MARIAVITTORIA BALLESTRERO: LA COMUNITÀ DEI GIUSLAVORISTI E LA FUNZIONE IN ESSA DELLE “SCUOLE”

PER I GIOVANI STUDIOSI È PREZIOSA LA POSSIBILITÀ DI CONFRONTARSI CON UNO O PIÙ MAESTRI E CON ALTRI ALLIEVI, MA È ROVINOSO CHE I MAESTRI STESSI OFFRANO UNA PROSPETTIVA DI CARRIERA BASATA SOLTANTO SULLA PROPRIA FORZA ACCADEMICA

Lettera aperta di Maria Vittoria Ballestrero, professore di diritto del lavoro nell’Università di Genova, ai giuslavoristi italiani, inviata il 12 giugno 2012 a seguito del congresso svoltosi a Pisa nei giorni precedenti

Nell’Assemblea svoltasi sabato mattina a Pisa, in vista dell’elezione del nuovo direttivo dell’AIDLASS, non ho preso la parola. Mi ero già espressa pubblicamente e non mi pareva il caso di contribuire a far crescere la tensione indotta dall’operazione di “pacificazione”. Credo tuttavia che il messaggio rivolto ai giovani da Franco Carinci sulle scuole e sulla funzione delle riviste “domestiche” meriti di essere commentato. Non servirà a scalfire convinzioni e sentimenti evidentemente già radicati in molti; spero riesca almeno a far capire che, su questo come su altro, non esiste un pensiero unico.
Partirò dalle scuole e dai diversi significati della parola “scuola”.
Per scuola si possono intendere, nel contesto di una riflessione sugli assetti interni della nostra disciplina, cose assai diverse.
Il termine scuola può essere utilizzato per denotare l’aggregazione di un gruppo di studiosi intorno a scelte di metodo, a opzioni politiche e di politica del diritto. La presenza di una pluralità di “scuole di pensiero” è il sale di una disciplina, che si nutre della discussione e cresce nel confronto dialettico tra posizioni diverse.
Parlare delle scuole di pensiero, e del loro ruolo nella storia della nostra disciplina pretenderebbe un’analisi seria e approfondita che non ho certo la possibilità di fare in questa sede. Qui non posso che limitarmi a qualche breve e sommaria considerazione.
La nostra disciplina ha conosciuto in passato profonde divisioni tra scuole: divisioni che hanno coinvolto, a partire dalle opzioni politiche e di politica del diritto, anche il metodo del nostro lavoro di giuristi. I più anziani non hanno forse dimenticato la contrapposizione tra pubblicisti, privatisti e iper-privatisti; i meno giovani di noi ricordano certamente le accese discussioni che hanno preceduto e seguito l’entrata in vigore dello statuto dei lavoratori, e le contrapposizioni che ne sono derivate (con riflessi persino sulle vicende della nostra associazione). Col passare degli anni le posizioni si sono fatte più sfumate, e la discussione all’interno della disciplina si è fatta assai meno intensa: così anche i congressi dell’AIDLASS, che in qualche modo rispecchiano lo stato dell’arte, si sono fatti via via meno stimolanti e talora francamente noiosi (ma le elezioni del direttivo hanno saputo mantenere, per loro intrinseca virtù, un livello di litigiosità elevato).
La discussione si è fatta meno intensa, ma le contrapposizioni restano, come è normale e bene che sia. Anche le scuole di pensiero continuano ad esistere; ma guardando alla smisurata produzione scientifica (di cui è responsabile un bislacco sistema concorsuale) riesce spesso difficile individuare in quale scuola un lavoro affondi le sue radici. Solo considerando le scelte tematiche e i riferimenti bibliografici (almeno quelli prevalenti) si arriva talora a capire a quale scuola faccia capo l’autore.
Lo stesso termine scuola è spesso utilizzato anche in un altro significato: come luogo di provenienza degli allievi, ovvero come insieme organizzato di allievi intorno ad un capo-scuola, che costruisce la loro carriera attrezzandoli perché siano in grado di occupare i posti che il capo sarà in grado di procurare loro.
