IL MATTINO: SE NE POSSONO TUTELARE ANCORA 24.500, PER GLI ALTRI INCENTIVI ALL’ASSUNZIONE

IMPOSSIBILE STRAVOLGERE LA RIFORMA FORNERO, LA DEROGA CI PENALIZZEREBBE CON L’EUROPA

Intervista a cura di Nando Santonastaso pubblicata su Il Mattino, 19 giugno 2012

Professor Ichino, le posizioni espresse sul suo sito e nell’articolo sul Corriere della Sera di ieri sulla questione scottante degli “esodati” sembrano aver scatenato contro di lei da parte degli interessanti reazioni ancora più dure di quelle suscitate dalle sue prese di posizione sull’articolo 18. Che cosa sta accadendo?
È molto radicata, e non soltanto da noi, l’idea che l’età e le condizioni di pensionamento che ci sono state prospettate nei decenni passati costituiscano un “diritto”, qualche cosa che ci siamo guadagnato e non ci può essere tolto.

E non è così?
Potrebbe essere così se i conti tornassero. Ma era evidente da tempo che i conti non potevano tornare.

Spieghi meglio.
Eravamo abituati all’idea che con 60 anni di età e 37 o 38 anni di contribuzione si potesse avere una pensione pari a tre quarti o quattro quinti della nostra ultima retribuzione. Ora, un italiano di 60 anni oggi ha una aspettativa di vita media di altri 23 anni. Se è un’italiana, sono 24. È evidente che 38 anni di contribuzione al 33 per cento non possono finanziare 23 anni di pensione. Infatti, quel sistema è rimasto in piedi per decenni solo perché lo Stato ha contribuito al bilancio dell’Inps con l’equivalente di centinaia di miliardi di euro ogni anno.

Però si diceva che la riforma Dini del 1995 avesse rimesso in sesto il nostro sistema pensionistico, eliminando questa anomalia.
Sì, il sistema introdotto dalla riforma Dini è perfetto. Peccato che abbiamo deciso di applicarlo soltanto ai ventenni e ai trentenni, continuando ad applicare alle generazioni precedenti il vecchio sistema, quello che sta in piedi solo se paga Pantalone. Questa è stata una delle manifestazioni peggiori dell’egoismo della mia generazione nei confronti di quelle dei nostri figli e nipoti. Così abbiamo continuato a drenare denaro pubblico per far uscire i cinquantenni e i sessantenni dal tessuto produttivo, aumentando il debito che lasciamo da pagare alle generazioni future.

Qualcuno osserva che la spesa sociale italiana non è più alta di quella dei maggiori Paesi europei, anzi è nettamente inferiore rispetto a quella dei Paese scandinavi.
Il fatto è che noi abbiamo utilizzato quasi tutta la nostra spesa sociale per mandare in pensione i nostri cinquantenni, come se le situazioni di bisogno fossero davvero quelle. Nei Paesi scandinavi si va in pensione dopo i 65 anni, ma si assistono in maniera perfetta le famiglie in cui nasce un bambino e quelle in cui c’è una persona disabile o un anziano non autosufficiente; si concentrano tutte le risorse sull’obiettivo di azzerare le situazioni di povertà e di carenza di assistenza ed educazione nell’infanzia e nella giovinezza. Quella sì che è spesa sociale.

Resta il fatto che in Italia ritrovare lavoro per un cinquantenne che lo ha perso è molto più difficile che in quei Paesi, e per un sessantenne è pressoché impossibile.
In parte questa difficoltà è dovuta al meccanismo degli scatti di anzianità, che sgancia le retribuzioni dalla produttività, tenendola troppo bassa nella fase iniziale del rapporto e facendola crescere troppo nella fase finale. Col risultato che il cinquantenne che perde il vecchio stipendio non trova più nessuno disposto ad assumerlo allo stesso livello retributivo. Poi, da noi si è radicata questa idea sbagliatissima per cui intorno ai 60 anni abbiamo una sorta di diritto alla pensione, anche se non abbiamo accantonato abbastanza.

Il problema degli anziani rimasi senza lavoro e senza pensione, comunque, esiste.
La questione nata dalla riforma del dicembre scorso riguarda situazioni molto diverse tra loro, che vanno affrontate in modi diversi. Un primo problema è quello dei lavoratori per i quali è stato stipulato prima della riforma un accordo collettivo che prevedeva lo scioglimento del rapporto e l’attivazione del trattamento di disoccupazione combinato con il pensionamento secondo le vecchie norme.

Questi sono già “salvaguardati” dallo stesso decreto “Salva Italia”.
Il decreto del dicembre scorso salvaguarda soltanto quelli il cui rapporto si sia concluso entro il 2011. Ne restano fuori ancora circa 24.500, per i quali era prevista una data di cessazione posteriore. Ora occorre provvedere per quelli per i quali l’accordo prevede la cessazione entro il 2012 e 2013. Ma ce ne sono anche alcuni di cui si prevede la cessazione nel 2014 e nel 2015.

L’Inps, però, parla di altri 300.000 casi.
Di quei 300.000 metà sono lavoratori che hanno perso il lavoro, o vi hanno rinunciato, nelle forme e per i motivi più svariati, tra il 2009 e il 2011. Un’altra metà sono lavoratori che sono stati autorizzati dallo stesso Inps negli anni passati al versamento di contributi volontari, per raggiungere il requisito minimo per il pensionamento.

E per questi secondo lei che cosa si dovrebbe fare?
Estendere a tutti questi la deroga alle nuove regole equivarrebbe a svuotare la riforma, tornare indietro rispetto alla scelta obbligata compiuta nel dicembre scorso. Non ce lo possiamo permettere sul piano finanziario, perché i soldi non ci sono; ma non possiamo permettercelo neppure sul piano politico, perché questo ci farebbe perdere tutto il credito che abbiamo acquistato in Europa in questi mesi.

Ora, però, se Monti e Fornero vogliono avere la riforma del mercato del lavoro approvata entro il 28 giugno occorre che concedano qualcosa su questo terreno.
Qualcosa concederanno, e la riforma del mercato del lavoro passerà entro quel termine. Ma la deroga alle nuove norme potrà riguardare soltanto i veri “esodati”, non tutti gli altri.

E per gli altri?
Il problema va risolto guardando avanti, non indietro. Si può pensare a un trattamento di disoccupazione, non a un prepensionamento. Occorre istituire tutti i possibili incentivi per un rientro di queste persone nel tessuto produttivo, non per farli uscire definitivamente. Siamo arrivati troppo tardi a questo passaggio; ma è un passaggio obbligato.

Che cosa pensa dell’uscita di Polillo: “Lavorare 7 giorni di meno garantirebbe un punto di Pil”
Non l’ho proprio capita.
hh

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