggravante terroristica) della lettera che Ichino ha scritto sul Corriere della Sera è da condividere e far nostra: nella realtà dovrà continuare a vivere accompagnato dalla scorta e nella mente di un gruppo di persone che vorrebbe «farlo fuori» continuerà a vivere da solo, come simbolo. In quelle teste – per quanto tempo? – si continuerà a proiettare la stessa scena «riduzionista» della sua identità, come in un film, che viene scambiato per realtà anche quando la pellicola è finita.

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