Della scuola così intesa ho un’esperienza assai modesta perché, pur essendo nata in una scuola, sono vissuta al suo interno solo pochi anni: troppo pochi per creare in me quel sentimento di appartenenza che consente di accettare le regole della scuola (e di giovarsene). Cosa significasse “appartenere” ad una scuola me lo ha fatto capire un’altra esperienza: quella dei due concorsi a cattedra che non ho vinto. Ma non voglio tediare nessuno con la mia autobiografia; se la richiamo è solo per dire che si può sopravvivere nell’accademia e acquisire una accettabile maturità scientifica anche fuori dalle scuole intese in questo secondo senso. Certo occorre che il percorso autonomo, al di fuori delle scuole e delle regole di scuola, non sia un percorso solitario. Io ho avuto la fortuna di trovare altri maestri, verso cui ho un grande debito di riconoscenza per quello che mi hanno insegnato e per l’aiuto morale (e anche materiale) che hanno saputo darmi. Ho avuto molti maestri, ma non ho mai appartenuto alla scuola di nessuno di loro: nel senso che non sono mai stata inserita tra i loro allievi e non ho mai occupato un posto nella scala gerarchica nella quale, per età o per altro, si collocano appunto gli allievi di una scuola. Insomma, molte scuole e nessuna scuola. La mia vicenda personale, che non pretendo sia originale, mi ha impedito di conoscere dall’interno i riti e i miti delle scuole. Come ho detto, l’esperienza dei concorsi me ne ha fatto conoscere la forza contundente: perché i concorsi sono stati, nel passato dei concorsi nazionali come nell’ultimo decennio dei concorsi locali, una faccenda di scuole. Accordi preventivi, alleanze elettorali, negoziazioni: i capi scuola hanno giocato le loro partite, determinando gli equilibri (e gli squilibri) della disciplina.
Nella nostra disciplina sono presenti scuole di lunga tradizione, che hanno germinato a loro volta altre scuole: il panorama presenta alcune aree stabili e aree terremotate, nelle quali le scuole tendono a segmentarsi, e dove ogni segmento si sposta frequentemente, mutando alleanze. Accanto alle grandi scuole (per grandi intendo qui numerose) si sono formate le piccole scuole, alcune delle quali sono scuole autonome (un professore indipendente o separato dalla scuola di origine e suoi pochi allievi), altre sono invece delle sub-scuole, vale a dire delle delocalizzazioni della scuola madre.
Il quadro è variegato, e spesso si scompone e si ricompone: ma la divisione per scuole resta più o meno costante.
È bene che sia così? Voglio dire: il progresso degli studi giuslavoristici si giova della divisione per scuole della disciplina? È una domanda alla quale è difficile dare una risposta, perché bisognerebbe prima aver chiaro in che senso possa parlarsi di progresso.
In ogni caso la mia risposta è insieme positiva e negativa.
La mia risposta è positiva, perché credo che le scuole, come luogo di formazione, siano indispensabili: conosco bene i difetti dell’auto-didattica, e so quanto può dare, in termini di crescita intellettuale, vivere la propria formazione all’interno di una scuola. Ma perché la scuola sia effettivamente il luogo (insostituibile) della formazione dei ricercatori occorre che siano soddisfatte alcune condizioni. Occorre anzitutto che a capo della scuola ci sia un vero maestro, cioè qualcuno capace di insegnare il mestiere della ricerca, e l’umiltà necessaria per intraprenderla, disponibile a leggere e correggere, a discutere, a incoraggiare l’autonomia di giudizio. Occorre in secondo luogo che i rapporti all’interno della scuola non siano costruiti secondo una gerarchia di tipo aziendale: sarebbe bene che i giovani allievi non fossero usati come “collaboratori”, perché devono soprattutto studiare e farsi le ossa nella ricerca. Sarebbe infine auspicabile che non si considerasse la devozione degli allievi meno giovani come cosa dovuta e immutabile.
Ma la mia risposta è anche (e soprattutto) negativa, perché credo che la presenza di scuole organizzate in modo feudale e che agiscono come blocchi di potere abbia conseguenze nefaste sul progresso degli studi.
– Primo, perché l’appartenenza ad una scuola accademicamente potente (di per sé o per l’inserimento in un gruppo potente) disincentiva i giovani ad occuparsi della qualità del loro lavoro di ricerca e incentiva invece la tendenza a preoccuparsi dei giochi e degli intrighi che garantiranno loro una carriera. Devo confessare che resto sempre impressionata (specie nei congressi AIDLASS) da quanto i giovani “apprendisti stregoni” siano informati, nei più minimi dettagli, di quanto avviene nella “alte sfere”, e di quanto ne parlino tra di loro.
– Secondo, perché l’appartenenza ad una scuola che opera come blocco di potere induce (o costringe: dipende dal carattere) a fedeltà che sono in netto ed insanabile contrasto con quella libertà e autonomia dalle quali dipende largamente la qualità del lavoro scientifico.
– Terzo, perché i concorsi gestiti da scuole che agiscono come blocchi di potere sono (inevitabilmente) mercati delle vacche. Ogni scuola ha diritto ad una certa percentuale di posti “a prescindere”; posti sulla cui destinazione deciderà al suo interno, secondo regole proprie e non sindacabili. Con buona pace delle valutazioni comparative.
Parliamo spesso (per lo più nella formulazione di commossi necrologi) della comunità scientifica: ma, onestamente, la divisione in scuole come blocchi di potere non è la negazione dell’esistenza stessa di una comunità scientifica? E senza una comunità scientifica che eserciti un severo controllo sulla qualità dei prodotti della ricerca, quale progresso ci si può attendere dagli studi di diritto del lavoro?
Sono domande retoriche e tuttavia meritano una risposta non retorica, che affronta il secondo capitolo della replica a distanza all’intervento di Franco Carinci. Chi lo ha ascoltato certo ricorda che il nostro ha sostenuto (con forza e sicurezza) che le scuole devono avere riviste proprie, sulle quali pubblicare i lavori dei giovani allievi, rivendicando come merito indiscutibile del capo-scuola (cioè di se stesso) la fondazione (o la condirezione) di riviste (per tacere di trattati e commentari) che mettono le proprie pagine a disposizione dei giovani che hanno “bisogno di pubblicare”.
Nel panorama della nostra disciplina sono fortunatamente presenti riviste qualificate, aperte alla collaborazione di autori di diversa provenienza e appartenenza, spesso neppure italiani. Tuttavia, la proliferazione delle riviste (un’anomalia italiana, che purtroppo l’Europa non ci chiede di eliminare) è conseguenza della logica evocata da F.Carinci, e specchio fedele della realtà della sovrabbondante produzione scientifica nostrana. Ma non accorgersi degli errori che viziano questa realtà non è meno grave del non accorgersi che le cose stanno cambiando, e nel giro di qualche anno saranno cambiate davvero.
Se si guardasse al futuro prossimo, anziché continuare a contemplare il proprio ombelico, i giovani non dovrebbero essere incoraggiati a scrivere lavori (possibilmente lunghi) di cui la scuola garantisce comunque la pubblicazione nella rivista domestica. Dovrebbero essere incoraggiati a scrivere solo lavori che siano in grado di superare il vaglio di una seria peer review; lavori che possano essere pubblicati in riviste scientifiche accreditate (poche, come avviene in molti altri paesi, dove si scrive assai meno che da noi, e pubblicare è difficile).
Certo, fino a quando per vincere i concorsi, la qualità scientifica si valuta a peso, le riviste domestiche servono, eccome, così come servono le monografie, anche se semi-clandestine. Ma non sarà così per sempre. La valutazione ha cominciato ad entrare nel nostro sistema, anche se stiamo tentando, all’italiana, di trovare scorciatoie truffaldine per farne una cosa poco seria. E sempre di più con la valutazione si dovranno fare i conti, in un sistema di concorsi nel quale i cambiamenti di alcune regole del gioco fanno inesorabilmente “saltare” alcune delle logiche del passato. In fondo è bastato negli ultimi concorsi il sorteggio dei commissari per mandare all’aria le strategie e gli accordi stipulati.  Mi astengo dall’esprimere giudizi sugli esiti; voglio solo dire che, quando cambiano le regole del gioco, bisogna cambiare il modo di giocare.
Guardando avanti, la logica delle scuole feudali e la potenza di fuoco delle riviste domestiche sono destinate a deperire. Mi auguro che questo costringa a dare finalmente spazio ad una vera comunità scientifica (una comunità di valutatori alla pari), che sappia esercitare, in modo serio e responsabile, il controllo e l’autocontrollo.
Maria Vittoria Ballestrero

kk

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